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Giuseppe Rensi

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Giuseppe Rensi nel 1902

Giuseppe Rensi (1871 – 1941), filosofo e avvocato italiano naturalizzato svizzero.

Citazioni di Giuseppe Rensi

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  • Mi diventa sempre più sbalorditiva e violenta l'impressione che la vita sia fondata su questo fatto semplicissimo e famigliarissimo: il mangiare. Perché, che cosa vuol dire mangiare? Che una vita distrugge lietamente, saporosamente un'altra vita per incorporarsela; che deve distruggerla per conservarsi. Ma che vuol dire dunque che per vivere occorra necessariamente mangiare, che la vita per reggersi abbia imprescindibile bisogno del mangiare? Vuol dire che la vita (la realtà) per esistere ha bisogno di distruggere sé stessa. Una realtà che si mantiene solo annientandosi, che si afferma solo togliendosi, che si pone solo negandosi. Non è forse ciò, per la nostra mentalità l'espressione stessa dell'assurdo? (da Interiora rerum, Società editrice "Unitas", Milano, 1924, cap. IV, p. 118)

Apologia dell'ateismo

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  • Negare l'ateismo è cadere nell'allucinazione, nella pazzia, nella mentalità crepuscolare dei bambini e dei selvaggi, incapaci di distinguere l'è dal non è.
  • O Dio è limitato, circoscritto, conforme alle condizioni formali dall'esperienza, oggetto fra oggetti, e non è più Dio. O è l'infinito e allora cade fuori dall'Essere, è non Essere. O Essere e non-Dio, o Dio e non-Essere.
  • Da trenta secoli si "dimostra" Dio, e non solo ancora non ne sono persuasi tutti, ma anzi i non persuasi sono cresciuti di numero. Ciò non vi dice nulla?
  • Dio e il Nulla sono sinonimi.
  • Non solo Dio in linea di fatto non è, ma appunto perché il suo concetto è contraddittorio, è, altresì, in linea per così dire, di diritto di logica, impossibile e assurdo soltanto pensare o supporre che sia. In altre parole, ancora una volta, per pensare che Dio sia − vale a dire per pensare che esista ciò il cui concetto contraddice se stesso − bisogna essere pazzi.
  • Veramente, come con efficace scorcio lirico ci rappresenta Nietzsche, Dio è morto per le sue contraddizioni.
  • L'ateismo è una religione; perché l'essenza di questa sta nel preoccuparsi della realtà ultima, nel pensiero diretta a questa, in una affermazione intorno a questa nella quale sentiamo di racchiudere il nostro maggiore interesse mentale, e, quasi a dire, di porre in giuoco o decidere il nostro destino.
  • Solo l'ateismo è puro e pio, solo l'ateismo è la grande vera religione.

Cicute: dal diario di un filosofo

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  • La religiosità e il vizio, insieme, sono l'indice che la vita sociale è diventata così triste e cattiva da non essere più tollerabile e da richiedere quindi una forma di stordimento, lo stupefacente vino o cocaina, o la stupefacente religione, che giovi a farci deviare l'attenzione da essa e a farci riporre, in un modo o nell'altro, fuori di essa, il fondamento d'ogni nostra possibile contentezza.
  • Ogni religione è dimostrata falsa dalla stessa religione; cioè o dalla religione successiva o da altre contemporanee. Tutte dunque sono false.
  • Di colui che non crede nella transustanziazione, nella divinità e nella resurrezione di Cristo, nella Vergine e nei Santi, si dice da tutti "non crede; è pazzo!". − Il non accettare la pazzia creduta da tutti, ciò appunto diventa pazzia.
  • Occorre limitarsi a sorridere bonariamente della superstizione saldamente regnante che c'è, senza indignarsi né sforzarsi di combatterla, consci che ciò sarebbe inutile, perché la vita dell'umanità non ha mai dato altro spettacolo che questo: una ridicola superstizione dall'immensa maggioranza ravvisata con assoluta certezza e ardente intolleranza come l'evidente realtà.
  • L'indice se uno ha incorporato e rivive in sé profondamente il senso e l'ideale classico, è, per me, quello di non poter sopportare la lettura del Nuovo Testamento, di sentirne una ripugnanza insormontabile come per un amalgama informe di squilibri mentali, aberrazioni, superstizioni, rapimenti e trasporti psichici, svenevolezze sentimentali e morbosità.
  • La credenza nell'immortalità umana è il più scandalosamente piatto e ridicolo prodotto della concezione antropomorfica. Se credi, se sai, se vedi, che una formica, un gatto, un cane, quando morti sono distrutti per sempre, quale enorme sciocchezza credere che avvenga diversamente per l'uomo.
  • La prova che siamo pazzi è che discorriamo – cioè ci comunichiamo idee. Se non fossimo pazzi, ci troveremmo circa ogni questione tutti nel punto della ragione, che è sempre solo uno, quello. Ossia penseremmo tutti la stessa cosa, e quindi non avremmo più niente da dirci. […] Malauguratamente, poiché […] col crescere della civiltà cresce la discrepanza tra le ragioni, tra le visuali, tra le volontà, bisogna concludere che più procediamo e più la scoordinazione spirituale aumenta, cioè la pazzia diventa più completa.
  • C'è chi pensa per far libri, quindi unicamente sotto il senso di responsabilità pel suo «sistema», dominato, vincolato, limitato da questa in ogni direzione e moto della sua attività intellettuale. C'è chi pensa pel bisogno di pensare: per fare del suo pensiero un delicato barometro che si risenta variamente della varia pressione della realtà.
  • Prendiamo un altro miracolo: il sangue di S. Gennaro. Come! Con tante sofferenze, crudeltà, ingiustizie, morali e materiali, naturali e sociali, di cui è pieno l'universo, e che da tempo infinito gridano chiedendo sollievo e fine, senza riuscire a piegare per ottenerlo l'inesorabilità delle leggi di natura, una potenza sopraumana spezza queste leggi, non per togliere di mezzo quei mali, ma unicamente per la sciocchezza di far bollire un grumo di sangue!
  • Perché il precetto così prominente in tutte le religioni, in tutte le legislazioni, in tutte le morali (e nell'istinto) «non uccidere», se fosse vero che questa vita è l'effimero passaggio ad un'altra vita eterna, e se non si avesse invece il sicuro senso che questa vita è tutto e che la distruzione di essa è la distruzione di tutto?
  • Morale. – Sono qui per un istante. Che cosa, in quest'attimo nel quale son qui, è saggio che faccia? La risposta può essere duplice ed opposta, eppure ugualmente ragionevole: Aristippo (il piacere del momento, perché non v'è altro che questo momento), e Spinoza (il pensiero delle «rex fixae et aeternae» e l'assorbimento in esso, perché il momento transeunte è nulla).
  • Si finisce con l'avere la sensazione disperatamente netta e sicura che la vita non è se non la corsa verso un abisso, senz'ancora che possa trattenere, senza alcuna seria speranza di trovare nel fondo di esso qualsiasi forma di salvezza, senza che nulla valga la pena di fare, poiché tutto si cancella e si distrugge. Puro e semplice precipitare in un vuoto.
  • Questo non disse S. Francesco. O tu, che, in varie forme, dalla nascita in poi, mi fosti presso ogni giorno e mi starai vicino sino alla morte, compagno più fedele d'ogni altro, l'unico che io possa sicuramente contare di ritrovare sempre al mio lato, il solo che mi dà l'assoluta certezza di mai abbandonarmi e tradirmi, fratello Dolore!
  • Sei annoiato degli avvenimenti della vita, sempre gli stessi? Vuoi una novità? Una vera novità? Di tutto hai fatto l'esperimento, tutto più o meno conosci. Una sola cosa v'è di cui non hai alcuna idea come di cosa veramente vissuta ed esperimentata, che nella tua vita non hai mai provato, che non riesci nei particolari nemmeno ad immaginare. Questa sarà la genuina, la grande novità, il fatto veramente e sostanzialmente diverso da tutti gli altri che ti sono accaduti, l'avventura straordinaria, nulla di simile alla quale hai mai conosciuto. Non senti mai la curiosità di sapere come sarà? Cos'è? La morte.

Frammenti d'una filosofia dell'errore e del dolore, del male e della morte

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  • Filosofo e farmacista. Un filosofo maturo ed esperto a chi gli chiede consiglio sui libri di filosofia da studiare, dovrebbe rispondere: che filosofia vuoi? Perché io so già che tu ne vuoi una: ossia che tu vuoi una dottrina filosofica che ti dimostri ciò che previamente e già sin d'ora credi e vuoi credere. Che vuoi adunque? Dio o gli atomi? La libertà o il determinismo? Dimmelo. Io ho qui nella mia farmacia i barattoli che contengono ciascuna di queste cose. Ti posso dare dell'una o dell'altra a seconda dei tuoi desideri o bisogni.
  • Il Bene è la Pace, la pace assoluta e immutabile. «Requiescat in pace». Ma lo può solo ciò che non si muove verso alcunché e non è mosso da alcunché, che non desidera e non teme, quindi non sente, non pensa, non vive – cioè il Nulla.
  • Vuoi la pace? L'hai, ma con la morte. Vuoi la «vita» (cioè l'agitazione e la passionalità vitale)? L'hai, ma con l'irrequietezza, la fluttuazione continua tra mancanza e sazietà, tra contento e malcontento, tra gioia e dolore: l'hai, cioè, col tormento. La pace è la morte. La vita è il tormento.
  • Sapersi in balia dell'imprevisto, sotto la mano dell'impensato, in potere del «caso»; titubanza e trepidanza circa il futuro della propria vita; paura del futuro; dubbio, timore e tremore per le proprie vicende avvenire; tali sono le caratteristiche essenziali della religiosità. Poiché le vicende avvenire, avvertite nella loro imprevedibilità e incontrollabilità, il Futuro, il Ciò Che Sarà, nella sua assoluta indipendenza da noi, è per chi non crede nel Dio delle religioni, esso stesso Dio, e, per chi vi crede, la manifestazione della potenza imperscrutabile e irresistibile di Dio.
  • Perché nel mondo fenomenico si manifesta tanto dolore, guerre, lotte, malattie, morte, contrarietà, dispiaceri (e per di più i dolori immaginari, a nobis ispsis facti, come l'amore e le sue delusioni), perché soffriamo tanto, perché tutta questa produzione di dolore nel mondo, se non perché nel germe o nell'essenza di questo, nel principio da cui scaturisce, nel suo Essere in sé (in Dio), c'è un fondo di dolore infinito?
  • Si dice: se vuoi essere felice abbandona i pensieri delle cose terrene e riempi la tua mente delle cose eterne. Così Spinoza, così Fichte […]. Così Aristotele […]. Ma, pur troppo, lo stesso pensiero delle cose eterne rende specialmente infelici, qualora, approfondendolo, vi si trovi la constatazione che il Tutto, l'Eterno, l'Essere, è assurdo, cattivo, vano, e l'«ordine morale» del mondo una menzogna. E contro Spinoza, Fichte, Aristotele, contro tutti gli allucinati dalla fissazione intellettualistica che la vita di pensiero dia la felicità, ha ragione l'Ecclesiaste (1, 18): «chi accresce la scienza, accresce il dolore».
  • Viviamo sotto strati di dolore, uno soggiacente all'altro e che per la presenza di quest'altro non viene percepito, ma che è pronto a far sentire la sua punta non appena quest'altro scompare.
  • Più vera dell'affermazione socratica che piacere e dolore sono attaccati a un unico capo, è quella che lo sono infelicità e speranza. Lo sono perché la speranza è la List della natura, o la «funzione fabulistica» che, nell'economia della vita, serve a tener testa all'effetto micidiale dell'infelicità, della sfortuna, del dolore e quindi a questi si accompagna, in uguale misura di essi, come al veleno il contravveleno.
  • Le credenze e le preoccupazioni morali e religiose rovinano irreparabilmente la concezione filosofica e la conoscenza della realtà. Dal momento che tu vuoi che le cose siano (religione) o debbano essere (morale) in un certo modo, non riesci più a vedere come effettivamente sono.
  • Hai disgrazie d'ogni sorta, economiche, pubbliche, familiari, ecc.? Non crucciartene! Anche quando tutte le tue disgrazie fossero tolte e sciolte tutte le difficoltà e i problemi ad esse inerenti, ti resta l'altra disgrazia ineliminabile, l'altra difficoltà insolubile, la morte. Questa è la disgrazia totale e finale, a cui, anche risolte e tolte tutte le altre, dài di cozzo in modo irreparabile. Perché angustiarti di quelle e cercar di levartele di dosso? Che cosa, riuscendovi, avresti ottenuto, poiché ti rimane questa? Se riuscissi a liberarti di quelle, non otterresti che di far giganteggiare questa. La presenza di quelle ti serve perché getta su questa un velo.
  • Quando si vede avvicinarsi la fine della vita, il pensiero «afferriamo senza scrupolo i godimenti, non moriamo senza aver provato anche questo», è, se non si crede nella vita futura (e chi vi crede sul serio, cioè così come crede alla vita presente?), insopprimibile.
  • Rendere la medesima cosa disprezzabile o rispettabile e nobile chiamandola con una parola diversa: questa è la potenza della parola. E perciò chi è padrone delle parole è padrone delle cose.
  • Il sepolcro e il tempo seppelliscono ugualmente sotto una sabbia uni forme la cortigiana e la santa, il martire e il carnefice, il tiranno e la sua vittima. Tutto è indifferente. Vedute le cose con questa latitudine di sguardo, virtù o vizio, santità o brutalità, tutte del pari insignificanti sciocchezzuole umane, si equivalgono: tutto è uguale; tutto è uguagliato nell'annullamento, tutto è ugualmente senza importanza e nullo.
  • "L'essere", questo è ciò che senz'altro è per sé stesso il male e il delitto. Esso non può reggersi se non mediante l'uccisione, la distruzione, l'incorporazione di altro essere, cioè di altri esseri (il nutrirsi, il nascere). Giusto è perciò morire, la morte è la giusta e meritata pena inflitta a quel delitto che è l'essere e nello stesso tempo è l'uscita da esso, cioè, la liberazione e la purgazione da esso. il vero e unico Σοτήρ, la vera e unica Σοτήρία.
  • Quando si riflette che il mondo è costruito in guisa che gli esseri viventi, tanto animali quanto vegetali [...] non possono persistere nell'esistenza se non nutrendosi gli uni degli altri, cioè uccidendosi a vicenda; quando si scorge da ciò che quindi il mondo è costruito sulla necessità di farsi male, sulla necessità del male; quando si pensa che da questo carattere dell'Essere totale deriva inevitabile a quella parte di esso che è l'umanità un'esistenza del pari necessariamente fondata sulla gara, sulla concorrenza, sulla lotta, sulla rivalità reciproca, e spesso sulla guerra vera e propria; bisogna concludere che, se si vuol parlare di Dio, colui che ne ha dato la più esatta definizione è il Leopardi: …. il brutto / Poter che, ascoso, a comun danno impera.
  • L'importanza della tua vita non è quale la vedi e la senti tu, ma quale la vede e la sente l'altro. Questo dell'altro infatti è il giudizio obbiettivo, spassionato, svincolato dalla visuale interessata soggettiva. – Sei insegnante? Hai un metro eccellente per giudicare il valore della tua vita e della vita umana in generale. Il tuo studente che sorriderà con soddisfazione perché la tua morte gli procurerà un giorno di vacanza, e che ventiquattr'ore dopo se n'è già dimenticato: questa è la veduta dell'Altro, la veduta obbiettiva, dunque veramente la valutazione esatta di che cosa sia e che cosa conti la tua vita.
  • Talvolta si vorrebbe poter sputare fuori la propria vita come un boccone troppo disgustoso; o scrollarla giù dalle spalle come un carico troppo pesante; o stracciarla e gettarla nel cestino come un romanzo che annoia o non piace o disgusta.

La mia filosofia

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  • Ogni pensatore sincero, che sappia vedere in fondo di sé e voglia confessare ciò che vi accade, constata che tutte le visuali o i sistemi filosofici gli oscillerebbero dinanzi nella loro «verità», nella «verità» che ha ciascuno, se egli, con una decisione «volontaristica», non tenesse ferme dinanzi alla mente soltanto, o in via predominante, le ragioni di uno, di quello che ha abbracciato e che gli è caro, se non volesse veder quelle sole, ossia se non volesse crederci.
  • Come, adunque, esistono le morali, ma non la morale, così esistono le giustizie, ma non la giustizia. E ciò vuol dire che, come la morale, così la giustizia non c'è.

Lettere spirituali

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  • Più si acquista la consuetudine del pensiero filosofico, e più si tocca con mano che il filosofo è artista. Non già uno che sa, ma uno che guarda. Non uno che sa: che conosce tutte le soluzioni che si sono date ad un problema, che è al corrente della «fase attuale» della logica o dell'estetica o della dottrina della conoscenza, e delle varie tappe che vi hanno messo capo. Ma uno che guarda: che, cioè, come l'artista, ha una certa sua visione personale delle cose e le esprime nel modo in cui le vede. Così, egli fa, al pari del poeta, nei trattati i suoi poemi, nei saggi o nei «frammenti» le sue liriche.
  • Il ragazzo che giuoca considera il giuoco come una cosa seria e vi dedica una seria attività (tanto che se ne accalora e spesso litiga e scambia busse) sempre nell'istesso tempo avendo presente l'avvertimento che non si tratta d'una realtà sostanziale e che il mondo del giuoco non è il mondo della vita vera. Questa è la soluzione. Bisogna per tutta la vita aver qualcosa di analogo a quel che è giuoco per i ragazzi: qualcosa che ci interessi come una cosa seria a cui dedicare una seria attività, e che nell'istesso tempo ci lasci l'avvertimento che non è nulla di essenzialmente importante.
  • Giovani e vecchi hanno un'intuizione opposta del mondo e della società. Per quelli c'è progresso, e la loro azione è efficacissima per intensificarlo, anzi per risolvere definitivamente, una buona volta, questa volta, i mali lasciati indietro dalle passate generazioni. Ai secondi appare che i mali continuano ad esservi e a persistere tali e quali, che è vano ogni sforzo per allontanarli, che il progresso è inesistente, che la storia è «aliter sed eam» [«In modo diverso, ma la stessa»]. Chi ha ragione? La risposta è data dall'argomento con cui Galileo mostrava la superiorità del sistema copernicano sul tolemaico: che, cioè, tutti quelli che cominciano a pensare nel primo modo, finiscono, costrettivi dall'ammaestramento dell'esperienza, col pensare nel secondo; ma nessuno dal secondo torna al primo.
  • Che cos'è che uccide? Che cos'è che conduce alla morte? La vita, con la sua lima assidua: dolori e piaceri, preoccupazioni e gioie, desideri e soddisfazione di essi, pensiero e giuoco: sensazioni, fatti di coscienza. Vuoi essere immortale? Rinuncia alla vita.
  • L'uomo onesto si trattiene dall'usare influenza intellettuale o morale sui giovani, anche quando, essendo investito d'autorità o avendo altrimenti ascendente su di essi, lo potrebbe. Poiché, mediante l'esercizio di tale influenza essi si infiammano per le sue idee, le abbracciano come vere, le credono. Con ciò egli sa di compiere un falso, poiché egli scorge bene, ciò che essi ancora non scorgono, quanto in quelle sue idee vi sia d'incerto. Poiché sa quanto la verità delle sue idee sia dubbia, chi esercita sui giovani influenza intellettuale od etica è un falsario e un immorale.
  • La sincerità è la più raffinata ipocrisia. Per poter efficacemente far credere una cosa bisogna che cominciamo a crederla noi. Il persuadercene sinceramente è una ruse della natura o della ragione o dell'istinto, che serve a crearci un'arma poderosa per far trionfare le nostre affermazioni.
  • Chi si trova improvvisamente caduto in qualche basso fondo dell'esistenza che gli era sino allora affatto sconosciuto […] resta come scisso in due uomini uno dei quali soffre la cosa, l'altro vi assiste. [...]. Io, la mia reale persona, è chi soffre o chi assiste? Si può farla essere, a scelta, l'uno o l'altro.
  • Credere che la propria vita spirituale possa totalmente e permanentemente fondersi con quella di un altro (amico, amante, moglie, figlio) è una delle grande illusioni da cui alla fine ci si risveglia. Il nostro vero e proprio fondo è incomunicabile, impartecipabile. Anche di fronte alle persone che più amiamo l'ego più intimo non ha finestre. Né esso di dà totalmente all'altro, né l'altro si dà ad esso, lo penetra, vi si confonde. Non è soltanto vero che l'uomo muore sempre solo, perché nessuno lo accompagna, né lo può accompagnare, nella morte. Ma vero è altresì che, anche nella vita, l'uomo è in ciò che ha di più suo sempre solo con sé stesso, sempre solo. Ciascuno ha un mondo esclusivamente suo. Quello che è per davvero il suo mondo è suo soltanto.
  • Il nostro fondamentale egoismo, il fatto che noi amiamo più noi stessi che qualunque altra persona, padre, madre, figli, il fatto che l'universo è per ognuno di noi il nostro io e che in fondo quando c'è questo c'è tutto e ci basta, è mostrato dalla rarità del suicidio per la morte di persone «amate». Ci consoliamo della morte di tutti, tanto è vero che continuiamo a vivere. Se veramente non ci consolassimo, se non amassimo ancora di più noi stessi, alla morte delle persone amate non vorremmo più vivere. Ama solo chi attesta il suo amore non volendo sopravvivere – chi si suicida.
  • Prova del nostro fondamentale egoismo è la seguente. Osserva bene, perché, veramente e soprattutto, ti colpisca, ti abbatta, ti renda triste, la notizia della morte d'una persona conoscente o amica. Se guardi attentamente fino in fondo di te stesso, scoprirai che per tre quarti l'impressione dolorosa che ne ricevi, ciò che «ti serra il cuore», deriva dal fatto che quella morte ti ridà ancora una volta, in un momento forse in cui non ci pensavi, il ricordo ed il monito che morirai anche tu. Ciò che principalmente ti affligge nella morte altrui è la rinnovata visione della certezza della tua.
  • Pare impossibile come, soltanto da ciò che egli stesso scorge ora quali errori e sciocchezze molte azioni che ha compiuto nel passato e che allora gli sembravano belle e brillanti, non s'accorga che molte azioni che fa nel presente, e che gli sembrano belle e brillanti come allora gli sembravano quelle, sono altrettanto errori e sciocchezze quanto adesso risulta a lui stesso che quelle lo erano.
  • La vecchiaia non è altro che il crescere del bisogno del riposo, e la morte il suo diventare continuo, permanente, assoluto.
  • Il riposo completo su di una sedia a sdraio, quando tutte le membra e tutte le fibre sono così completamente rilasciate che non si sentono più, è una cosa eterea. Il corpo diviene d'una leggerezza che confina con l'impressione della sua scomparsa, e non resta veramente altra sensazione, e anche solo appena vaga e accennata, che quella puntuale dell'esistenza senza rapporti col prima, col poi, col fuori. Sarebbe questa una premonizione della dolcezza della morte?
  • A che ti struggi nel compulsare volumi e nell'immergerti in dotte ricerche per cercar di venire in chiaro circa quale veramente ne sia l'elemento differenziale? La rivelazione stoica, la rivelazione buddhista, la rivelazione cristiana dicono assolutamente, nella loro essenza, la stessa cosa: rinuncia al mondo, regno dello spirito – mondo: vanità, insussistenza, apparenza, male; vera realtà: spirito, valori spirituali. Trovar differenza tra le tre rivelazioni – mentre questo ne è il punto centrale comune – è sottigliezza da erudito o puntigliosità partigiana.
  • Il sentimento religioso veramente grande zampilla dalla distruzione dell'egoismo e solo quando questo è interamente distrutto. E quando lo è? Quando è diventata intima e profonda la convinzione che l'io è nulla. [...] Ci sono molte persone che hai viste e conosciute anni or sono e poi hai perduto di vista. Saltuariamente ti vengono in mente. Chi sono? Dove sono? Che cosa fanno? Sono ancora vive o morte? Fantasmi, ombre, come dicevano Omero, Eschilo, Pindaro. – Ma appunto tale sei tu, nella mente degli altri; cioè nella realtà, non falsificata dal tuo soggettivismo, bensì obbiettiva. Che cos'è il tuo io? Quel gruppo di interessi e moventi di cui è riempito. Interessi economici, ricchezza, coltivazione, scienza, arti, fama. Sopravviene la morte. Tutto ciò, ossia tutto il tuo io, sfuma, come la fiamma d'una candela soffiata, come una bolla di sapone bucata. L'illusione dell'immortalità personale deriva dal fatto che ciò che è sembra impossibile possa venire a non essere.

Scheggie, pagine di un diario intimo

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  • Definizione di «sofista». Sofista è colui il quale, tesi che ci sono sommamente antipatiche, sostiene con argomenti che non sappiamo confutare.
  • Un uomo che pensa al proprio sviluppo spirituale farebbe una sciocchezza se scrivesse. Ciò che uno scrive serve (se mai) allo sviluppo spirituale altrui, non al proprio. Quindi, chi pensa al proprio, legge soltanto. Perché non lasciare che gli altri, scrivendo essi, siano servi dello sviluppo spirituale mio?
  • Il falso d'ogni presente politico si perpetua infallantemente nella storia. Ogni tentativo per confutare una leggenda radicatasi in qualsiasi presente, fallisce. Non la «storia» (vera), ma la leggenda resta come il vero della storia.
  • Proprio quando leggo qualche formidabile e inconfutabile dimostrazione dell'esistenza di Dio, mi sento sicuro che non esiste. – Ma guarda un po' se è possibile che la certezza della sua esistenza dipenda dalla tua dimostrazione; se è possibile, cioè, che, qualora esistesse, ci fosse bisogno che tu lo dimostrassi!
  • Dio – Non ti vedo e ti nego. Ma tu sei forse qui presente in me, entro di me, in guisa più intima e vivificatrice che non in molti di quelli che ti affermano. Poiché sei Eterna Verità, sei proprio il mio impulso ad abbracciare energicamente e ad affermare a costo d'ogni detrimento mondano ciò che scorgo come verità. Sei la stessa mia negazione di te; giacché essa è per me l'affermazione della verità che con mio svantaggio e pericolo compio contro i pregiudizi, le ipocrisie, gli opportunismi. Nella mia negazione di te sei Tu stesso che ti affermi.
  • Questo mio crucciarmi, senza fini personali, per la vittoria del male nel mondo, è l'elemento più nobile del mio spirito. Supposto che ci sia un giudizio divino futuro che scruti le reni degli individui, ciò che recherò innanzi al Giudice per controbilanciare le mie colpe e deficienze, i miei vizi e le mie passioni carnali, per evitare la condanna ed essere «salvato», sarà unicamente questo mio cruccio senza scopo per lo spettacolo dell'immoralità che celebra il suo splendido e potente trionfo.
  • Religione è nient'altro che solidarietà con le forze del bene contro quelle del male. [...] Se religione è nient'altro che solidarietà con le forze del bene contro queste forze del male, è la resistenza opposta a tale forze del male o l'adesione ad esse che rivela se un uomo sia religioso o no. Da ciò si scorge quale sia nella vita sociale l'atteggiamento veramente religioso. Dove manca tale atteggiamento, non v'è religione, ma chiacchiera di religione.
  • Preghiera. Ti ringrazio, mio Dio, delle amarezze, delle delusioni, degli insuccessi, dei dolori di cui hai cosparso la mia vita. Ti prego dal profondo del cuore di continuare. Se mi avessi ricolmo dei beni del mondo, sarei rimasto con la convinzione che non solo la mia vita, ma la vita, è buona. E la sete di vita avrebbe continuato in me insaziabile. Così tu mi hai fatto apprendere la grande e rara lezione, che pochi al mondo apprendono, l'apprendere la quale imprime ad un animo la vera nobiltà e superiorità, e impartendo la quale tu impartisci adunque un raro privilegio e un eccelso favore. La lezione che ogni forma fenomenica di vita è cattiva, è male, è dolore, che la vita lo è, che nella vita, in qualsiasi forma di vita dal male e dal dolore non si esce. In tal guisa, hai estinto in me la cupida sete e mi hai reso pronto e disposto pel Nulla.

Sguardi. Pagine di diario

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  • Ogni idea comincia con l'invocazione della libertà per sé di fronte ad una diversa idea attualmente dominante: ma non appena conquistata la libertà, tende a coercire a sé le coscienze. La vita dell'umanità non è così altro che una serie di conquiste di libertà che si trasformano immediatamente in coazione. La storia del Cristianesimo ne è la prova solenne.
  • Il rimprovero, anche se muto e non formulato, che sta nel dolore di chi vede morire padre, madre o figlio, contro un Dio che avesse creato un mondo dove siffatte cose sono, non solo possibili, ma necessarie, sta a provare che l'unico modo di scolpare Dio è quello di dichiararlo inesistente. La colpa d'un Dio, d'un'intelligenza e d'una volontà onnipotente che avesse creato un tale mondo di dolore e di morte sarebbe immensa, tremenda, in espiabile. L'esistenza d'un Dio, dato tale mondo, sarebbe cosa così mostruosa da far sconvolgere, impazzire, ribellare. L'unico conforto e il solo motivo di relativa tranquillità è il pensiero che Dio non esiste e che tutto è casuale concorso di atomi. Allora, meno male. Nessuno spirito ha l'orrenda responsabilità di questo mondo. Non viviamo sotto un demonio. Si capisca una volta la profondità dell'osservazione di A. France: «Il n'est pas de preuve plus évidente de l'inexistence de Dieu que la vie». (BROUSSON, A. France en pantoufles, p. 61)

Incipit di Spinoza

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Il grandioso sforzo di Spinoza è quello di guardare la realtà non con occhi umani, ma con quelli stessi della realtà se essa ne possedesse. Un realismo, la cui intrepidità non è mai stata oltrepassata; un perfetto ateismo, «merum Atheismum», come bene avevano visto i contemporanei (Ep. 42), se ci si rappresenta Dio secondo il concetto comune delle religioni, cosicché si corre rischio di equivocare profondamente nella comprensione dell'Etica se la parola «Dio» mentalmente non vi si cancella, e Johannes Clericus riferiva la voce che, in una presunta redazione originale olandese di essa, quella parola non figurava neppure e solo vi figurava la parola «Natura»; una qualche inclinazione materialistica, e (nonostante l'abituale opinione) un radicale irrazionalismo e un'ampia venatura di scetticismo: questi sono i tratti caratteristici dell'eroico pensiero spinoziano.

Citazioni su Giuseppe Rensi

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  • Giuseppe Rensi, «lo scettico credente» come ebbe a dirlo Buonaiuti nel 1945, fu scrittore mutevole, sempre sincero nella sua inquietudine, ma sempre in crisi. Il suo singolare scetticismo, sostanziato di ricerca e fede insieme unite, fu la teorizzazione del suo temperamento. (Eugenio Garin)
  • Il «caso» Rensi, commovente figura di «pensatore» tormentato, è una sorta di caso limite, ma non isolato, di «filosofo» socialista nella crisi delle due guerre: sbandato, inquieto, senza un punto d'appoggio. (Eugenio Garin)

Bibliografia

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  • Giuseppe Rensi, Apologia dell'ateismo, Formiggini, Roma 1925 (ristampa La Vita Felice, Milano 2009).
  • Giuseppe Rensi, Cicute: dal diario di un filosofo, Casa Ed. Atanòr, Todi 1931 (ristampa La Mandragora, Imola 1998).
  • Giuseppe Rensi, Frammenti d'una filosofia dell'errore e del dolore, del male e della morte, Modena, Guanda 1937; nuova edizione a cura di Marco Fortunato, Orthotes Editrice, Napoli 2011.
  • Giuseppe Rensi, La mia filosofia, in Giuseppe Rensi, Autobiografia intellettuale; La mia filosofia; Testamento filosofico, Milano, Dall'Oglio 1989.
  • Giuseppe Rensi, Lettere spirituali, Milano, Adelphi 1987.
  • Giuseppe Rensi, Scheggie, pagine di un diario intimo, Bibl. Ed., Rieti 1930.
  • Giuseppe Rensi, Sguardi. Pagine di diario, Roma, La Laziale 1932.
  • Giuseppe Rensi, Spinoza, Guerini, Milano 1999.

Altri progetti

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