Luigi Lunari

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Luigi Lunari (1934 – 2019), drammaturgo, traduttore, saggista e sceneggiatore italiano.

Da Sipario – Milano mi ha dimenticato

Intervista di Emanuele Aldrovandi, Arcipelagomilano.org, 5 novembre 2014

  • Milano è la mia città, ma negli ultimi vent’anni mi ha completamente ignorato. Nessun teatro milanese ha prodotto un mio testo. Testi che sono rappresentati dappertutto, tranne qui.
  • Io non voglio per forza essere in cattiva fede. Secondo me, semplicemente, mi hanno ignorato quando ho avuto successo a livello internazionale, e prendermi in considerazione adesso sarebbe come ammettere che si erano sbagliati. E questa è una cosa che a nessuno piace fare. In più, il problema grande, secondo me, è che molti artisti del teatro italiano non leggono. Anche in questo caso non faccio nomi ma alcuni lavorano come attori, registi, magari anche autori, poi fanno cinema, pubblicità e partecipano agli eventi pubblici. Io non riesco a immaginarmeli seduti nel loro studio che leggono un copione. E questa è una grave mancanza.
  • L’Italia del dopoguerra veniva da un ventennio fascista autarchico e nazionalista, e aveva una gran voglia di sentirsi europea, occidentale, americana. Perciò siamo diventati improvvisamente e incondizionatamente esterofili: tutto quello che veniva dall’estero era bello, meritevole e interessante, quello che veniva dall’Italia invece era robetta. È un pregiudizio che è difficile togliersi dalle spalle.
  • Tra i giovani drammaturghi noto sempre – anzi, quasi sempre, giusto per non generalizzare – una grandissima ignoranza. È evidente che non hanno letto un cazzo. Non hanno letto i classici greci, le laudi medievali, la commedia del Rinascimento, gli elisabettiani, eccetera. Io invece ho letto tutto quello che potevo. E saprei scrivere una scena à la manière di Goldoni, Shakespeare, Cechov, Ionesco. Una volta con Strehler ho scritto un prologo a un atto di Shakespeare e lui non si è accorto che non era di Shakespeare. I giovani autori invece non percorrono questa strada, non traggono insegnamento dal passato. E sbagliano.

Dalla prefazione di Dracula

Bram Stoker, Dracula, traduzione di Luigi Lunari, Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano, pp. 9-35, 2020. ISBN 978-88-07-90183-6

  • Un fatto indiscutibile è il suo successo, la sua diffusione in innumeri lingue, il fascino che ha esercitato ed esercita, le trascrizioni teatrali e cinematografiche, le esondazioni dei suoi temi in altri contesti, le riscritture ironiche e parodistiche, l'enorme massa di studi che lo hanno preso in esame sotto il profilo dei suoi rapporti con la scienza, con la magia, con l'arte gotica, con il romanticismo, con la forma del romanzo epistolare, con la condizione femminile, con la sociologia, e perfino – ma con una prudenza che si fa quasi sospetta – con la letteratura, che pur dovrebbe essere il suo campo di maggior pertinenza.
  • Il fatto che ai cattolici – cioè alla stragrande maggioranza degli irlandesi – sia stato negato per lungo tempo perfino l'imparare a leggere e a scrivere, è citato a volte come causa e fonte di una eccezionale predisposizione degli irlandesi all'affabulazione, alla conversazione, alla chiacchiera. Non metterei neppure un'unghia sul fuoco in difesa di questa teoria; tuttavia è innegabile che proprio alla forma d'arte più dialogica che esista (cioè a dire al teatro) l'Irlanda ha dato alla letteratura drammatica di lingua inglese un contributo del tutto abnorme rispetto alla propria entità.
  • [Su Bram Stoker] Va subito segnalata una marcata e quasi ostentata estraneità ai problemi della sua terra natale, compreso il grande momento del Rinascimento Celtico. La cosa non avrebbe particolare rilevanza (anche i suoi contemporanei Oscar Wilde e George Bernard Shaw si sono mossi in un'identica indifferenza) se non fosse un significativo indizio di una sua precisa volontà di "ricrearsi" una personalità che avesse a che fare il meno possibile con le sue origini. Allo stesso modo, anche l'accorciamento del nome – da Abraham a Bram – ha avuto forse anche lo scopo di liberarlo un pochino da quel sentore di ebreo, non molto gradito – checché se ne dica – alla pubblica opinione inglese del tempo. Tutto – forse – è da collegarsi a un suo desiderio di omologarsi in qualche modo come "inglese" tout court, e – di qui – a quel suo rapporto con Henry Irving, alla cui ombra si consumò tutta la sua esistenza.
  • Le cronache parlano di un Vlad II Dracula, principe di Valacchia, che intorno al 1430 si distinse nella lotta contro i turchi, e di suo figlio Vlad III Dracula l'Impalatore, che in sei anni di regno, tra il 1456 e il 1462, avrebbe ucciso tra i quaranta e i centomila cristiani, più un congruo numero di nemici turchi, con il prediletto metodo dell'impalamento. Nessuno dei due è compatibile quanto Stoker fa narrare dal Conte nel terzo capitolo del romanzo: in particolare sorprende che – eventualmente – egli non abbia pensato alle ghiotte occasioni di orrore che i gusti di Vlad Tepes (l'Impalatore) gli mettevano a disposizione. D'altronde, la componente orrorifica del suo Conte si esercita su tutt'altro piano da quello dell'impalamento e non è poi da escludere l'idea che un eccesso di orrore potesse risultare controproducente nei riguardi del lettore vittoriano. La conclusione sotto questo profilo è che il Dracula di Stoker non abbia assolutamente nulla a che fare con la storia dei vari Vlad – al di là della suggestione esercitata dal nome – e che l'autore abbia fatto un po' di confusione in proposito. Più concretamente, tra i motivi ispiratori del suo personaggio, è certo – per sua esplicita dichiarazione – che vi fosse anche lo stesso Henry Irving, d'aspetto fisico non incompatibile con il Vampiro transilvano.
  • Per ricco che sia il passato, e fin troppo ricco il futuro (in tutto lo sbizzarrirsi sulle pagine, sulle scene, sul grande e piccolo schermo...) l'immagine di Dracula è – per sempre – quella che Stoker ci ha consegnato; e la storia è quella che lui ci ha raccontato. In questo lavoro di riassunto e di messa a fuoco, Stoker pesca – se così si può dire – da quanto il passato gli ha messo a disposizione: del folclore conserva il potere scongiurante dell'aglio e il valore salvifico della decapitazione; tra le tecniche dissanguanti trascura il morso sul seno per adottare quello sul collo; fra le trasformazioni del mostro privilegia il lupo e il pipistrello; giustamente ignora come non congrua l'idea che il vizioso maligno rechi con sé la peste; dalla letteratura prende l'idea della raffinatezza e della cultura del protagonista, dalla storia raccoglie la misteriosa e inquietante origine dello stesso, e la sua ambientazione nell'inimitabile scenario della Transilvania.
  • Sotto un profilo meramente statistico, mi imbatto in una notizia che indica attorno ai tremila e quattrocento items le opere in qualche modo riconducibili al Dracula di Stoker o al suo protagonista. Si tratta di romanzi, riduzioni teatrali, opere liriche, balletti, documentari, fumetti, miniserie televisive... a volte ammiccanti alla figura storica di Vlad l'Impalatore, per un valore aggiunto di emozione e di brivido, a volte trasportando e riambientando la vicenda in contesti storici moderni, a volte ancora rovesciandone in chiave parodistica i contenuti, ma soprattutto – lungo un filo conduttore più coerente e conseguente – riorganizzando la materia un poco come se Dracula fosse una scatola di costruzioni con le quali i bambini compongono casette e castelli.
  • [Su Nosferatu il vampiro] Capolavoro del cinema espressionistico, è sostanzialmente fedele al modello, in cui però il protagonista ha i tratti ineleganti e scostanti del Vampiro del folclore (malgrado il nome e il titolo di Conte Orlok), e la conclusione è debole e poco convincente.
  • [Su Christopher Lee] Forse la più efficace e riuscita personificazione del diabolico Conte.
  • Non è chiaro [...] perché il Conte tenga tanto a recarsi a Londra, e perché trattenga Harker nel proprio castello per quasi due mesi, dandogli così tempo e modo di scoprire ogni verità sul suo conto; e perché poi faccia oggetto delle sue libidini Mina Murray, la sola donna in Inghilterra (e nel mondo) che attraverso il diario di suo marito Jonathan sa tutto di lui. Ma se credibilità e verosomiglianza devono essere elementi di giudizio, come potremmo non bocciare Corneille e Alfieri, con gli inverecondi assurdi generati dal rispetto delle tre unità aristoteliche?
  • In realtà, la donna vi esce con connotazioni non particolarmente brillanti quanto a contenuto ideologico, in un ritratto abbastanza maschilista, dove la figura femminile si adegua al mito del ninnolo prezioso, alta su un altare, adorata ma sostanzialmente poco considerata, o esaltata oltre misura se dimostra di avere anche lei un cervello. Elementi tutti secondari, che potrebbe anche essere non pertinente segnalare, soprattutto in considerazione del fatto che Stoker ha inteso scrivere un romanzo popolare a tinte forti e ben accette, senza particolari ambizioni ideologiche.
  • Stoker partecipa anche a un certo snobismo piccolo borghese, nel ridurre tutti i popolani che si incontrano a beoni eternamente assetati, sempre acquistabili e asservibili con un qualche spicciolo per una pinta di birra che spenga appunto quella sete. Un atteggiamento riconducibile anche questo alla frequentazione del teatro del tempo, dove sempre il popolano – con la sua rozzezza e il suo sgarrupato inglese – è occasione di divertimento per l'azzimato pubblico dei benpensanti.

Incipit di Cortés. Il Conquistatore del Messico[modifica]

L'oro, la gloria, il sangue[modifica]

Notte fortunata, l'ideale per la fuga! Il cielo coperto di nuvole, la luna presto tramontata dietro i monti e le foreste che coronavano San Jago, il mare agitato dal vento minaccioso di settentrione. Le onde sbattevano contro le fiancate della caravella, le più alte spazzando il ponte, e obbligando i pochi uomini di guardia ad aggrapparsi alle sartie per non essere trascinati in mare. Radi uccelli notturni si posavano sugli alberi e sul bompresso, levandosi in volo con stridule grida a un oscillare più violento della nave. All'orizzonte il cielo si fondeva con il mare, in un'unica cupa notte, rotta di tanto in tanto dal bagliore dei lampi, che rivelava per fuggevoli istanti l'incerto spumeggiare delle onde e il grigio gonfiore delle nuvole cariche di pioggia. Una di quelle improvvise tempeste, brevi e rabbiose, che si scatenano d'autunno nelle isole del Nuovo Mondo, a ripulire il cielo e a lasciarlo poi terso e limpido come una coppa di cristallo.
All'indomani, dunque, il tempo sarebbe tornato splendido, degno di quel paradiso. I venti avrebbero soffiato bonari verso l'oceano, rendendo facile e veloce il viaggio della caravella attraverso il braccio di mare che separa l'isola di Cuba dalla Hispaniola. Non c'era dunque un momento da perdere, per sottrarsi al processo che lo attendeva, davanti a una corte di funzionari pigri e indifferenti, che non avrebbero esitato un attimo a trasformare l'accusa di tradimento in una condanna a morte per l'impiccagione. Hernan Cortés, le caviglie strette nei ceppi, nell'angusta cabina sottoponte che fungeva da prigione, scrutava il cielo attraverso il pertugio dal quale di tanto in tanto lo colpivano spruzzi d'acqua salmastra. La sera prima, quando lo avevano portato a bordo, le mani legate dietro la schiena come un indio fuggito da una miniera, era bastata un'occhiata d'intesa con il capitano della nave per progettare e decidere il piano di fuga.

Sotto il segno di Montezuma[modifica]

Gli spagnoli scendevano verso la tierra caliente. In lunga fila, preceduti e seguiti dai loro alleati totonachi di Cempoalla - in testa i guerrieri, in coda i tamanes, o portatori - percorrevaon la stretta pista tracciata tra i campi e le foreste della piana di Cholula, verso il freddo valico dove mai una ruota - strumento sconosciuto al nuovo mondo - aveva lasciato la propria impronta.
La stagione delle piogge non era ancora finita. Ma come sempre al mattino, il cielo era limpido e trasparente, e il sole - da poco sorto dietro le montagne - non era ancora tanto caldo da rendere faticosa la marcia.
Hernán Cortés cavalcava in coda ai suoi soldati, affiancato ora da Marina ora da qualcuno dei capitani. Si lasciava alle spalle - ormai lontana e invisibile - la città di Cholula, distrutta e incenerita, ove si era consumato il tremendo massacro che ne aveva trasformato le strade in fiumi di sangue. Poche immagini gli turbavano ancora la coscienza e gli ingombravano i ricordi: l'immagine di altri suoi soldati che dal sommo di una casa gettavano il corpo sulle picche dei compagni che lo attendevano in strada; l'immagine della donna che non riesce a sfilare l'anello, e il soldato che le trancia il dito con il pugnale; l'immagine di un neonato preso per le gambe e scagliato a sfracellarsi contro un muro... Immagini che Cortés allontanò da sé alzando le spalle, e con un gesto nervoso della mano, quasi si trattasse di liberarsi di un insetto molesto. Questa, del resto, era la guerra: inutile porsi dei traguardi ambiziosi di conquista, per mostrarsi poi schizzinosi sui dettagli! Impossibile, e dunque inutile, eccitare i soldati con la prospettiva del bottino, chiedere loro di scatenare la furia necessaria alla vittoria, per poi imbrigliarne la violenza appena questa passasse - per così dire - il segno! Il grande traguardo cui egli mirava, in nome di Dio e del Re di Castiglia, avrebbe cancellato, una volta raggiunto, le inevitabili ombre sul cammino percorso. Cortés pensò all'immenso mondo nuovo che si sarebbe aggiunto ai domini del suo Re, pensò allo stuolo di popoli tra i quali sarebbe stato predicato il Vangelo, alle miriadi di anime accostate alla vera fede e salvate dalla dannazione eterna.

Il tramonto di un guerriero[modifica]

Con la morte di Montezuma era venuta a cadere l'ultima debole difesa dietro la quale potevano trincerarsi gli spagnoli contro l'ira degli aztechi. La prima e principale preoccupazione di Cortés fu quella di rendere ben chiaro che l'imperatore era stato ucciso dai suoi stessi sudditi ribelli. Occorreva dunque mostrare il massimo rispetto per la figura del sovrano defunto, e tributargli onori degni del suo rango nel rispetto della tradizione azteca.
Cortés convocò i massimi dignitari della corte imperiale, e li fece ambasciatori di un suo messaggio a Cuitlahuac, il nuovo imperatore, ora legittimato dagli ultimi lussuosi eventi. A lui chiedeva un incontro, ricordandogli che l'impero degli aztechi era ufficialmente tributario di Carlo I di Castiglia e d'Aragona, e che comunque non desiderava di meglio che ristabilire rapporti di pacifica convivenza. Come segno di buona volontà, gli spagnoli chiedevano inoltre di poter restituire pacificamente il corpo di Montezuma al suo popolo e ai membri della sua famiglia, e di partecipare alle esequie nel segno dell'amicizia che aveva sempre legato il sovrano ai suoi ospiti.
Cuitlahuac fece rispondere sarcasticamente che non sapeva chi fosse Carlo I né aveva voglia di saperlo. Gli spagnoli li aveva incontrati fin troppo, aveva avuto modo di verificare quale fosse la loro concezione di una "pacifica convivenza", e il suo unico desiderio era quello di vederli supini sulle pietre sacrificarli o accatastati sui roghi sui quali si ardono i cadaveri. Quanto alla restituzione del corpo di Montezuma, facessero pure, e partecipassero pure alle esequie. Un guerriero caduto dalle braccia di Huitzilopochtli può anche meritare di vedersi accompagnato all'estrema dimora dagli tzueles!

Bibliografia[modifica]

  • Luigi Lunari, Cortés. Il Conquistatore del Messico. L'oro, la gloria, il sangue, Rizzoli, 2000. ISBN 978-88-17-86376-9
  • Luigi Lunari, Cortés. Il Conquistatore del Messico. Sotto il segno di Montezuma, Rizzoli, 2000. ISBN 978-88-17-86377-3
  • Luigi Lunari, Cortés. Il Conquistatore del Messico. Il tramonto di un guerriero, Rizzoli, 2000. ISBN 978-88-17-86378-0

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