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Mirjana Marković

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Mirjana Marković (1942 – 2019), politica e accademica serba, moglie di Slobodan Milošević.

Citazioni di Mirjana Marković

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  • È possibile che qualcuno mi attribuisca l'intento di difendere indirettamente la Jugoslavia ed il socialismo, valori così anatemizzati in questa stagione della storia. Perciò vorrei essere più chiara: non stavo difendendo indirettamente la Jugoslavia ed il socialismo. Li sto difendendo direttamente. Con il cuore e con la ragione. Li difendo convinta che tra non molto tutti noi, o almeno la maggior parte di noi, capiremo che quel Paese e quel sistema erano migliori dei Paesi e dei sistemi nei quali viviamo. (da un diario apparso su Duga, novembre 1992)[1]
  • Se i serbi cominceranno a combattersi, sarà la loro ultima guerra. [...] La nuova Jugoslavia è sotto pressione per le stesse ragioni che portarono alla dissoluzione della ex Jugoslavia. (da un articolo di Duga)[2]
  • Noi siamo sempre stati amici degli albanesi. Non devono temere i serbi. Sono sempre stata molto contraria al nazionalismo, e fino ad adesso mi sono sempre impegnata per una vita uguale per tutti. In Jugoslavia gli albanesi non devono temere nessuno, in particolare i serbi. L'unico pericolo sono le forze Nato. I bombardamenti colpiscono tutti, e quindi la cosa più importante ora è fermarli. (da un'intervista di Bruno Vespa su Porta a Porta, 13 aprile 1999)[3]

Intervista di Milena Marković, Novosti, 14 marzo 2006; riportato e tradotto da D. Kovacevic in Resistenze.org, 17 marzo 2006

  • Non ho ancora deciso sul luogo della sepoltura di mio marito. Se fossi nella posizione di decidere, sarei per Požarevac. Purtroppo, sono ancora ostaggio del mandato di cattura dell'Interpol.
  • Lui richiamava l'attenzione della corte che si sentiva male, però non gli permettevano di curarsi. Non gli hanno neanche dato la possibilità di avere una pausa per una convalescenza. In realtà, non sarebbe bastata una convalescenza, servivano delle cure appropriate. L'ultimo consulto internazionale di medici da Francia, Russia, Jugoslavia, ha constatato certi cambiamenti vascolari nella testa, per i quali un'urgente interruzione di tutte le attività sarebbe stata indispensabile, nonché delle cure ospedaliere. Loro, però, non gli hanno consentito neanche questo.
  • Come potevano condannarlo, quando non avevano accertato alcuna prova di colpevolezza? Nelle 37 ore rimanenti non avrebbero potuto stabilire nulla che non gli era stato possibile provare in questi cinque anni. Il loro problema era che non riuscivano a condannarlo legalmente.Nello stesso tempo, come avrebbero potuto metterlo in libertà, quando avevano creato un Tribunale apposta per lui! Hanno impiegato tanta fatica e portato lì a testimoniare così tanti farabutti, ladri e bugiardi... Si sono trovati in difficoltà ed hanno deciso che sarebbe stato meglio che lui fisicamente non ci fosse più. Secondo la loro opinione questa era una soluzione "elegante". L'hanno perciò ammazzato gli assassini dell'Aja.
  • Per mesi nella cella di Slobodan tenevano accese le video-camere senza interruzione, le luci erano accese costantemente, tutto afficnchè non potesse dormire. Questa è una delle noti forme di tortura, il cui scopo consiste nel disintegrare nei nervi la persona, di non permetterle di dormire, lavorare, ragionare, che le fa diventare irritata, incapace di agire...

Mira Markovic: memorie di una strega rossa

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  • Seguendo mio padre nelle vacanze estive sull'isola di Brioni conobbi la nomenklatura dell'epoca, per la prima volta vidi da vicino Tito e sua moglie Jovanka. Erano davvero una bella coppia, lui mi impressionò molto, le persone che lo circondavano infinitamente meno e mi accorsi subito che quello non era il mio mondo. (p. 44)
  • Quelle visite a Brioni mi aiutarono a fare un po' di chiarezza in me stessa, in qualche modo mi spinsero a formulare una sorta di graduatoria delle persone che più amavo. La prima era e restava mio nonno Taras Bulba però il maresciallo Tito era egualmente ammirevole... insomma, amavo uomini di idee assolutamente opposte. Nel frattempo ero cresciuta, mi ero iscritta alla scuola secondaria e avevo cominciato a prendere confidenza con i grandi scrittori. Il terzo, grande amore della mia vita fu quello per Dostoevsky e si trattò subito di una passione contrastata, poiché allora si riteneva che il grande romanziere russo fosse controproducente nella formazione di un giovane comunista. (p. 45)
  • Né Slobodan né io eravamo cresciuti come orfani, lui apparteneva a una famiglia di divorziati ma questo non credo che in un Paese sviluppato rappresenti un dramma, io ero cresciuta in una famiglia in cui regnava grande armonia e in parte nella famiglia che mio padre si era ricreato dopo la guerra. No, sia Sloba che io siamo cresciuti in modelli familiari che erano fra i migliori, soprattutto per le condizioni dell'epoca, allora come oggi penso che per un bambino sia molto meglio crescere con genitori divorziati anziché in matrimoni segnati dalla violenza, dall'alcoolismo o dal parassitismo di uno dei genitori. (p. 51)
  • Eravamo uniti soprattutto nel desiderio di costruire qualcosa di nuovo, una vita serena in una società più libera e aperta, e per rispondere fino in fondo al suo quesito posso anche pensare, retrospettivamente, che in qualche parte delle nostre anime entrambi avessimo una parte «vecchia» da dimenticare ma soltanto nel senso di cancellare gerarchie riti e caste. (p. 52)
  • Ivan Stambolić considerava Sloba come una persona di riferimento, un uomo più esperto a cui chiedere consiglio. (p. 63)
  • In quei momenti in Jugoslavia – e oso credere in tutto l'Est europeo – la fine dell'impero sovietico era l'argomento di discussione che assorbiva tutti gli altri e ricordo che con Slobodan e i nostri migliori amici trascorremmo mesi a parlarne, a cercare di capire cosa sarebbe mai potuto accadere. Se ritorno a quella fase – e chiedo perdono per la presunzione – trovo che le cose che pensavo e dicevo abbiano trovato nella realtà tragiche rispondenze. [...] Era evidente che quel mondo stesse finendo ma il vero problema riguardava ciò che stava nascendo: io pensavo e sostenevo che se il miraggio del benessere avesse dovuto trasformarsi in nuova forma di omologazione, in altro sistema di livellamento verso il basso allora a noi restava solo la possibilità di combattere per una terza soluzione che peraltro esisteva già ed era intorno a noi. (p. 74)
  • Ogni volta che nella storia si è tentato di cancellare qualcosa è stato inevitabile un ritorno all'indietro. Da noi in Jugoslavia tutto questo non sarebbe dovuto accadere, né sarebbe avvenuto senza l'esplodere dei nazionalismi fomentato dall'esterno. (p. 76)
  • Slobodan è persona che sa sacrificare il proprio benessere per gli ideali e può rinunciare a vantaggi personali per il benessere della collettività. (p. 81)
  • Resta il fatto che anche nelle società più moderne per donne colte, capaci e anche femminili la strada della politica è pressoché sbarrata: nella Serbia più profonda conservatori e tradizionalisti erano pronti a vedere Slobodan come il padre della nazione, il nuovo capo che avrebbe liberato il Paese dal comunismo e non accettavano che questo patriarca avesse una moglie anch'essa personaggio pubblico, che commentasse gli avvenimenti e soprattutto avesse opinioni proprie. C'era gente che impazziva quando leggeva articoli a mia firma che dicevano: «Mio marito padre della Patria? No, per lui essere padre dei nostri figli è già un impegno sufficiente». Immagino quella stessa gente domandarsi: come fa Milošević a essere il nostro capo se non comanda neppure in casa sua? (p. 87)
  • [Sul Memorandum SANU] Il documento in realtà voleva esprimere soprattutto la frustrazione degli intellettuali serbi dopo cinquant'anni di titoismo e di appiattimento dell'identità nazionale. (p. 89)
  • Accadde che le violenze in Cossovo continuassero e che la popolazione serba cominciasse a reagire lamentando di non essere protetta, la situazione si era fatta molto tesa e su richiesta del presidente Stambolić, Sloba andò a Pristina per cercare di calmare gli animi. Io ero rimasta a Belgrado e ricordo che quella sera seguii gli avvenimenti in televisione. Dinanzi al video rimasi come tutti strabiliata, pensavo di conoscere bene mio marito eppure mai mi sarei aspettata una reazione del genere, a volte certi passaggi della storia paiono preparati ad arte e invece si verificano d’improvviso anche se poi si comprende che a provocarli era stato il cammino delle cose, una concentrazione di eventi che si preparava da tempo. Sloba andò a Pristina e nella Casa della cultura incontrò Azem Vlasi, leader degli albanesi mentre fuori si era raggruppato un gran numero di serbi, in maggioranza contadini. La polizia era intervenuta con i bastoni, furono lanciate pietre, alcune vetrate del palazzo si infransero, la folla cominciò a gridare «assassini» ai poliziotti, Slobodan interruppe il colloquio e volle andare sul portone per capire cosa stesse succedendo, il caso volle che una telecamera della televisione serba cominciasse a seguirlo passo per passo, e dunque la sequenza si caricava di tensione. Una volta giunto sul portone mio marito tentò un approccio politico, cominciò a dire «calmatevi, il partito risolverà i vostri problemi» ma dalla folla partirono altre grida, i contadini dicevano «ci stanno massacrando...». Bene, ricordo come tutti in Serbia quella sequenza in tv, mio marito era inquadrato molto da vicino, era come se quelle grida stessero provocando in lui una trasmutazione, lo sguardo gli si accese, caricandosi di sdegno cambiò anche postura e poi, in un tono di voce fattosi improvvisamente più alto proruppe: «Nessuno vi maltratterà, mai più!» (pp. 91-92)
  • Capii più tardi che quel momento a Pristina aveva liberato qualcosa che era già dentro di lui. Era un sentimento che io conoscevo bene, sia pure sotto altra forma: a cospetto dei serbi del Cossovo, in Slobodan erano esplosi l'amore per la povera gente e lo sdegno di fronte alle ingiustizie. La gente per strada lo riconosceva e gli voleva stringere la mano, molte vecchiette gli regalavano una mela e da quel giorno nulla fu più eguale, tutti i media di Serbia avevano scoperto l'«uomo nuovo». (p. 94)
  • La Serbia ormai si trovava costretta a difendere se stessa, è a partire dalla Serbia che era nata la Federazione Jugoslava, nella coscienza generale quello era stato il primo Paese che si era opposto con successo al nazismo, quella serba era anche la nazionalità più diffusa nel Paese e per tutte queste ragioni si sentivano più jugoslavi degli altri. Slobodan aveva cercato di risolvere il problema per via costituzionale, attraverso un referendum fra le popolazioni, ma le potenze occidentali non l’avevano appoggiato, stava per aprirsi la fase della guerra e da allora in poi mio marito avrebbe sempre basato le sue visioni sulla politica dello stato di fatto. (p. 105)
  • [Su Hillary Clinton] Perfino la moglie di Clinton in una società che dicono avanzata come quella americana ha dovuto passare per il ruolo di moglie prima di essere riconosciuta come donna. (p. 106)
  • Fino a quello scandalo vergognoso del presidente e della stagista della Casa Bianca Hillary Clinton era soltanto una «first lady» sorridente ed un po' antipatica, la stampa americana la sopportava a stento, poi d'un tratto quando ha preso le parti del marito mantenendo un atteggiamento defilato e serio il Paese ha scoperto le sue doti di vestale della famiglia e dunque di donna forte, fino a farne un personaggio. La signora Clinton era colta e preparata anche prima di quello scandalo ma per essere riconosciuta come personalità autonoma ha dovuto passare quelle forche caudine perfino in America. (pp. 106-107)
  • I serbi vivevano lì da secoli in perfetto accordo con i croati ed avevo battezzato quelle terre col proprio sangue, adesso il regime di Tudjman voleva buttarli fuori dalle loro case, aveva vietato l'uso del cirillico ed impedito agli ortodossi di accedere a qualsiasi incarico. La Serbia voleva aiutare i cittadini all'interno del proprio Stato ma i serbi di Krajina ci chiedevano aiuto e ci accusavano di condannarli all'annientamento. (pp. 110-111)
  • Neppure un decennio di violenze e la guerra delle diciannove nazioni più forti del mondo contro la piccola Serbia è riuscito a distruggerlo del tutto. Basti guardare a come sono ridotte oggi le tante repubbliche ex jugoslave, ai problemi che si ripropongono mutando semplicemente di nome e possono risolversi solo postulando ancora una volta l'idea dell'unità o quanto meno degli accordi transnazionali. Negli Anni Novanta vuoi per totale incapacità di osservare le cose vuoi per calcolo politico, era stata inventata la teoria dell'espansionismo serbo, adesso ci si scontra duramente con quella della Grande Albania, nell'arco di appena dieci anni la cosiddetta «comunità internazionale» ha proposto, o meglio imposto a questo Paese tre modelli del tutto diversi ed incompatibili fra loro: nel caso della Croazia il riconoscimento di uno Stato nazionale, per la Bosnia l'idea opposta, quella di tre etnie costrette a vivere assieme anche se poi continuano a non farlo, ed infine per il Cossovo una terza soluzione. [...] Quella della non scelta, del rinvio continuo in attesa che le cose di deteriorino fino al punto da richiedere un altro intervento da compiere non si sa come e non si sa con quali prospettive. (pp. 112-113)
  • [Sul Piano Vance-Owen] Mio marito Slobodan Milošević fu tra i maggiori sostenitori di quella soluzione non perché ne fosse entusiasta ma perché, come disse più volte pubblicamente, la considerava la più realistica. Si mosse più volte per sostenerla, collaborò strettamente col premier greco Mitsotakis e con lui incontrò più volte gli uomini che governavano la «Republika Srpska». Era felice quando l'accordo sembrava raggiunto e quando invece dopo lunghe esitazioni Radovan Karadzić rifiutò di sottoscriverlo, per giorni Sloba apparve molto depresso. Mi diceva: «Non posso mica legarli». Era talmente stufo di quella storia che per giorni non ne fece il minimo accenno. (pp. 116-117)
  • La deriva che la Bosnia aveva assunto fino dai primi mesi di «democrazia» mi era parsa subito pericolosissima con tre partiti nazionalisti che polarizzavano i voti delle rispettive etnìe ognuno minacciando di sopprimere gli altri. Nello stesso tempo ritenevo le esternazioni di Karadzić espressioni di pura follia: come faceva una persona come lui a dire che i serbi di Bosnia erano esposti ad un «annientamento da genocidio»? Scrissi che, a quanto mi risultava, per più di quarant'anni in Bosnia non erano esistiti lager per i serbi né bordelli riempiti di donne serbe, eppure a giudizio di Karadzić durante quel lungo periodo i serbi erano stati infelici mentre avrebbero dovuto essere felici dopo lo scoppio di una guerra civile che continuava a provocare tanti morti e tanta gente disperata. (p. 117)
  • [Sullo stupro durante la guerra in Bosnia ed Erzegovina] Era drammatico leggere di come tutte le parti in guerra avessero aperto case di tolleranza ed era grottesco, oltre che amaro, constatare come ciascuno di quei bordelli fosse etnicamente «pulito», posto che costringeva a starci soltanto donne dell'etnia avversaria. Era un altro dei modi, forse il più terribile, di voler annientare il nazionalismo opposto. (p. 118)
  • La Serbia si era fatta carico del loro destino aiutandoli con sottoscrizioni pubbliche, accogliendo i loro profughi in un Paese già vessato dalle sanzioni, inviando loro danaro e non sbarrando la strada ai volontari. Certo, ci sono stati anche reparti di «volontari» che si abbandonavano ad atti di criminalità pura ma negli stessi momenti sul teatro della guerra civile bosniaca la Croazia schierava addirittura il suo esercito regolare e le armate musulmane erano rinforzate da «mujaheddin». Lo scandalo era solo dalla parte dei serbi e le critiche riservate esclusivamente a un governo che a Belgrado doveva dominare le follie dei nazionalisti e mediare fra i tentativi di pace e le accuse di essere antipatriottico. (p. 119)
  • Sono quasi due anni che il cosiddetto tribunale dell'Aja e polizia di mezzo mondo cercano dappertutto quel misterioso danaro che mio marito e io avremmo accumulato, subito dopo la fine della guerra giornali più servizievoli di altri lanciarono addirittura grandi titoli con l'annuncio «trovato in Svizzera il tesoro dei Milošević» e naturalmente si trattava di un ennesimo buco nell'acqua. È chiaro a tutti che ogni movimento di danaro dello Stato serbo venne utilizzato per far fronte alla devastazione dell’economia interna e fornire aiuti ai serbi di altre nazioni. Non vorrei lanciarmi in paragoni azzardati, ma mentre noi continuiamo a raccontare le vicende della Jugoslavia si sta preparando qualcosa di terribile in Iraq col pretesto di mettere fuori uso armi di distruzione di massa che non ci sono. (pp. 126-127)
  • Noi sostenevamo non solo il diritto dei serbi ad avere un loro Stato ma quello di vivere in uno Stato funzionante e in grado di garantire ai propri cittadini un'esistenza decente, altre forze invece già puntavano a ridurre la Serbia a un protettorato o a devastarne il tessuto economico e questo si sarebbe visto molto presto. (p. 129)
  • Rimaneva persona normale con una vita normale, per età ed educazione era aperto al nuovo, era il solo «leader» balcanico a essersi formato nel dopoguerra e dunque mai aveva considerato uno straniero come nemico. Cosa offriva nello stesso tempo il panorama dei Paesi vicini? In Bosnia il presidente Izetbegović che in vita sua non era mai stato neanche in Francia; in Croazia un Tudjman che aveva dichiarato orgogliosamente «per fortuna mia moglie non è serba e neanche ebrea». In questo quadro era del tutto naturale che gli Stati Uniti e gli altri Paesi occidentali considerassero spontaneamente mio marito come interlocutore e unico possibile alleato, ma fu presto altrettanto chiaro che pur considerando richieste e pressioni dei leader occidentali lui avrebbe continuato per la sua strada e la Jugoslavia non sarebbe stata svenduta. (pp. 141-142)
  • [Sull'Ushtria Çlirimtare e Kosovës] I nuclei fondatori del terrorismo cossovaro si erano formati intorno a vecchi criminali di guerra già appartenuti alla divisione «Skenderbeg» delle SS e rifugiatisi quarant'anni prima sulle montagne ai confini dell'Albania. I figli di quei banditi, questi «nuovi» terroristi, erano però completamente diversi nell'addestramento, nelle disponibilità economiche e nelle armi. (p. 150)
  • [Sull'Ushtria Çlirimtare e Kosovës] A memoria d'uomo non si era mai verificato che nel giro di appena un anno una «formazione terrorista» si tramutasse in «armata di liberazione» e infine addirittura in delegazione diplomatica. Cosa dire? Sono i miracoli del nuovo diritto internazionale. (p. 152)
  • Walker parlava da mesi di «genocidio degli albanesi» mentre fra i poco più di mille morti causati da un anno e mezzo di guerriglia più della metà erano stati serbi, poliziotti ma soprattutto contadini. Ciò che sarebbe accaduto era chiaro da mesi anche se alle 19 nazioni che si allearono per bombardarci era molto meno evidente il fatto che questo Paese avrebbe resistito, perché da secoli ha conosciuto le ingiustizie e non le ha mai accettate senza reagire. Forse fu questa la vera sorpresa di quella lunga e ingiusta tragedia, il potentissimo Occidente degli strateghi e pensatori non aveva neppure ipotizzato il fatto che la povera e piccola Jugoslavia potesse rifiutare l'imposizione. Continuavamo a subire i più massicci bombardamenti mai compiuti dalla seconda guerra mondiale senza cedere alle intimidazioni del resto del mondo, ed anzi rispondendo con una protesta civile. (pp. 153-154)
  • Ricordo ancora con stupore certe conferenze stampa della Nato in cui ogni pomeriggio si cercava di lanciare una nuova menzogna, spesso talmente assurda da lasciare stupefatti tutti tranne i grandi «media» occidentali. I serbi succhiavano il sangue dei bambini cossovari preparando scorte per le trasfusioni, i serbi avevano ucciso tutti i «leaders» albanesi, i serbi costringevano Rugova a schierarsi per la pace con la pistola alla nuca. E nello stesso tempo sui muri di Belgrado apparivano scritte sardoniche, commenti salaci. La mia gente sa sopportare le disgrazie soprattutto attraverso l'ironia. (pp. 162-163)
  • Vorrei che quanti giudicano le vicende jugoslave si accordassero una volta per tutte sulla linea da tenere: o a Belgrado mio marito ed io controllavamo tutto, potevamo decidere tutto, oppure non si capisce perché le opposizioni continuassero a trovare diritto di parola, i partiti di opposizione spazi di manovra ed i giornalisti come Čuruvija anche i molti miliardi necessari ad aprire un settimanale a larga diffusione. (p. 164)
  • Io so soltanto (e molti testimoni l'hanno confermato) che in quanto presidente serbo Sloba aveva ordinato più volte e con estrema chiarezza di non torcere un capello ai civili, se non altro per non offrire ulteriori motivi all'aggressione della Nato. Se poi alcuni reparti militari hanno disobbedito agli ordini questo non può essere imputato ad un capo di Stato, almeno se esiste ancora un diritto internazionale. (pp. 165-166)
  • Io credo che nessuno abbia mai scandagliato a fondo l'animo e la psicologia di quei serbi, forse rappresentano davvero i pellerossa del XX secolo. Ed è assolutamente evidente come la storia non sia ancora finita, come il Cossovo rappresenti ancora e sempre il buco nero d'Europa, un luogo del quale nessuno intende occuparsi anche perché non saprebbe come farlo. Possiamo riepilogare le cose anche in questo modo: con il pretesto del genocidio ai danni dei cossovari – genocidio mai avvenuto – le più grandi potenze del mondo hanno distrutto l'economia della Jugoslavia per rendere possibile un genocidio – questa volta autentico – ai danni dei serbi nella stessa regione. Esiste qualcuno che in tutto ciò possa individuare non dico giustizia, ma una qualsiasi logica? (p. 170)
  • Io non credo che a battere Slobodan fosse stato Kostunica, quell'uomo non avrebbe avuto né le capacità né il carisma per farlo, Milošević fu sconfitto dalla Serbia profonda sfiancata da guerre e povertà, la gente non aveva votato per Kostunica ma contro Milošević. (p. 173)
  • In lunghi secoli di storia ed anche in situazioni enormemente peggiori mai era accaduto che la Serbia consegnasse ad altri il suo capo, monarca o presidente che fosse. Magari c'è stata molta gente che aveva fatto fuori monarchi e reggenti con mezzi propri, anche piuttosto spicci, però nessuno, mai nessuno aveva toccato simili traguardi di vergogna. (p. 191)

Note

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  1. Citato in Giuseppe Zaccaria, Mira Markovic: memorie di una strega rossa, Zambon Editore, 2005, p. 17, ISBN 88-87826-30-7
  2. Citato in Rischio di guerra civile, La Stampa, 18 gennaio 1997.
  3. Citato in Mirjana a Vespa. «Pace possibile», La Stampa, 14 aprile 1999.

Bibliografia

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  • Giuseppe Zaccaria, Mira Markovic: memorie di una strega rossa, Zambon Editore, 2005, ISBN 88-87826-30-7

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