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Umberto Silvagni

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Umberto Silvagni (1862 – 1941), giornalista e politico italiano.

Commedie e tragedie della storia

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  • Cristina da Pizzano, sebbene calunniata dal cronista francese Froissart, fu onorata ed esaltata vivente e poi un secolo dopo la sua morte. Quindi fu dimenticata e anche denigrata come scrittrice e poetessa. Il secolo XIX tornò a lei; e questa donna, che era stata già comparata a Cicerone per l'eloquenza e a Catone per la virtù, formò l'argomento d'una copiosa letteratura tedesca e francese, che tornarono ad esaltarla pur continuando a storpiarne il nome. (cap. III, p. 65)
  • Valentina [Visconti], con la sua virtù e la sua cultura, e mercé i compatrioti che l'accompagnarono e la seguirono, diè novello impulso al lunghissimo periodo di quella che oggi chiamiamo «espansione» italiana in Francia, e che nella Corte, nel Governo, nelle Arti belle, nelle Lettere, nel Teatro, nella Moda, nella Guerra e anche con l'equitazione, la scherma e la danza, penetrò in ogni parte della vita e della cultura dei Francesi e durò, più o meno, quasi senza interruzione, per quattrocento anni e sino alla fine del secolo XVIII. (cap. III, p. 70)
  • La demenza del Re [Carlo VI di Francia] divenne tosto più cupa, le sue sofferenze fisiche e morali si accrebbero. Quando si accorgeva che il delirio di persecuzione era per giungere al parossismo, invocava Dio e i Santi, chiedeva egli stesso di togliere le armi e i coltelli per impedirgli di nocere; poi si lamentava e gridava supplicando i nemici ignoti, che l'avevano stregato, di non farlo languire a lungo. Il Popolo, che, in nome del Re, aveva tanto sofferto per le angherie e le prepotenze dei Principi e dei ministri, padroni del Regno che taglieggiavano e immiserivano, fu vinto da grande pietà per l'infelice sovrano, il quale, nei lucidi intervalli, qualche cosa di buono faceva, e gli diè il soprannome di Benamato. (cap. III, pp. 73-74)

L'impero e le donne dei Cesari

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  • Il vilipendio dell'Idioma è giunto a tale in Italia, da sembrare che la Lingua nazionale sia scomparsa e da non capir quasi più quel che tanti dicono e scrivono; la depravazione letteraria, dalle relazioni scritte delle guardie di Polizia e degli Uffici publici, è passata a poco a poco ai giornali, al Parlamento, ai documenti del Governo, alla cattedra e ai libri, e, disdegnando la semplicità e la chiarezza, compagne della nobiltà del linguaggio, preferisce alle cose le astrazioni, ai termini propri le parole delle lingue e dei gerghi stranieri, spesso adoperate anche a casaccio, sovente orribili malsonanti stridenti con la favella più gentile e musicale che esista, e coniate con ibrida mescolanza di arcaismi solecismi e barbarismi. (Parte prima, La coscienza storica, cap. II, p. 12)
  • La depravazione letteraria trasforma l'aggettivo, allungandolo o contorcendolo, in sostantivo, e da questo trae poi, con un altro stiracchiamento, un novello aggettivo; storce in aggettivo anche il verbo e fa naufragare il periodo con gli avverbi e imbastardisce deturpa snatura un linguaggio tanto bello efficace scultoreo e glorioso con un guazzabuglio di metafore iperboliche, di enallagi[1] dovute alla frequente ignoranza dei verbi, di sinchisi[2] e di anacoluti, che sarebbero mirabili se non fossero balordi, e col condimento di una retorica asmatica bolsa ridicola, fino al punto di render la prosa non intelligibile. (Parte prima, La coscienza storica, cap. II, p. 12)
  • Dove non esiste il culto dell'Idioma, non vi sono, né possono esservi, Popolo e Nazione. Tale verità non ha bisogno alcuno di dimostrazione: da Dante all'Alfieri, al Foscolo, al Giusti e al Gioberti, tutti i grandi Italiani l'hanno proclamata e insegnata. Lo studio della Storia e il culto dell'Idioma generano il sentimento nazionale, lo custodiscono, lo ravvivano e vietano di tollerare offese alla dignità della Patria. (Parte prima, La coscienza storica, cap. II, p. 13)
  • Nell'anno 699 di Roma, Giulia, figlia bellissima, ricca d’ingegno e di cultura, di Cesare, era, da poco tempo, moglie di Pompeo, quando, per un aspro tumulto nei Comizi, si vide riportare in casa la toga insanguinata del marito. Furono tali il dolore e la commozione a quella vista, che svenne, abortì e di lì a pochi giorni «morì per la sventura del mondo, del quale non sarebbe stata turbata la pace se i legami del sangue avessero perpetuata l'unione di Cesare e di Pompeo»[3] (Parte seconda, Le donne nella Storia di Roma, cap. II, p. 178)
  • Livia fu, per lunghissimi anni, fedele compagna e consigliera di Augusto: di carattere virile, di grande cultura, gli fu di aiuto nel Governo; rigida di costumi, discreta, dissimulatrice, modesta, dolce e compiacente con Augusto, fingeva di non vederne le infedeltà e, secondo alcuni, anzi, si adattava a procurargli altri svaghi; severa, implacabile con gli avversari, scaltra, dominatrice, fu avida di comando e gelosa del grado acquistato colle sue grazie. (Parte seconda, La moglie di Augusto, cap. I, p. 197)
  • Livia, bella anche nella vecchiaia, poco larga d'affetto ai figli e nepoti, piacevole più che non fossero le antiche matrone, superba madre, dal giorno in che conobbe di non poter aver figli da Augusto, ebbe l'unico fine di conservare, un giorno, nelle proprie mani l'Impero, sotto il comando apparente del figlio maggiore Tiberio, che fu educato a seguire con piena fede la politica di Augusto. (Parte seconda, La moglie di Augusto, cap. I, p. 198)
  • Consigliera all'Imperatore [Augusto] di clemenza pubblica, [Livia] incoraggiò il marito nella severità familiare; matrigna implacabile, ava senza viscere, tenne i figli propri in continua soggezione e li trattò duramente per abituarli a riconoscere, un giorno, che il grado supremo supremo lo dovevano a lei. (Parte seconda, La moglie di Augusto, cap. I, p. 198)
  • Il nome di Messalina è rimasto come il più vituperoso attributo di scostumatezza e d'impudicizia, di sfrenata lascivia e di laida prostituzione. Questa donna, affine alla progenie dei Cesari, maritata a un Imperatore, sorpassò la trista fama delle due Giulie di Augusto e recò nel palazzo imperiale, insieme al vizio più turpe, la rabbia del sangue e delle rapine. (Parte seconda, Caligola e le mogli di Claudio, cap. II, p. 290)
  • Se le vere virtù delle mogli raramente aggiungono autorità e riputazione ai mariti, i loro vizi, invece, disonorano anche gli uomini più illustri; e Claudio, che fu buon imperatore, pel vitupero[4] delle laidezze di Messalina, per l'ironia sanguinosa di Seneca, che l'adulò vivente e lo diffamò morto, per le novelle raccolte da Svetonio, ha scontato, prima nella vita e poi nella Storia, nella Letteratura, nel Romanzo e nel Teatro, la ridicolaggine procacciatagli dalle turpitudini di Messalina, da lui per troppo tempo tollerate, sebbene non giungesse, lo dicemmo, alla dabbenaggine di Marco Aurelio. (Parte seconda, Caligola e le mogli di Claudio, cap. II, pp. 290-291)
  • Di salute cagionevole, sgraziato nel viso e balbuziente nell'ira, Claudio non ebbe né la grandezza di Augusto né la severità di Tiberio, e neppure si segnalò in campo come l'uno e l'altro fecero. Le vicende familiari lo avvolsero e lo travolsero in guisa che la sua figura è rimasta inseparabile da quella delle due ultime sue mogli; ma se lo studioso ne ricerca la vita politica nei racconti degli Storici, diventa agevole, meglio che per Tiberio, di scoprire il vero Claudio sotto il sembiante di quello falso, che ha fornito uno degli argomenti prediletti alla Commedia al Romanzo e a tanti libri che paiono sapienti. (Parte seconda, Caligola e le mogli di Claudio, cap. II, pp. 292-293)
  • Giulia Agrippina ereditò a suo tempo la scostumatezza dell'ava materna, Giulia di Augusto, e la crudele freddezza di quella paterna, Livia, senza avere né le virtù di Germanico né quelle di Agrippina, ma unendo, alla mente culta, volontà tenace e sentimento virile. (Parte seconda, Caligola e le mogli di Claudio, cap. III, p. 314)

Note

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  1. "Enallage", Cfr. voce su Wikipedia.
  2. "Sinchisi", Cfr. voce su Wikipedia.
  3. Valerio Mass., II, cap. V, 3; Plutarco, Pompeo, LII. [N.d.A.]
  4. Variante arcaica o letteraria di vituperio.

Bibliografia

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Altri progetti

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