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Domenico Tumiati

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Domenico Tumiati

Domenico Tumiati (1874 – 1943), scrittore e drammaturgo italiano.

La leggenda del Tirreno

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  • Il pezzo principale, il re della partita, il Tirreno, resta pur sempre chiuso nel suo mistero, e ride d'azzurro scintillio, si vela di tepide brume, tesse la sinfonia de' suoi venti e de' suoi marosi, indifferente alle disputazioni degli uomini da la breve vita. (p. 15)
  • Teorie e sentenze solenni affondano nell'acqua oscura de' millenni, ove guizzano pallide forme di leggenda, come i delfini intorno a quel Dio coronato, da la veste sparsa di stelle, che naviga su la stupenda tazza di Vulci. (p. 21)
  • Il volo degli uccelli dovette apparire come una voce divina alle prime età: dove essi andavano a traverso i mari, era certo una terra, dove volgevano era la vita, dove s'arrestavano, il destino. (p. 64)
  • La Grecia travestì co'l suo linguaggio trionfante ogni memoria; co'l suo linguaggio duttile, trasparente, che tutto penetra come l'acqua, filtra ne' meandri del pensiero e nelle viscere delle cose; tutto rispecchia fin nelle più occulte giunture, armonioso, ridente, gioia dell'umanità.
    Il mondo antico fu sua preda, e la forza latina che tutto vinse, si trovò irretita nella tela d'Aracne della lingua greca... [...]. (pp. 72-73)

Tripolitania

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  • Sappiamo forse perché desideriamo, perché amiamo? Desiderio e amore vengono dall'ignoto, e sono belli perché seminascosti da un velo d'infinito. (da Il mare dei corsari. Malta, 20 dicembre 1904; Le palme e il deserto, p. 5)
  • Il mare, ch'io solco adesso, col vento in poppa e la prora rivolta alle Sirti, è il più fantastico teatro, che mente umana abbia potuto creare. Tutti i popoli del mondo vi si sono incontrati e cozzati, come le nuvole nel cielo; città sono sorte e scomparse come spume; e il numero delle battaglie che vi risonarono, può eguagliarsi soltanto a quello delle tempeste. Le onde indifferenti e solenni cantarono i funerali della civiltà e del dominio fenicio, egiziano, greco, romano, arabo, spagnuolo; canteranno un giorno il tramonto degli imperi di Francia e d'Inghilterra, e canteranno, un giorno più lontano, anche il nostro. (da Il mare dei corsari. 21 dicembre 1904. A bordo dell'Enna; p. 8)
  • [La Moschea El-Gurgj a Tripoli] Varcata la soglia, i miei occhi furono colpiti da una muraglia di porcellana, dalle tinte verdi, rosee, azzurre, in disegni minuti, girata attorno da un portico, tappezzato di stuoie. Deponemmo le nostre calzature, e penetrammo in questo gioiello di vecchia porcellana. La luce, filtrando dalle finestre e dalle transenne colorate, rischiarava sedici piccole cupole bianche, giranti su nove colonne di alabastro.... Intorno, era un intreccio di trafori bianchi, di rose, di fiori, di rabeschi, dalle tinte scolorite, che parevano il riflesso di un mondo fantastico, oltre la vita. Noi camminavamo, come ombre, su quattro morbidi tappeti di Persia, che rivestivano il pavimento [...] A sommo delle pareti scintillanti, girava una scritta di maiolica, celebrante la grandezza divina; e al di sopra di un fregio a minutissimi trafori, che coronava le quattro pareti, si incurvavano le vôlte leggiere di una loggia, che lasciava travedere altre scintillazioni di maiolica e travature aeree di legno fiorito. [...] L'anima dell'antica moschea mi tenne avvinto: una grazia misteriosa, senza volto e senza nome, sorrideva al mio spirito. (da Musica al vento! Tarabolus, 13 gennaio 1905, Le Moschee; pp. 51-52)
  • [...] Guadagniamo un'altura, mascherata dalle pieghe del suolo, e un grido d'ammirazione mi sfugge dalle labbra. Via via, sopra un fluttuare di palme, la vista corre, di là dall'oasi di Tagiura, a una rosea catena, che cinge tutto il vilayet, come un arco che abbia per corda il mare. [...] Su questa altura, deve essere sorta una villa romana: qua e là tra le palme si scorge qualche frammento. Quale console o quale patrizio ebbe la superba idea di edificarsi una villa in questa solitudine, per contemplare l'incendio del sole, fra gli intercolunnii? È un vero incendio nel cielo.... una incandescenza di metalli; come se, in questo tramonto, un popolo di statue dovesse sorgere, e popolare le solitudini maestose. (da L'Eden. Tarabolous, 18 gennaio 1905; L'Eden, p. 66)
  • Come in uno specchio, la nostra anima si riversa in te, e ritorna a noi più misteriosa e più vasta, senza orizzonti, senza definite speranze, libera, libera, come se avesse spezzate le catene corporee e fosse raggiante al pari della luce.
    Tu sei lo spazio; e tutte le cose nascono da te e si risolvono in te. Sei la vita, e sei la morte; e benché lontano, o Sahara, io ti sento vicino a me, come un abisso silenzioso. Così grande è la tua presenza, così violenta la tua attrazione, che per un attimo, io credo di avere smarrito me stesso nella tua luce. (da Le fauci del Sahara; 24 gennaio 1905; p. 88)
  • Dietro a tutte le cose, dietro a tutti gli uomini, vi è un'ombra che non è dato a noi di penetrare; e che maggiormente ci confonde e ci attira, quando uomini e cose giungono al nostro sguardo la prima volta, nella loro fresca realtà, nella bizzarra armonia delle loro forme.
    In quell'attimo una pupilla nuova, un nuovo colore, un gesto, un accento, ci risveglia da un sonno profondo, e ci pone al contatto dell'universale mistero, che ci abbraccia tutti, bianchi e gialli e neri, e che può far piangere me sopra uno schiavo morente del Bornu, e può in un guerriero del Tuat, o dell'Air, destare il canto, che oggi io vorrei intonare alle prime stelle sgorganti sul Sahara. (da Le fauci del Sahara. 24 gennaio 1905; p. 96)
  • Notti di Jeffren, quante volte dovrò ripensarvi nel vario corso della vita? Non vidi mai splendere così luminosa la stella di Venere, nel cielo senza luna. Nelle brevi uscite, a notte, quando tutte le cime sono addormentate e il castello non dà segno di vita.... unica, folgorante, contro la porta bassa e ferrea del castello, mi balza per gli occhi fin dentro al cuore la stella azzurra, la più bella del cielo, vibrante come una pupilla divina sull'orizzonte sconfinato. (da Rumìa. 23 febbraio 105; Jeffren, p. 169)
  • Un grido nella notte, un grido violento di comando e di sfida, che rompa improvvisamente il silenzio e la tenebre, può assomigliarsi all'impressione che produce il Giem. Dopo lunghe ore di via rasa e sabbiosa, dove nulla attira l'occhio dal meriggio alla notte, immaginate di assopirvi un istante, e poi, aprendo gli occhi al lume di luna, di trovarvi innanzi un gigante della pietra, un edificio colossale dagli occhi magnetici, nudo, solo nel deserto, un anfiteatro romano. Tale è il Giem: la sua apparizione suscita un brivido, come tutte le opere dell'uomo che hanno superato le vicende, che portano i segni di uno smisurato potere, e ci trascinano nell'orbita di una vita, che crediamo chiusa per sempre.
    Si direbbe che potenze invisibili abbiano trasportato il Colosseo qui sulle rive africane.... (da Il marabuto del Giem, 19 Marzo 1905; Susa, p. 225)
  • Chi voglia sentire Keruàn, deve entrarvi a occhi chiusi, e dormire fino al tramonto del sole. Mentre scende il sole, si alza la luna, e per un istante si guardano in faccia. È un momento di luce indefinibile, una luce nuova, la prima luce nuova che io abbia visto, da che mi trovo in Africa. I due raggi si fondono in una atmosfera secca, che non ha da centinaia di giorni il benefizio di una pioggia; e l'effetto che ne risulta è fantasmagorico. Sembra che la luna abbia baciato il sole con le labbra aride, e le ritragga infuocate.... sembra che la luce sia il giuoco di un incredibile artista, invece di un effetto naturale. Bisogna perdersi nella città santa, col proposito di non ritrovare la strada. (da La Città Santa. 20-22 Marzo 1905; Luce nuova, p. 242)
  • Arrivare per partire, e partire per arrivare ancora.... vedere accendersi un faro su acque ignote, e addormentarsi al lume della luna in mezzo alle greggie; essere prostrati di fatica, di fame, di sete; e prendere il cibo e il riposo, con la gioia di una vittoria; aver l'illusione di non fermarsi mai, finché un urto improvviso non faccia rotolare nel sepolcro; essere la libertà stessa, che scuote la vita per le chiome e la bacia, fino a sentirne l'amarezza dell'alloro o la dolcezza delle fragole e del miele; respirare, fino al delirio, quella che gli Arabi chiamano chuè-el-halè, l'aria della solitudine: così ho sentito bella la vita! (da Ulterius!, 30 Marzo 1905, A bordo dell'Umberto I, p. 287)

Una primavera in Grecia

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Corfù, 7 marzo 1906.

Vita greca, vita greca... Quale segreto racchiudono queste due parole, che mi balzano oggi fresche e vergini alla mente, come due stelle dalla nebbia? Fino ad oggi non riuscivo a vederle, di là dai veli del classicismo tradizionale, di là dai simboli e dai sistemi, addensati attorno ad esse da centinaia di generazioni.

Citazioni

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  • Il Jonio può dirsi il mare dei poeti: tutto risonante degli esametri di Omero, attrae qui sulle nubi della leggenda anche le strofe di Saffo innamorata; e due volte vi passa navigando Aroldo, la prima per invocare una fronda dell'albero immortale di Dafni, la seconda per combattere e morire. Omero, Saffo, Teocrito, Byron e Ugo Foscolo, le grandi anime canore, battono ancora come alcioni le calme e gli sdegni di questo mare; e il loro canto si confonde con le canzoni echeggianti nelle isole, sulle tre note eterne, amore, cuore, dolore. (p. 21)
  • Si traversa sopra un ponticello di legno il Cladeo; un varco si apre, e nel fulgore del sole, appare una strage di pietre d'un grigio colore di conglomerato, una distesa di colonne infrante, come se la spada fulminea di Ares fosse passata sul volto della terra, radendo i templi e i ginnasi per vendetta.
    Ma in quella tepida conca della morte, la primavera aveva creato sorridendo il suo nido; e pei sentieri tortuosi, tra le pietre e le colonne, lanciava le sue piccole grida festose, suscitava le sue creature più fragili e delicate
    Olimpia, beata come una morta, dormiva in mezzo a quei fiori.
    Il mormorio del Kronion sembrava un respiro marino; ed era necessaria anche la bussola per orientarsi. Dove siamo?
    Si vaga dapprima, inebbriati da una sensazione unica che non ha nome, perché abbraccia ciò che perennemente nasce e ciò che non può essere più. Un'atmosfera luminosa attrae l'anima a volo, in mezzo a nubi erranti, fra canti di uccelli e di fronde, verso la fontana invisibile della vita. (pp. 30-31)
  • [...] il capolavoro della primavera, dal calice azzurro come il cielo notturno e le piume del pavone, apre i suoi geroglifici d'oro; è il giglio dei campi, l'iride selvaggia, che sembra sfuggita a Maja la tessitrice, dagli orli selvaggi del suo manto. (p. 32)
  • [Presso la porta dei Leoni a Micene] Siamo nell'Asia; qualche cosa di primitivo, ario, indiano, una volontà e una solidità asiatica, allontana ogni più pallido ricordo delle future costruzioni elleniche. Vi è però l'embrione di ciò che saranno le colonne, l'architrave e i frontoni del tempio greco; ma è tutto immerso ancora, quasi nell'ombra delle congestioni telluriche. Da questa porta, l'unica cosa che si attende è la proboscide di un elefante. Certo, la gente che abitò questa rocca, doveva possedere il contrasto asiatico della passione per l'oro, per le cose lucenti; e in mezzo all'enormità grigia delle costruzioni, le persone umane dovevano essere colorite e metalliche. (p. 83)
  • [La Tomba di Atreo] È buio, varcata la porta: un vano enorme. Il filax[1]prende un fascio di sterpi e li accende gettandoli nel centro della caverna. La fiamma crepita con un'ondata di faville, e il vuoto sale, si allunga, si incurva, svelando una vòlta altissima, opera muraria senza pari.
    Utoss o tafos tu Atreos: la tomba di Atreo – dice il filax.
    Ed è questa davvero l'età dei re. Le passioni e le lotte di tali uomini, erano destinate a creare le più grandi opere del genio umano, l'epopea e la tragedia.
    Si respira bene qui, in questo silenzio profondo: l'anima diviene più grande, e si crede al predestinato dominio dell'uomo, e alla sua parentela con Dio. Si esce più forti e più cami, e il nostro spirito riconquista una parte di sé. Nessun silenzio è più armonioso di questo. Sotto la vòlta cupa, rombano come migliaia di falchi le strofe di Eschilo e i canti di Omero. (pp. 89-90)
  • È il primo giorno di primavera, e una mollezza radiosa si effonde nell'aria, sulle erbe della terra e sulle onde del mare. Il tempo ha spazzato intorno ad esse ogni cosa, e sul sepolcro di Corinto, la città dei piaceri, delle statue e dell'oro, la primavera distende il suo velo di fiori, folle di eterna giovinezza. E dalle erbe tiepide, dal rugiadoso grembo della terra, sale un respiro ammaliante, un filtro d'amore, che getta i sensi in un delirio di ebbrezza, come se la tomba olezzante di Lais si fosse dischiusa, e risplendessero al sole i suoi capelli e i suoi monili.
    Come si guarda in cielo il lento formarsi di una nuvola, così io guardo in sogno, per un miracolo della primavera, ricomporsi la forma di Lais, tra le braccia fiorite del suo sepolcro. La brezza del mare inclina gli anemoni sul suo seno, e ne schiude la lieve tunica di porpora. (pp. 91-92)
  • [L'Acrocorinto] Tutte le epoche della storia e della guerra, lasciarono qui le loro orme, come in una selva millenaria si accumulano i detriti di tutte le generazioni arboree.
    Tra frantumi di marmi e cespi di rovi e di asfodeli, e costeggiando l'estrema cerchia delle mura che corona i fianchi precipiti dell'Acro, si giunge alla vetta, presso l'ultima torre, e di là lo spettacolo che si stende allo sguardo, è ricompensa ben superiore alla fatica. Il vento che batte da ogni parte L'Acro, impedisce di ammirare con agio ed a lungo; ma anche afferrata così, tra i colpi del vento e la sferza del sole, la vista è meravigliosa. Siamo sulla spina dorsale dell'Istmo: ai due lati, giù in fondo, come due specchi azzurri, si scorgono i due mari, il Jonio e l'Egeo, con le isole. Alle mie spalle, ondulando deliziosamente verso il seno saronico, fuggono le montagne dell'Argolide, e dietro ad esse si ergono le catene di Arcadia; alta su tutte Cillene, coperta di nevi. Di fronte a me, oltre la breve penisola di Paracora, che si spinge come una prora nel mare, dileguano nell'azzurro le montagne della Focide, della Beozia, della Megaride, su cui regna la vetta candida del Parnasso, solenne e misteriosa. Sono in mezzo alle vette sacre del mondo antico, e quasi per porre il colmo ai miei sogni, dalla roccia dell'Acro, ecco sgorgare la fontana di Pirene, ove Bellerofonte imbrigliò Pegaso, il cavallo alato, nato dal sangue di Medusa. Il ricordo dell'eroe vincitore della Chimera, mi giunge traverso la tredicesima olimpica di Pindaro:
    "E a Bellerofonte, che ardeva di domare Pegaso, apparve in sogno Atena, e gli donò un freno con redini d'oro... Si levò allora Bellerofonte, e col freno meraviglioso, imbrigliò il cavallo alato, e si slanciò alla battaglia dall'alto del cielo...
    Che possiamo desiderare di più, in cima all'Acro? Ogni altro ricordo di uomini e di cose diviene miserabile, di fronte alla triplice immagine piena di tutti i simboli, di Bellerofonte, di Pegaso e della Chimera. (pp. 97-98)
  • Vivevamo nel prodigio – e subitamente una nube passò sulla luna. Si era in mezzo al sacro recinto, presso il piedestallo dell'Athena Promachos, e di fronte a noi, il Partenone e l'Eretteo, con le colonne e le cariatidi, piombarono improvvisamente nell'ombra; e parve che una musica fosse sospesa.
    Allora io volsi le spalle alla luna, e mi collocai di fronte alle sei canefore, che sorreggono sulle teste la cornice ionica dell'Eretteo, e attesi sui loro volti e sulle pieghe marmoree delle loro tuniche, il riapparire della luce. Mi pareva di attendere la nascita dell'alba o il preludio di una musica celestiale. Fu prima un soffio di chiarore, un sospiro sulle canestre, tra la cornice e i capelli, poi un sorriso lieve sulle gote, un lampo sul florido seno; e poi, come se una carezza le avvolgesse, a poco a poco le braccia spezzate, i fianchi, le ginocchia, le pieghe dei pepli, si rallegrarono tanto di luce, che il silenzio parve interrotto. (pp. 134-135)
  • [L'Auriga di Delfi] [...] dritto nelle pieghe rigide della sua tunica di bronzo, come una incarnazione del silenzio che lo circonda, l'auriga è il silenzio che precede il moto, è l'attimo misterioso che genera i più dall'uno. Il primo istante di un'azione, o meglio la volontà che sta per generarla, è parente un poco di quel misterioso silenzio primordiale, che fu l'alfa del mondo. (pp. 216-217)
  • Il viaggio dell'Athos è il viaggio dei secoli, il ritorno a Bisanzio, all'impero greco; perché nella lingua di Platone e di San Giovanni Crisostomo, i monaci non hanno cessato mai di pregare, per i loro imperatori Foca e Costantino, come se fossero vivi tuttora nella loro reggia.
    Nessun altro angolo della terra osò gettare al tempo una così aperta sfida, e perpetuare la sua immobilità, ad onta dei secoli.
    In quel punto dello spazio, il tempo non ebbe nessun potere, perché fu spezzata la catena delle nascite, e la vita venne misurata soltanto dalla successione immutabile delle cerimonie e delle preghiere; senza che niuna differenza d'aspetto lasciasse ravvisare un intervallo fra gli ultimi uomini e i primi, come se lo stesso individuo, da quindici secoli, non avesse cessato di vivere e di pregare.(pp. 266-267)
  • Un'immagine dello spazio infinito non può esser data che dall'abisso e dalla vertigine, perché lo spazio puro è un nulla, un vuoto, spatiosum nihil, un nulla spazioso, come lo disse Sant'Agostino. E quel vuoto immenso ha un'anima sua, che si rivela con l'attrazione universa, e trascina la miriade dei mondi, nell'orbita di un costante ritmo. E come al di là del cielo e del mare, l'anima nostra sente l'onnipresenza dello spazio infinito, così al di là delle ore della nostra vita e dei secoli, al di là d'ogni successione, sente l'immanenza di un'eterna durata, di cui il tempo è soltanto una minima parte. Lo spazio potrebbe dirsi il silenzio dei corpi, e il silenzio lo spazio dei suoni. In seno a quell'infinito silenzio, si svolge la musica dei mondi, in perenne ritmo. (p. 268)
  • Ci allontaniamo dall'Olimpo, il monte della generazione, rivolti all'Athos, che della generazione volle persino abolito il ricordo; e che collocò sulla sua vetta nevosa, opposta all'Olimpo, invece di Giove, stallone infaticabile, una Vergine, Maria, intatta da ogni congiunzione corporea. Dall'alto delle due montagne, si guardano in faccia i due mondi: il primo, chiuso già nel suo ciclo; l'altro, che intesse senza fine gli anelli della sua misteriosa catena. (pp. 268-269)
  • Santa Sofia non splendeva che d'argento e d'oro; i marmi dei pavimenti variegavano come l'acqua dei fiumi, e i quattro confini del tempio potevano a ragione denominarsi dai quattro fiumi del Paradiso. Nessuna maggior meraviglia avevano contemplato gli occhi dei Greci; e Santa Sofia divenne, come in antico Olimpia, il centro di tutte le arti, la culla della poesia, della pittura, dell'architettura cristiana.
    Centinaia di poeti salirono sull'ambone cantando, nella lingua di Sofocle e nei nuovi metri, le scene e gli spiriti della Fede, e consegnandoli alla pittura perché li diffondesse nel mondo: e un profondo silenzio circondava il canto di quegli inni, nella sinassi gremita di popolo, e un gran plauso d'anime frementi li accompagnava alla fine di ogni strofa, come altra volta a Delfo e in Olimpia. (pp. 315-316)

Note

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  1. Custode.

Bibliografia

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  • Domenico Tumiati, La leggenda del Tirreno, Firenze, Casa Editrice "Nemi".
  • Domenico Tumiati, Tripolitania, Milano, Fratelli Treves Editori, 1911.
  • Domenico Tumiati, Una primavera in Grecia, Fratelli Treves, Editori, 1907.

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