Andrea Della Corte

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Andrea Della Corte (1883 – 1968), musicologo e critico musicale italiano.

L'opera comica italiana nel '700[modifica]

  • Istituito, agli albori del '600, il melodramma, i compositori non tardarono ad ampliarlo; non lo considerarono unicamente rappresentazione tragica, opera seria, come era stato delineato dai dotti riformatori della prima ora, ma consentirono che avesse liberamente accolto edonistici elementi estranei, senza troppo badare ai modi ed alla consistenza artistica di tale ampliazione. Nel giro di pochi anni il melodramma aggiunse al nucleo centrale di carattere serio una quantità sempre più numerosa di episodii di vario carattere. E come nelle arti figurative ed in quelle letterarie l'estetica e la moda consentivano o suggerivano, o per artistico desiderio di contrasto o per la soddisfazione edonistica del pubblico, l'ammissione nel quadro o nel poema di bizzarri motivi incidentali e spesso incoerenti, così nel novissimo melodramma furono presto inseriti, o per buon amore di antitesi o per meditato, commerciale scopo di allettamento, episodii diversi, svaghi, parentesi, digressioni. (vol. I, cap. I, pp. 15-16)
  • Notiamo, dunque, in questa commedia [Zite 'ngalera] del Vinci molta sensibilità, fini reazioni alle suggestioni librettistiche, eleganza e perspicacia; sciaguratamente la commedia da lui accolta è così sciocca e disuguale che soltanto un apologista saprebbe accontentarsi di essa per supporre e magnificare nel Vinci altre virtù, più profonde, più vaste, più generali, di quelle che pure affiorano alla, vista di questa sua opera. Nella quale l'accoglimento e l'espansione dei momenti patetici, veri fiori d'arte intima fra tanta banalità e sciatteria, sono certamente segni preziosi. (vol. I, cap. II, p. 33)
  • Materia imprecisabile; prosa, canto, danza; arte ed istrionismo; arcadia e trivialità; «genere» quanto altro mai indefinibile, apparente nei più disparati aspetti, l'intermezzo ebbe un solo costante carattere: quello di provocare diletto superficiale, distinguendosi così dai gravi atti del melodramma in cui era intercalato. (vol. I, cap. II, p. 37)
  • Così questa opera [Lo frate 'nnammorato] diventa un centone, priva di organicità, di equilibrio, di armonia. Pergolesi, vittima del libretto ispiratore, non ha avuto la visione del suo quadro, non ha saputo misurare la quantità d'emozione sufficiente a caratterizzare i personaggi patetici, s'è lasciato prender la mano dal momento lirico in sé, non lo ha inquadrato nel soggetto. Gli è mancata dunque la determinazione dei personaggi, la sintesi drammatica. (vol. I, cap. III, p. 55)
  • Se il Burney[1], viaggiando in Italia, non avesse incontrato a Roma, nel '70[2], Rinaldo da Capua e non avesse avuto da lui qualche notizia della sua vita, nulla sapremmo di questo «vecchio ed eccellente compositore napoletano», come il Burney stesso lo designa. Il suo nome frequentemente ricorre, nel corso del secolo, per fortunate rappresentazioni serie e comiche. (vol. I, cap. V, p. 81)
  • Rinaldo [da Capua] accusava il pubblico di ignoranza, o di mancanza di memoria, poiché pazientemente riascoltava musiche tanto poco diverse l'una dall'altra. E con molta sincerità includeva se stesso fra i criticabili, ammettendo francamente che, pur avendo scritto tanto quanto i suoi contemporanei, non si sarebbe, forse, trovata, in tutti i suoi lavori, neppur una melodia nuova. Ecco quali erano gusti del pubblico descritto da Rinaldo: le modulazioni, per sembrare naturali e riescire piacevoli, han da essere sempre le stesse; se si senta qualcosa di nuovo, questo viene rifiutato, come ineseguibile o spiacevole. (vol. I, cap. V, pp. 82-83)
  • Temperamento d'artista drammatico, esperto nelle espressioni molteplici dell'anima e dell'arte, tanto commosso quanto brillante nella sua vena di compositore strumentale, sempre nobile e sobrio, mai banale e sciatto, il Galuppi, che in qualche largo delle sue sonate clavicembalistiche mostra tanto calore vocale in frasi eloquenti, poteva cogliere i due aspetti principali del libretto goldoniano; pur sagrificando alla consuetudine le parti serie, poteva indugiarsi a cantare sensibilmente il dolore, poteva sbrigliare l'eleganza dei suoi ritmi nelle parti gioconde. Talvolta egli subordina l'orchestra al canto, la muove in dipendenza della dinamica vocale e l'accompagnamento è sempre fine ed opportuno; talvolta è l'orchestra che fa udire gighe[3], presti, allegri, e la voce con semplice linea melodica pare si limiti a suggerire imagini; in questi casi, specialmente, è evidente nelle linee strumentali la predilezione e la consuetudine cembalistica in disegni, in frasi, più proprie dello strumento a tastiera che dell'arco. Così egli canta or colla voce, or coll'orchestra. (vol. I, cap. VII, pp. 164-165)
  • [...] se le frasi vocali comiche del Galuppi non hanno sempre quella vivacità, quella eloquenza, quella plastica, quell'aderenza alla situazione ed al verso che è pur facile riscontrare abbondantemente in autori minori e popolareschi, esse sono agili, interessanti, ritmicamente precise. (vol. I, cap. VII, p. 165)
  • Due periodi di celebrità ebbe nella sua lunga carriera di compositore teatrale Niccolò Piccinni: uno, culminante nella comica Buona figliuola[4], fu di successo senza contrasti; l'altro, trascorso tra lotte ed amarezze e glorie, fu determinato dagli eventi che fecero di lui il competitore di C. W. Gluck[5]. Ed è soprattutto grazie alle polemiche sorte in questo secondo periodo che il nome di Piccinni ricorre, quasi per consuetudine, accanto a quello di Gluck, nella storia dello svolgimento del dramma settecentesco. (vol. I, cap. VIII, p. 173)
  • Si insiste molto, da varii storici, nella lode ai finali perfezionati dal Piccinni, più complessi, più lunghi[6]. In una produzione così disuguale come quella di lui è pericoloso generalizzare: per un pezzo interessante se ne trovano dieci morti. Né la lunghezza può essere cagione di maraviglia, se non fortemente sostanziata di tutti gli altri elementi costitutivi dell'opera d'arte. (vol. I, cap. VIII, pp. 233-234)
  • A parte i convenzionalismi, i pezzi riusciti in questa opera [I matrimoni in maschera] denotano un felice temperamento di compositore. Molte cose il Rutini ha lasciato senza rilievo, un rilievo, diciamo così, pittoresco, quale sarebbe stato desiderabile, ad esempio, con una qualche forma di canzone, nell'uscita degli zingari al primo atto, con qualche danza significativa nella lezione del ballo, ove un rigaudon era richiesto pure dalle parole, e nella scena finale. Quel che v'è di notevole è il temperamento del comico e del serio, in quelle convenzionalistiche «parti buffe», le quali in molti autori restano fiacche musicalmente, perché non decisamente buffe e farsaiole nel libretto, e, quindi, non ispiratrici di comici modi musicali. Qui il mezzo carattere è ben tracciato. Notevole anche il numero delle frasi in ogni pezzo, ciò che spesso seconda lo svolgimento o il passaggio sentimentale, e crea piacevole varietà. (vol. I, cap. IX, p. 261)
  • Quando Mozart, discorrendo della musica di Paisiello, ne rilevò il carattere di piacevolezza, e di piacevolezza sensuale, non erano ancora state scritte la Molinara e la Nina. Se le parole di Mozart avessero preteso di contenere un giudizio sintetico, parrebbero imprecise anche limitandole alla produzione del '84, poiché più d'un accento patetico aveva già mostrato la sensibilità drammatica non-tragica di Paisiello. Poi bisogna intendersi bene sul significato di «piacevolezza» e di «sensuale». Dopo l'84 gli accenti patetici diventano sempre più intensi, ed il loro calore tende ad una espressione sempre più lirica. Troppi[7] elementi, in ogni modo, mancavano al Paisiello perché la sua visione artistica avesse potuto concretarsi con piena intensità drammatica; superata la piacevolezza edonistica del Socrate immaginario, fallite le opere tragiche, nel mezzo si addimostrò la sua virtù; ed il comico, il non-tragico, di qua dal tragico, ebbe in lui un fervido e commosso cantore. (vol. II, cap. X, pp. 43-44)
  • Con altre opere italiane Sarti [durante il suo soggiorno a Copenaghen] otteneva successi strepitosi; ma gli affari andarono male. Gli furono condonati i debiti, ottenne una moratoria, una pensione. Impigliato in una faccenda poco corretta – prese danari da uno scrivano per ottenergli un posto, d'accordo con l'ambasciatore russo – incalzato dallo scandalo, fu punito coll'arresto a domicilio. Tentò scusarsi affermando che simili cose avvenivano normalmente nella sua patria. Fu poi destituito ed espulso; otto giorni di tempo. (vol. II, cap. XII, p. 70)
  • La musica di Guglielmi ha una facilità di canzone stradaiola, una verve, che oggi si direbbe operettistica. Ma se per pigra consuetudine il nome di Guglielmi si trova in molti volumi di pseudostoria musicale accanto a quelli di Paisiello e Cimarosa – e veramente la fortuna delle sue numerose opere fu clamorosa – in realtà il suo valore artistico, la sua dignità artistica lo distanziano, e molto, da entrambi i citati compositori. (vol. II, cap. XIV, p. 125)
  • La volgarità e la sciocchezza degli argomenti prescelti [dal Guglielmi], il carattere sbrigativo della sua musica, la superficialità degli intenti, l'esagerazione dei finaloni incoerenti lo designano un produttore dozzinale. (vol. II, cap. XIV, p. 126)
  • Siamo giunti con Cimarosa cinquantenne ai margini fioriti del romanticismo, a quelli stessi ove, stroncata, s'era fermata la giovinezza di Mozart. (vol. II, cap. XV, p. 173)

Note[modifica]

  1. Charles Burney (1726 – 1814), compositore, organista e storico della musica inglese.
  2. 1770.
  3. Danze ad andamento veloce in uso nei secoli XVII e XVIII.
  4. Nota anche come La Cecchina, ossia La buona figliuola.
  5. Christoph Willibald Gluck.
  6. Anche il Verdi raccolse la voce accreditata: «Piccinni, il primo, credo, che abbia fatto quintetti e sestetti, ecc. Autore della vera prima opera buffa Cecchina», e segnalò al Boito (Copialettere, pag. 632, 5 ottobre '87) il nome di Piccinni, come quello d'un autore importante, per l'indirizzo artistico d'una scuola di canto corale. [N.d.A.]
  7. Nel testo "troppo".

Bibliografia[modifica]

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