Anton Giulio Barrili

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Anton Giulio Barrilli, 1874

Anton Giulio Barrili (1836 – 1908), patriota e scrittore italiano.

Citazioni di Anton Giulio Barrilli[modifica]

  • Brutto, davvero, brutto di fuori; ma buono di dentro come i tartufi.[1]
  • [...] come i Genovesi, di dovunque venuti, son Liguri, così tutti i Liguri son Genovesi.[2]
  • È proprio di Napoli che si può ripetere con un famoso personaggio: qual è quel gentiluomo che non ha scritto una tragedia? Con questa variante, per altro, che la moda delle tragedie essendo passata, quei giovanetti egregi si erano dati al dramma e alla commedia; ingannando gli ozî signorili nel culto delle Muse, "cui giovano le quinte e la ribalta". La nobiltà napoletana segue in cotesto le tradizioni del suo duca di Ventignano e del suo barone (sic)[3] Genoino. Parte coltiva ancora gli studî classici, sotto gli auspici di Gargallo e di Basilio Puoti; parte si è data con ardore alla scuola moderna, e va sull'orme di Eugenio Scribe e di Alfredo de Musset. Ma gli uni e gli altri, col loro culto per la scena, ci fanno fede che l'amore delle lettere è sempre vivo nel seno dell'aristocrazia del Sebeto, diversa in ciò da quella di tante altre città italiane. Epperò va lodata, e tutti debbono augurarsi che i baci delle Muse, una volta dati, non vadano perduti.[4]

Galatea[modifica]

Incipit[modifica]

Rinaldo a Filippo.

Corsenna, 7 luglio 18...

Notizie mie? Eccole. Son venuto qua, come sai, per dar pace a questi poveri nervi; e ci lavoro alacremente, chiudendomi nell'inerzia più fitta. Bada, io non so quanto sia vero che ai giorni nostri i nervi si sciupino più di prima, nella gran varietà e nella troppa intensità delle sensazioni: ma è certo che oggi come prima lo strapazzo nuoce ad ogni organismo, e certissimo poi che il tuo vecchio amico aveva bisogno di questo riposo; tanto gli pare d'esser tuttavia sfiaccolato. Pure non faccio nulla, assolutamente nulla; questa lettera, che viene un po' tardi in risposta al tuo cortese biglietto, è la prima fatica dopo un mese di quiete. Già, non potrei far nulla, anche volendo. Non sento più; e se, come dice il filosofo, niente può essere nell'intelletto che non sia stato prima nel senso, io posso stimarmi finito, e metter magari l'appigionasi in fronte, come sulla facciata d'una casa vuota. Che bella cosa, dopo tutto, non sentir nulla; esser libero e netto d'ogni cura del mondo circostante; udendo senza commuoversi, vedendo senza partecipare, vivendo la vita dello specchio, che riflette tranquillamente ogni cosa e sorride! Ma sì, un po' d'ironia nel fondo ce la dovrebbe avere anche lui; per virtù, non foss'altro, degl'ingredienti che lo rendono opaco. Quel po' d'ironia non è finalmente la meno feroce delle nostre vendette? e il genere umano, salva sempre la immagine del suo creatore, non meriterebbe di peggio?

Citazioni[modifica]

  • Gli uomini son vandali su tutta la faccia della terra; e un giorno, ne ho fede, verrà un altro diluvio per castigarli. Spoglino per intanto le montagne, e vedranno.
  • Gran gente, i mediocri, quando sono operosi, attenti e pacati. Non hanno scatti di pensieri, di affetti, di risoluzioni; fanno quel che possono e sanno, magari quel che non sanno, ma con tanta buona volontà!
  • [Le donne] Ossequiate, lusingate, insidiate, ti amano per vanità: molte, se sei ricco, sentono il bisogno di entrare nella tua casa; nessuna il desiderio di penetrare nell'anima tua.

Explicit[modifica]

Ma che inchiostro! che inchiostro! Paura io, dell'inchiostro!.. Vi siete persuasa ora? È fuggita, si capisce, dopo avermi accoccato quello che lì per lì le è venuto alla mano; un gomitolo di refe. Sempre lei, sempre lei; viva Galatea, _Galathea for ever_! Ma non senza una giunta, intendiamoci. Galatea Morelli, s'ha a dire. Sarete meno mitologica, mia dolce bambina; ma tanto più vera, e sommamente piacevole a me.

RINALDO.

Incipit di alcune opere[modifica]

Arrigo il savio[modifica]

L'ultimo giorno di gennaio dell'anno 1882, un signore, alto della persona, dal volto abbronzato e dai baffi grigi, scendeva di carrozza, sulle prime ore del mattino, come a dire fra le otto e le nove, davanti ad un portone della via Nazionale, in Roma. Aveva l'aria assai nobile, era vestito con severa eleganza e andava diritto, con soldatesca balìa, come un colonnello in abito cittadino, che sotto le spoglie inusitate lascia indovinare i suoi trent'anni di spallini. Entrato nell'androne, e osservata non senza stupore la magnificenza delle scale, ascese al secondo piano, dove era scritto, su d'una piastra di porcellana, “Cav. Arrigo Valenti.

Capitan Dodero[modifica]

Eravamo, se ben ricordo, nove o dieci a tavola, ospiti di un cortese amico che la faceva da Anfitrione in una sua villeggiatura di Quinto, del bel paese di Quinto dove gli uomini nascono marinai, diventano capitani di lungo corso e si riposano spesso su centinaia di migliaia di lire.
Il pranzo, quasi tutto di pesci della costa e di cacciagione dei dintorni, era stato inaffiato con un certo vin bianco del paese, il quale è tenuto in gran pregio dai buongustai. Se a cotesto si aggiunga che il bue e il vitello erano di casa, le ortaglie e le frutta del pari, s'intenderà come quel pranzo potesse dirsi un saggio gastronomico di tutte le cose mangereccie del beato comune di Quinto. La Francia non s'era intromessa, giusta il costume colle sue poco autentiche bottiglie di Sciampagna; l'Italia faceva proprio da sé, chiudendo il simposio con una larga libazione di vino di Siracusa, fatto per svegliare i morti e per addormentare i vivi.

Castel Gavone: Storia del secolo XV[modifica]

A' dì 26 novembre dell'anno 1447 della fruttifera incarnazione (così dicevasi allora, nè io mi stillerò il cervello a rimodernare la frase), due cavalieri, che pareano aver fretta, galoppavano in sulle prime ore del mattino per la strada maestra che, svoltate le rupi di Castelfranco, lunghesso la marina del Finaro, risale verso il borgo.
Che risalga è un modo di dire, trovato da noi, i quali abbiam sempre la mente alle carte geografiche, e ci raffiguriamo il settentrione su in alto e l'ostro umilmente segnato nel basso. La strada di cui parlo era per contro ed è tuttavia in pianura, come la spiaggia che rasenta e come la valle in cui piega. Questa valle, che per amore del Medio Evo io dirò del Finaro, ma che i lettori possono, senza scrupoli di coscienza, chiamar di Finale, è stretta, ma piana, e la si abbraccia tutta quanta in un colpo d'occhio. Essa è conterminata da tre montagne; due la fiancheggiano, accompagnandola cortesemente fino al mare; un'altra la chiude a tramontana, o, per dire più veramente, la divide in convalli, dandole in tal guisa la forma di una ipsilonne, il cui piede si bagna nel Tirreno e le braccia si allungano verso il padre Appennino, che in quei pressi per l'appunto incomincia, spiccandosi dall'altura del Settepani, ultimo anello della catena delle Alpi marittime.

Come un sogno: racconto[modifica]

Già troppo si è detto che le ferrovie hanno spogliato i viaggi d'ogni loro bellezza, e sarebbe tempo oramai di confessare che n'hanno tolto in quella vece di mezzo la stucchevole uniformità.
Dite, di grazia: il carrozzone inzaccherato tutto odore di morchia, di cuoio e di grasso stantìo: la solita fermata all'insegna del Cannon d'Oro, o dei Tre Re; il brodo rifreddo colle sue scandelle a fior d'acqua; la gallina riscaldata, scompaginata e nerastra nel piatto; le mosche a sciami sulla tovaglia, più immonde, più fameliche e più fastidiose che non fossero le arpie ai compagni d'Ulisse; i briganti travestiti in cento guise, perfino (oh colmo d'audacia!) da padroni d'albergo; i paesi tutti che si succedono e si rassomigliano; la stessa via polverosa, fangosa e scabrosa; qua e là le stesse salite a picco e le stesse discese a fiaccacollo; le scosse, i traballamenti e i sobbalzi ad ogni giro di ruota; era questa la poesia del viaggio?

Dalla rupe[modifica]

Tra Noli e Finalmarina....
Ma voi, qui, amici lettori, interrompete da bel principio la lettura, per chiedere: Dov'è Noli? Dov'è Finalmarina? Per Noli, transeat, che dovrebb'essere vicino a San Leo. Tanto vero, che Dante ha scritto: “Vassi in San Leo e discendesi in Noli....
Nossignori, qui v'interrompo io. San Leo è nelle Marche e Noli è in Liguria. Dante, che corse, malinconico pellegrino, tutte le terre d'Italia, chiedendo pace e pane che non sapesse di sale, fu anche a Noli, o rasentò la sua porta soprana, molto probabilmente quando passò da quelle parti per andare a Parigi.

Diana degli Embriaci[modifica]

Era il 20 di ottobre dell'anno 1101 dopo il parto della Vergine, giusta la frase notarile dei tempi, ed era una giornata bellissima, rallegrata da un cielo senza nuvole e dai tiepidi raggi di un sole che pareva di primavera. Miracolo, questo, che accade di sovente in Liguria, ove la limpidezza del firmamento e la mitezza del clima fanno credere talvolta che il vecchio Saturno, o chi per lui, volti a rovescio, non una, ma cinque o sei pagine del calendario.

Il libro nero[modifica]

Il sole era tramontato in mezzo a certi nuvoloni neri neri che ingombravano l'orizzonte marino, minacciando, dopo una molto bellissima giornata, una notte burrascosa. Gli ultimi riflessi dell'astro, costretti sotto quella cappa di piombo, accendevano come una striscia di fuoco lunghesso il mare, che si vedeva nereggiare in lontananza, di là da parecchi ordini di monti e colline, che sono i contrafforti dell'Apennino ligustico.

Il ponte del paradiso[modifica]

— Che idea! — esclamò la signora Livia, lasciandosi ricadere sulle ginocchia il suo ricamo turco, mentre con le pupille stravolte da un moto repentino di stizza andava cercando il soffitto a cassettoni dorati del suo salottino. — Invitare le Cantelli! Ed hanno accettato? da te? —
Raimondo sgranò tanto d'occhi, per guardar bene sua moglie.
— Non ti capisco; — diss'egli. — Accettare un invito da me, non è forse come accettarlo da te? Non siamo noi la stessa cosa?
— Per gl'inviti, no; — rispose asciuttamente la signora.

Il prato maledetto[modifica]

Siamo al tempo dei figliuoli di Aleramo; di quel celebre Aleramo, che non fu punto favoloso, ma intorno a cui sono spacciate tanto favole, dopo ciò che ne scrisse frate Jacopo d’Acqui, nel 1334, cioè a dire tre secoli e mezzo dopo la morte di lui. Forse il buon frate, ingannato da qualche somiglianza di nomi, o dal fatto che veramente Aleramo avesse sposata una figliuola di Ottone I, la qual cosa dovette parergli maravigliosa senz’altro, reputò necessario di regalare ai marchesi Aleramici un’origine simile a quella dei conti della Mirandola.

Il ritratto del diavolo[modifica]

Lettori gentili, siete mai stati ad Arezzo? Se non ci siete mai stati, vi prego di andarci alla prima occasione, anche a costo di farla nascere, o d'inventare un pretesto. Vi assicuro io che mi ringrazierete del consiglio. La Val di Chiana è una tra le più amene e le più pittoresche "del bel paese là dove il sì suona". Anzi, un dilettante di bisticci potrebbe sostenere che il sì è nato proprio in Arezzo, poiché fu aretino quel monaco Guido, a cui siamo debitori della scala armonica. Ma, a farlo apposta, Guido d'Arezzo non inventò che sei note, dimenticando per l'appunto di inventare la settima. Forse, ribatterà il dilettante di cui sopra, Guido non ha inventato il sì, perché questo era già nella lingua madre, o il brav'uomo non voleva farsi bello del sol di luglio. Comunque sia, andate in Val di Chiana e smontate ad Arezzo. La città non è vasta, ma che importa?

Il tesoro di Golconda[modifica]

Viadarma, il bègari, andava innanzi a piedi, scalzo, semplicemente vestito del duti tradizionale dei poveri indiani, che è una lunga e larga fascia di stoffa, girata intorno alle reni e ricadente fino al ginocchio. Il viaggiatore, europeo all'aspetto, chiuso in un tutto vestito di pannolano grigio, lo seguiva in carrozza.
Come potessero andar di pari, con mezzi tanto diversi di locomozione, vi sarà facilmente chiarito da due notizie, di poco momento per la storia. La strada era pessima, e la carrozza, che meglio sarebbe di chiamare col suo vero nome di carretta, era tirata, non già da cavalli (che il viaggiatore non ne aveva trovati a Sciolapur) ma da due bianchi zebù, specie di buoi dalle gobbe penzoloni e dalle corna attorcigliate.

I rossi e i neri[modifica]

Era uno dei primi giorni di febbraio, nell'anno di grazia 1857, ed era, a mal grado della stagione, una bella giornata. A Genova le belle giornate, anco nel cuore dell'inverno, sono la cosa più naturale del mondo. Il cielo è sereno; il sole non si contenta di mostrarsi in tutta la sua splendidezza, ma vi scalda sovrammercato; l'aria è tiepida, sarei per dire balsamica. E perché no? In questa città i fiori durano nei giardini come nelle stufe, solo che vi pigliate la briga di ripararli dal vento. Quando fanno di queste giornate, i genovesi escon dal chiuso e vanno a passeggio, benedicendo alla provvidenza, che ai giorni di pioggia, di vento e di neve, alterna qualche settimana di questi giorni, che di là dalle Alpi ne vede pochi l'Europa nelle sue più famose primavere.

La figlia del re[modifica]

Di nome si chiamava Virginio, e di cognome Lorini; ma in paese gli dicevano Zufoletto, senz’altro. Quello era il soprannome che gli aveva appiccicato il signor Demetrio Bertòla, prendendolo per gran degnazione a bottega. Era un cosino da nulla, alto quanto un soldo di cacio; mingherlino, quasi diafano; sano, per altro, e svelto come un capriolo; ma sottile, Dio buono, tanto sottile da far temere che il vento, alla svolta della prima cantonata, se lo dovesse portar via con un soffio; men che uno zufolo, insomma, uno zufoletto a dirittura; e quel nome gli era rimasto. Zufoletto di qua, Zufoletto di là; ed egli non mostrava di aversene per male; che anzi, ne rideva, mostrando tutti i suoi dentini bianchi e facendo luccicare i suoi occhioni azzurri, di solito velati da un’aria di malinconia precoce, comune ai bambini venuti su senza carezze alle albe grigie della vita. Forse gli pareva, con quel soprannome, di essere un altro, di avere acquistato come un diritto nuovo, di appartenere più intimamente a quella casa, dove era stato sbalestrato dal caso.

La legge Oppia[modifica]

Birria, con uno spolveraccio di penne di pavone alla mano, sta ripulendo gli arredi del tablino. — Indi Mirrina, con un canestro di fiori.

(Birria è vestito di una tunica bigia, con maniche corte, stretta ai lombi da una cintura nascosta sotto le pieghe ricadenti dal petto. Capegli rossi e ricciuti. Calzari di cuoio. — Mirrina è vestita di una tunica talare e del peplo. Capegli pettinati alla greca. Braccia ignude. Suole allacciate, al collo del piede da maglie e correggiuoli intrecciati).

Birria: Ah, giuro pel Dio Saturno che non è lieta cosa servire in casa di consoli. Onor de' padroni, carico alle spalle dei servi! Ecco qua; due volte al giorno lo si spolvera, questo tablino del malanno. E l'essèdra, poi, s'ha da tenerla sempre in assetto, pei ricevimenti magni. Poi c'è da curare il triclinio, poi da[10] badare all'uscio di casa, che è sempre affollato di visite. Come son farfalline, coteste matrone! Su e giù, qua e là, continuamente in volta come le rondini, «Filò la lana, stette in casa sua»; così canta l'epitaffio. Ma gua', delle mie padrone non si potrà dire il medesimo?

(mettendo da banda il canestro da lavoro)

Filarono la lana, quando non le ci avevano altro a che fare; stettero in casa, quando aspettavano visite. E avanti a ripulire; avanti a spolverare!

La montanara[modifica]

«Illustrissimo Signor Conte,
«Con grave rincrescimento, ma non senza il conforto di vedere evitato un male più grande, annunzio alla Signoria Vostra Illustrissima come il governo di Sua Altezza Serenissima abbia posto gli occhi sui diportamenti del signor conte Gino, di Lei figlio primogenito. Le sue relazioni con persone indegne e non convenienti al suo grado, i viaggi frequenti, uno dei quali fu protratto, come consta a questo ufficio, ben oltre i confini dei prossimi Stati di Parma e Piacenza, e finalmente lo scandaloso episodio della scorsa domenica, nella villa dove il predetto conte Gino di Lei figlio ha osato trarre da un mazzo di fiori sconvenientissime allusioni alla bandiera piemontese, hanno costretto il governo di S. A. S. ad uscire da quei riguardi che il cuore paterno del nostro augusto Signore avrebbe pur voluto osservare.
«La severità delle disposizioni sarebbe stata più grande e meglio proporzionata alla gravità dei trascorsi, se all'animo della prefata Altezza Sua non fosse piaciuto di temperare i proprii e giusti rigori, pensando ai meriti della S. V. Ill.ma, e ricordando com'Ella, da leale e fedelissimo suddito, anche in tempi più sciolti, quali furono quelli dell'infausto 1848, ricusasse costantemente di riconoscere il sedicente governo dei rivoltosi. Egli è per ciò che la prefata Altezza si è degnata di comandare che il conte Gino Malatesti vada a confine a Querciuola, e più non ne esca fino a nuovo ordine, come correzione sua, se è possibile, e come esempio salutare ad altri nobili, che potessero derogare siffattamente al grado loro, e venir meno in tal guisa alla benevolenza del Padrone, da dimenticare in qualche modo il loro obbligo di fedeltà.
«La differenza fra il trattamento usato al predetto suo figlio e quello che toccherà agli altri suoi complici, dimostrerà alla S. V. Ill.ma quanta clemenza alberghi nell'animo del nostro venerato Signore. Disponga Ella pertanto, appena ricevuta questa confidenzialissima lettera, che il figlio suo conte Gino, senza indugio di ore, senza tentar di comunicare con altre persone, o di presenza, o per lettere, sia avviato alla sua destinazione. Non le nascondo che questo ufficio dovrà vegliare dal canto suo all'adempimento rigoroso dell'ordine e delle sue modalità, quali ho avuto l'onore di significarle.
«Colgo l'occasione, illustrissimo signor Conte, per rassegnarle gli atti della mia servitù, ecc., ecc.»
Così il direttore di polizia del duca di Modena, in un giorno del 1857, che non occorre di precisare. La lettera era diretta al conte Jacopo Malatesti.

La notte del commendatore[modifica]

- Signora Zita!
- Signor padrone, comandi.
- Il mio tè.
- La servo subito. -
Questo era il breve dialogo che ricorreva ogni sera, intorno alle dieci, e da anni parecchi, tra il signor Commendatore e la sua governante; quegli dalla sua camera da letto, dove stava terminando di leggere i giornali, questa da una saletta vicina, dove stava aspettando i cenni del padrone.

Le confessioni di fra Gualberto[modifica]

Nessuna cosa ad uno scrittore, dopo il titolo del suo libro, è più bisognevole d'una buona protasi, o cominciamento che dir si voglia. Anche un adagio, prezioso stillato di scienza popolare, ammonisce che "chi ben comincia è a metà dell'opra"; il che per altro non s'intenderà esser vero, se non ammettendo che si possa tirare innanzi a furia di sciocchezze, pur di aver fatto bella comparsa in principio. Facciamoci vivi alle mosse; per tutto il rimanente della via è lecito impoltrire, appisolarsi a cassetta (vedete Orazio che ne concede larga perdonanza ad Omero); l'essenziale sta nello svegliarsi, da bravi cocchieri, in prossimità della posta, e, con alto schioccar di frusta e galoppar di cornipedi, mettere il borgo a romore.

L'olmo e l'edera[modifica]

Racconto una storia vera, giusta il mio costume, che dovrebb'essere di tutti coloro i quali non sono molto esercitati nell'arte del novelliere. Facile è lo inventare, e ci si mette quanto a dir male del prossimo; difficilissimo, poi, dare alle sue invenzioni la evidenza del vero, lumeggiarle con quei tocchi di pennello che le fanno balzar quasi dalla tela. I fatti, per tal guisa affastellati, si tengono ritti per miracolo; i caratteri, dipinti di maniera, non istanno né in riga né in spazio; gli è insomma un guazzabuglio, il quale non mette nulla in rilievo, nulla, se non forse la tracotanza dell'autore.

L'undecimo comandamento[modifica]

Leviamoci il cappello, signori lettori, perché siamo in casa del sottoprefetto di Castelnuovo.
I Castelnuovi sono molti, sulla faccia della terra, e voi forse aspetterete che io vi dica in quale dei tanti vi abbia condotti. Ma io, con vostra licenza, non lo farò, per ragioni di alta convenienza ed anche di sicurezza personale. Il sottoprefetto del mio Castelnuovo sarebbe capace di aversela a male e di farmi arrestare come ozioso e vagabondo, la prima volta che mi saltasse il ticchio di visitare il suo circondario. Ora, siccome io ci ho proprio un gran desiderio di tornare laggiù e di non esser molestato nelle mie corse sconclusionate, voi consentirete, spero, che in questo particolare io mi tenga prudentemente a mezz'aria.

Lutezia[modifica]

Parigi, 15 settembre 1878.
Se d'ogni cosa che si è fatta, o si sta per fare fosse costume di cercar le ragioni, si troverebbe alla stretta dei conti che queste ragioni si restringono a poche, e non tutte sufficienti, come le voleva il Rosmini. Io, per esempio, son venuto a Parigi senza un vero perché, senza un bricciolo d'interesse, o la scusa di una grande curiosità, solamente per fare come tutto il mondo, in questi tempi d'esposizione universale. Ed eccomi qui, con mezzo mondo alle costole. L'altra metà c'è' già stata, povera lei, con un caldo assaettato, mentre io ci son giunto e ci sto con un fresco che innamora. Appartengo alla gran metà dei soddisfatti, non c'è che dire.

Monsù Tomè[modifica]

«Niente si perde, a questo mondo, e tutto viene in taglio, quando è la sua ora.» Così dice la filosofia popolare, espressa in proverbi, e cosi ripeteva spesso la mia carissima nonna, filosofando la parte sua. È poi vera, la sentenza? Pensandoci bene, mi pare che ella debba intendersi con qualche restrizione. Vedete, per esempio; mi viene oggi in taglio anche il ricordo di Monsù Tome, ma pur troppo si è perduta nell’animo mio la memoria del suo riverito cognome. L’ho io mai saputo, del resto?

Napoleone: la vita italiana durante la Rivoluzione francese e l'Impero[modifica]

La notte dopo il 12 aprile del 1796, un giovane comandante d'esercito, passata la Bormida con una vanguardia di ottomila Francesi, veniva ragionando in certa sua forma tra imperiosa e familiare con uno di quei valligiani, tolto poc'anzi per guida fino alla gola di Plodio. Tra l'altro ch'egli disse, queste parole rimasero scolpite nella mente dell'ascoltatore, preso di molta ammirazione e già disposto a gran fede: “Ci sono in Italia duecentomila poltroni; ma io li impiegherò.„ Parlava facilmente italiano, il generale francese, perché era nato italiano di terra e di stirpe; parlava volentieri italiano in quell'ora, perché, girate appena le Alpi sul primo nodo dell'Appennino, amava trarne il buon augurio con suoi fratelli di sangue, sperati amici e cooperatori di vittoria. Diceva ancora di non esser venuto a guerreggiare i popoli, ma i re, nemici dei popoli; non l'Italia schiava, ma l'Austria, tiranna in casa altrui, secondo il mal uso degli stranieri, sempre calati sulla bella penisola, come in campo aperto alle loro contese di primato europeo.

Raggio di Dio[modifica]

“E andando da Chiavari a Lavagna, occorre in poca distanza il fiume nominato dagli antichi Entella, e dai moderni Lavagna; il quale ha la sua origine nel monte Appennino, di qua dalla terra di Torriglia in le confine di Bargagli e di Roccatagliata: e muoiono in questo fiume, Graveglia, Ollo e Sturla, torrenti che alcuna volta vengono con furia„. Grazie, monsignor Giustiniani, vescovo di Nebbio e annalista di Genova; grazie infinite, e basta così. È la “fiumana bella„ di Dante Alighieri, certamente la più bella di Liguria; e bene l’ha dichiarata tale il divino poeta, che le vide tutte, quante ce n’erano “tra Lerici e Turbìa„, ma su questa si trattenne più a lungo, guardandone dal ponte della Maddalena il largo specchio azzurrino, con le due file di pioppi che ne accompagnavano il corso. Ma noi non ci fermeremo qui, come il grand’esule fiorentino; risaliremo la fiumana bella fino al confluente del Graveglia, dov’essa fa una gran curva, per voltar poi risoluta a ponente maestro; e lì faremo alto ai Paggi, come ora si dice, e dove nell’anno di grazia 1506 durava ancora in ottimo stato un castello dei Fieschi.

Santa Cecilia[modifica]

— È pure un noioso mestiere! — esclamò Tiberino, fra uno sbadiglio e l'altro, mentre si stiracchiava le braccia in alto e il corpo sul divano, con pochissimo rispetto alle tre persone che a quell'ora si trovavano nella bottega da caffè del Gran Corso.
Tre persone, s'intende, non contando noi che eravamo cinque, seduti a nostro bell'agio sui divani di un angolo della prima sala, con tanto di sigaro tra i denti e le gambe intralciate fra i sostegni a rabeschi di una tavola di marmo.

Semiramide[modifica]

Sulle rive dell'Eufrate si stende un'ampia, lieta e ubertosa contrada, il cui nome è Sennaar tra i figli di Cus, pingue d'armenti, di biade e d'ogni maniera dovizie, versate a piene mani sovr'essa dal possente Iddio delle acque, poich'ebbe mutate in doni di fecondità le sue ire devastatrici.

Sorrisi di gioventù[modifica]

All’alba dei miei ricordi, bella, rosea, bionda immagine di costante giovinezza, arride la mia, nonna dolce. Dico la nonna da parte di padre; che l’altra non l’ho conosciuta, essendo ella morta prima ch’io venissi alla luce. Intorno al quale evento modesto sarà bene che io dica qui il mio pensiero ima volta per tutte. È stata una buona cosa il capitare da queste parti, per le belle curiosità che il mio spirito ha potuto appagare, per le utili lezioni che il mio intelletto ha potuto ricevere, e per la calma serena con cui l'anima mia. è disposta a vedere un altro pianeta, ora che è stata sufficientemente istruita di questo.

Terra vergine[modifica]

Quelli de' nostri lettori che mettono il venerdì tra i giorni nefasti, sono pregati a non citare tra gli esempi a conforto della loro opinione il giorno scelto, o accettato da messer Cristoforo Colombo, per dar principio al suo primo viaggio di scoperta. Diciamo la loro opinione, e non la loro superstizione; primieramente perché non vogliamo essere scortesi con nessuno, e in secondo luogo perché non crediamo a questa facile asseveranza moderna che gabella per superstizioni le idee di cui non può darsi una ragione. Se dunque i nostri lettori hanno di queste idee, ed amano tenersele, non saremo noi che ci proveremo a combatterle. Uomini insigni con idee di tal fatta ce ne sono stati parecchi, e ce ne saranno ancora, se Dio vuole. Il savio, che vede assumer forma di verità e grado di certezza tante cose che ieri ancora sapevano di bugia, d'invenzione, d'illusione e via discorrendo, non bolla di nomi derisorii le cose che non intende, o che gli paiono escire dalla cerchia delle verità riconosciute: per contro, diffida di queste ultime, non s'impegna a sostenere che saranno verità domani, come sembrano oggi.

Tizio Caio Sempronio[modifica]

Lettori umanissimi, voi certamente non l'avete conosciuto, perché egli fioriva un mezzo secolo prima dell'éra volgare, cioè a dire dopo il settecentesimo anno dalla fondazione di Roma.
Chi? domanderete. Il protagonista del mio racconto, il chiarissimo Tizio Caio Sempronio, cittadino romano, dell'ordine dei cavalieri.

Tra cielo e terra[modifica]

Gli avevano fatta un’ingiustizia, saltandolo nelle promozioni; perciò, a mala pena sbarcato, aveva mandata la sua dimissione al ministro. Per la via gerarchica, s’intende; e il capo del suo dipartimento marittimo, alla Spezia, si era degnato di esortarlo a pensarci su, almeno un paio di giorni. Per non fargli dispiacere col mostrarsi sconoscente alla cortesia del superiore, aveva accettato il consiglio; ma, quarantott’ore dopo, si era ripresentato al suo illustre capo, pregandolo di dar corso alla lettera.

Una notte bizzarra[modifica]

Era la notte dal 12 al 13 di gennaio 1857, e per la via Assarotti, a Genova, soffiava un vento come suole soffiare in quest'ampia via, quando Eolo scatena uno de' suoi sudditi sulla regina del Tirreno.
È tramontana? è scirocco? è libeccio? Non ne sapete nulla. Esce, non si sa da dove, e v'investe da tutte le parti. Guai allo scribacchino municipale che si lascia cogliere ad occhi aperti, perché risica di andare a palazzo Tursi colla polvere negli occhi, di non veder più lo scrittoio e di dover chiedere una licenza di ventiquattr'ore, che il capo uffizio non è sempre disposto a concedere! Guai alla signora, che non sta attenta a raccogliersi la veste dattorno, perché il vento è curioso di segreti e, quel che è peggio, ama troppo di propalarli ai viandanti.

Uomini e bestie : racconti d'estate[modifica]

Il signor Lorenzo Brunelli, egregio uomo, cavaliere dalla testa ai piedi, e nei giorni di parata anche all'occhiello del soprabito, aveva raccolti nella sua villa, in una certa settimana d'agosto, otto o nove amici e compagni d'infanzia, tutti uomini in qualche modo eminenti, nella letteratura e nell'arte, nella scienza, nell'amministrazione, e perfino nella politica, ma tutti in paragone suo rimasti indietro nell'arte di arricchire. Sapete pure: ci sono tante vie, nella vita; ma ce ne sono pochissimo che conducano ad una miniera d'oro. Si parte tutti da un tronco comune, quello della beata infanzia, del collegio, delle illusioni, delle speranze, dei sogni, delle nebbie luminose, in mezzo a cui s'intravvedono belle figure di donne amanti, liete compagnie di amici sinceri, e lauri e palme di gloria sempiterna.

Note[modifica]

  1. Da I rossi e i neri, F.lli Treves, Milano, 1906, vol. II, XVI.
  2. Citato in Massimo Quaini, Nel segno di Giano. Un ritratto fra mito, storia e geografia, in Dino Puncuh (a cura di), Storia di Genova. Mediterraneo, Europa, Atlantico, Genova, 2003, p. 31
  3. Nel testo citato.
  4. Da Cuor di ferro e cuor d'oro,Treves, Milano, 1879, pp. 7-8; citato in Benedetto Croce, La letteratura della nuova Italia, Saggi critici, vol. IV, Giuseppe Laterza & Figli, Bari, 1922, pp. 311-312.

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