Carla Pasquinelli

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Carla Pasquinelli (1939 – vivente), antropologa, saggista e accademica italiana.

Citazioni di Carla Pasquinelli[modifica]

  • Aden Arabie non è un libro qualunque, è la storia dì un viaggio e di un ritorno attraverso cui tutto cambia, a cominciare dal protagonista, un adolescente in fuga – "il primo movimento della paura è di fuggire" – che decide di fare ritorno quando si rende conto che "fuggire significa solo rinunciare a guardare da vicino il mondo da cui si fugge". Aden Arabie è la storia di un viaggio iniziatico al termine del quale si diventa adulti.
    Rifiutata la carta dell'esotismo – all'epoca feticcio letterario ancora molto frequentato – e quella dell'avventura – Nizan avrà sempre orrore per i viaggi – Aden è solo un detour, una strada più lunga che gli ha permesso di affrontare la paura di crescere. Per uno educato, come lui e come tutta la sua generazione, all'austero e irriverente precetto di Alain "dire di no", crescere equivale a dire di sì.[1]
  • Uno strano destino, questo delle amicizie maschili di Sartre, che non a caso ha sempre preferito le donne per amiche, forse perché il rapporto con loro si carica di una dose di ambiguità sufficiente a stemperare e nascondere, sdrammatizzandola, quella fusionalità tirannica che sembra essere la cifra dominante della sua maniera di vivere l'amicizia. Un destino che ha tutta l'aria di una coazione a ripetere, fatta di complicità e di dipendenza e che si traduce in una resistenza cieca a ogni forma di distacco, vissuta ogni volta come una catastrofe irreparabile.
    In genere sono proprio queste amicizie a venir definite esemplari. E invece tanto più pure e disinteressate appaiono all'esterno, tanto maggiore e implacabile è la dipendenza che le consuma al loro interno. [...]
    Ma nonostante la loro patologia, c'è in queste amicizie un che di irriducibile, qualcosa che sfugge all'interpretazione, uno scarto residuale, che nemmeno il rigore severo della psicoanalisi è riuscito a decifrare. È questo scarto, in cui si consuma l'incontro tra la necessità del bisogno e la contingenza del desiderio, tra la esigenza impellente di avere una relazione affettiva con qualcuno e la scelta di quel qualcuno, che riscatta il senso stesso dell'amicizia e la sua fatalità e che le fa apparire, forse non del tutto a torto, il modello stesso dell'amicizia.[2]
  • [...] da dove ci viene tanta certezza sull'integrità dei nostri corpi? Come se esistessero al mondo dei corpi integri. Dietro questa convinzione c'è una visione naturalistica del corpo che ne occulta le manipolazioni attraverso cui ogni cultura costruisce corpi diversi, facendone il contenitore di posture , portamento, exis, ma anche di gesti, tecniche e pratiche che ogni società riconosce e fa riconoscere come naturali. Non c'è niente di più lontano dalla natura che i corpi, i nostri come quelli delle altre o degli altri, su ciascuno dei quali è impresso in maniera indelebile il marchio della cultura di appartenenza. [...]
    L'integrità non è altro che una particolare costruzione culturale del corpo. Cultura incorporata, che fa del nostro corpo il deposito muto dell'arbitrio culturale, ma con l'apparenza ingannevole della natura. Questo fa sì che viviamo i nostri corpi nella più totale inconsapevolezza della loro dimensione simbolica, che ci è invece facile decriptare nei corpi degli altri, oggettivati dal nostro sguardo naturalistico.[3]
  • [Ernesto de Martino e la Lucania della spedizione etnografica del 1952-53] Nel momento stesso in cui la perdita della presenza si trasforma in una costante della condizione umana, de Martino cade in balìa del proprio oggetto. D’ora in poi sarà questo a guidarlo, imponendogli la sua singolarità di evento, non riconducibile come tale ad alcuna unità discorsiva data. Un oggetto che però si rivela capace di legare e di animare, come un organismo che abbia le sue necessità e la sua forza interna, un insieme di discorsi. Un insieme certamente eterogeneo, che però non ha niente di eclettico, perché non si tratta di un assemblaggio casuale. E infatti difficilmente potremmo scomporlo nei suoi elementi semplici – anche se potremmo facilmente riconoscerli – perché forma oramai un'unità discorsiva autonoma.[4]
  • Ogni alloggio reca nella sua struttura l'impronta dei corpi, è uno spazio permeabile, duttile che si piega alle necessità del corpo, al suo portamento, alle tecniche del fare, alle abitudini elementari quali dormire, mangiare, riprodursi. È come una di quelle conchiglie fossili che hanno conservato l'impronta dell'animale [che] viveva al loro interno.[5]
  • Sono i corpi a dare forma e misura ai luoghi, a lasciarvi l'impronta della propria cultura facendo sì che la loro diversità si rifletta negli ambienti in cui trascorre la quotidianità delle persone. Sono gli "habitus corporei", acquisiti tramite particolari tecniche del corpo a decidere delle proporzioni, della altezza, o dell'ampiezza degli ambienti, della loro disposizione, delle aperture, perfino della linea dell'orizzonte. I modelli di abitazione sono infiniti come lo sono gli habitus corporei, fabbricati alla coerenza con cui ogni cultura dà una risposta specifica al bisogno umano universale di avere un alloggio.[6]
  • Storicizzare il primitivo significa dunque spingersi molto più in là di quanto consenta la metodologia crociana, significa in altre parole negare l'assunto secondo cui sarebbero le élite a fare la storia. Per Croce infatti – non dimentichiamolo – la storia è sempre storia dei gruppi dirigenti e come tale espunge tutto ciò che si configura come subalterno. De Martino fa oggetto di considerazione storica, anzi fa soggetto di storia propria quei popoli e più tardi quelle classi escluse o emarginate dalla strada maestra della civiltà occidentale.[7]
  • Tanta attenzione e tanta insistenza su episodi di questo genere mi hanno fatto pensare che de Martino conoscesse molto bene questa angoscia da spaesamento e mi è sembrato che in maniera garbata e indiretta, descrivendo questi fenomeni, parlasse di sé o quantomeno di una modalità a lui ben nota. Perché anche de Martino è stato un nomade, un uomo di frontiera, che ha battuto strade solitarie, ai margini dai percorsi culturali dominanti, spingendosi in terre di confine in tempi in cui le barriere tra una disciplina e l'altra erano certamente più rigide di quanto non siamo abituati a pensarle oggi. E come tutti i nomadi, anche de Martino doveva essersi incontrato con il terrore di perdersi, che nel suo caso poteva forse essere il terrore di venire meno ai propri presupposti culturali, di derogare dalla propria formazione storicista, rischiando di rimanere senza un'identità certa.[8]

La part maudite: dono, rango e perdita[modifica]

  • Con Bataille il dono diventa intransitivo. Non solo non prevede restituzione, ma si configura come una via a senso unico, votata alla gaspillage. La sua lettura del Saggio sul dono è fondata infatti sull'omissione del principio di reciprocità. Dei tre obblighi previsti: dare, ricevere e ricambiare solo il primo è rispettato, gli altri due non vengono nemmeno menzionati, mentre l'obbligatorietà del primo, l'obbligo di dare, si gonfierà in maniera smisurata, fino a saturare la scena (il testo) con una dépense senza possibile corrispettivo. Non a caso lui rivolge la sua attenzione esclusivamente al potlàc, poiché impone di produrre al solo fine di dilapidare, mentre trascura il kula, dove il circuito virtuoso della reciprocità del dare e del ricambiare assicura quell'armonia sociale, che è agli antipodi di quell'"elemento antagonistico della distruzione" che fonda "la funzione insubordinata della libera dépense" (p. 22[9]). Ad affascinare Bataille è proprio l'abiezione della perdita, il carattere perverso della dépense. (da Una mistica dell'impossibile, p. 155-156)
  • [In Teoria della classe agiata] Veblen Non solo ha anticipato il consumismo, come si legge in tutti i dizionari di sociologia, ma ha soprattutto individuato nella dépense un nuovo modello di mobilità sociale, che costituisce un contrassegno forte della modernità. Roba da nuovi ricchi o da avventurieri della peggiore specie, di cui si trova traccia nella grande letteratura. Valga per tutti/e il Grande Gasby di Scott Fitzgerald, un personaggio dal passato impresentabile che diventa protagonista di una folgorante ascesa sociale, grazie a una casa con le carte in regola quanto a lusso, signorilità e prestigio, dove invitare a ricevimenti fastosi le persone giuste impegnandole in un rapporto avvolgente del ricevere senza restituire. E dove il ricambiare coincide con il prendere, ovvero con l’accettare un invito, in cui è in gioco per il nuovo arrivato la conquista di un rango superiore. È questo modo inedito di regolare la mobilità sociale che Veblen ha colto sulla falsariga del potlàc, ma anche del dibattito settecentesco sul lusso, per scoprire il carattere virtuoso della dépense, nella forma di un antagonismo che non ha niente della violenza distruttiva che gli imprimerà Bataille. (da Una mistica dell'impossibile, pp. 158-159)
  • [In Largesse] Starobinski è riuscito ad arrivare nella sua soavità ed eleganza non solo al di là dell'utile ma al di là della decenza, là dove neppure Bataille ha osato, gettando un fascio di luce per un breve istante, quanto basta, per intravedere i bassifondi dell'animo umano, che si rivela per quello che è: un dono avvelenato che si fa strumento del male, dove prodigalità e violenza si intrecciano nel delineare il lato sordido del potere. Una largesse che si esaurisce nella violenza stessa di un presente sigillato su se stesso. Il tempo del sovrano è il tempo del desiderio, il tempo bruciato nella immediatezza di un dono. Anche la dépense è un dono effimero e dannato perché, oltre a interrompere il circuito della reciprocità, contrae il tempo nella fugacità irripetibile dell'istante, che rende indisponibili al differimento sottraendo "energia alla durevole costruzione del futuro" (Bologna, 1980, p. 18[10]). (da Una mistica dell'impossibile, p. 165)
  • Se dal dono/sacrificio ritorniamo al loro impresentabile antenato, il potlàc, così come dovette apparire ai membri del Parlamento canadese quando nel 1884 approvarono una legge che proibiva questa "usanza barbara", ci rendiamo conto di come Bataille avesse intuito, nonostante o grazie al suo sguardo esotista, come il potlàc fosse lo scandalo che fa saltare i quadri concettuali del razionalismo occidentale poiché viola i principi dell'utilità classica. L'atteggiamento del governo canadese è esattamente il rovescio speculare della posizione di Bataille: la diagnosi è la stessa, ovvero quella di uno spreco senza alcuna contropartita, mentre il giudizio è opposto: non più celebrato dispendio, bensì spreco altamente deprecato. Il potlàc viene considerato "un chiaro segno di degradazione morale", che avrebbe portato all'indigenza e al vagabondaggio, mettendo a rischio la convivenza civile. Fu comunque tollerato finché la British Columbia First Nation non diventò nel 1871 la sesta provincia del Canada; da allora divenne oggetto di una sistematica criminalizzazione, che ne fece la posta in gioco nello scontro tra autogoverno indigeno e governo canadese, tra autoctoni e coloni, per lo trasformarlo nel confine tra civiltà e barbarie. (da Potlatch Papers, p. 167)
  • Benché Mauss [nel Saggio sul dono] non si dilunghi più di tanto sui due obblighi complementari al ricambiare – ricevere e donare – di fatto la sua analisi del potlàc si concentra con mossa autoriale proprio sulla fase centrale del ricevere/accettare, rimasta fino a quel momento in ombra, per farne il dispositivo strategico che nella forma dell'obbligo permette e nel contempo conferisce senso alla relazione tra donare e ricambiare. Non è casuale se al posto del rapporto binario – dare vs restituire – su cui si è attestato Boas, Mauss sostituisca la sequenza complessa del "donare, ricevere, ricambiare", trasformandola con geniale intuizione nel paradigma stesso del dono (pp. 172-173[11]). Tanto da far pensare che sia stato proprio l'obbligo del ricevere/accettare ad aprire le porte al principio di reciprocità per farne il fondamento dello scambio e più in generale del legame sociale. (da Potlatch Papers, p. 173)
  • Viene da chiedersi se in assenza di equivalenza [nel potlatch] tra l'oggetto donato e quello ricambiato sussistano ancora i margini per parlare di reciprocità. Un dubbio che forse deve avere attraversato anche Mauss, se non a caso ha sentito il bisogno di rafforzare il gesto di "reciprocare" il dono, sottraendolo al libero arbitrio dei soggetti per adottare, su suggerimento di un appunto postumo di Hertz, il punto di vista maori, secondo cui l'obbligo di restituire è insito nella cosa donata. Ogni oggetto è infatti provvisto di una forza interna (hau), una sorta di potere spirituale che obbliga chi lo riceve in dono a contraccambiare, altrimenti potrebbe ritorcersi contro chi si sottrae a tale obbligo.
    Con questo riferimento allo spirito della cosa donata collassa la scena influente del dono. È come dichiarare forfait, arrendersi al fatto che non esista un "sistema di prestazioni totali" che regola la reciprocità degli scambi, o quantomeno da solo non basta, e che "a monte" ci sia qualcosa di più vincolante. "Una mescolanza di legami spirituali" tra persone e cose per cui "regalare qualcosa a qualcuno equivale a regalare qualcosa di se stessi" (p. 172[12]) Ma se è così, allora lo hau sembra avere più a che fare con la contaminazione, con la coppia puro/impuro, che non con l'obbligo muto del dono. (da Potlatch Papers, p. 174)

Incipit di Ferite simboliche[modifica]

Cosa importa dove si giace quando si è morti. Si dorme il grande sonno, tutto il resto non conta.

Note[modifica]

  1. Da Amicizie. Paul Nizan e Jean Paul Sartre, in il manifesto, 4 settembre 1990; riportato in fareantropologia.cfs.unipi.it, p. 203.
  2. Da Amicizie. Paul Nizan e Jean Paul Sartre, pp. 204-205.
  3. Da Il caso di Firenze: un rito alternativo, in Infibulazione: il corpo violato, Meltemi, Roma, cap. I, p. 15. ISBN 978-88-8353-400-3
  4. Da Quel nomade di de Martino, in La Ricerca Folklorica, n. 13, 1986, p. 59. Citato in Castelli di cera Un pellegrinaggio e l'esperienza di un confine, unime.it, pp. 142-143.
  5. Da Luoghi e Corpi, in Riiflessioni sull'abitazione contemporanea, Quaderni di ricerca e progetto del DPAUPI, Facoltà di Architettura dell'Università "La Sapienza" di Roma, Gangemi Editore, Roma, 2003. Citato in Marco De Martin, La valutazione del rendimento nel progetto della residenza: per un'architettura di qualità fra innovazione e tradizione, Gangemi Editore, Roma, 2009, p. 41 nota 58. ISBN 978-88-492-9167-4
  6. Da Luoghi e Corpi, Gangemi, Roma, 2003. Citato in Marco De Martin, La valutazione del rendimento nel progetto della residenza, p. 41.
  7. Da Antropologia culturale e questione meridionale: Ernesto De Martino e il dibattito sul mondo popolare subalterno negli anni 1948-1955, La Nuova Italia, Firenze, 1977, p. 5.
  8. Da Dal testo al campo, in La ricerca folklorica, n. 67-68, 2013, su Ernesto de Martino: etnografia e storia, pp. 7-11. Citato in Piero Clemente, Dialoghi con Carla, in Cultura, potere, genere: la ricerca antropologica di Carla Pasquinelli, a cura di Fabio Dei e Leonardo Paggi, Ombre Corte, Verona, 2019, p. 20. ISBN 9788869481253, fareantropologia.cfs.unipi.it
  9. La Part maudite précédé de La Notion de dépense, Éditions de Minuit, Paris; La parte maledetta, preceduto da La nozione di dépense, Bollati, Torino, 1992.
  10. R. Dionigi, Bataille sur Nietzsche, in G. Bataille, Su Nietzsche, Cappelli, Bologna, 1980.
  11. Marcel Mauss, Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche, in Teoria generale della magia e altri saggi, Torino, Einaudi, 1965, pp. 153-292.
  12. Marcel Mauss, Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche, Einaudi, Torino, 1965.

Bibliografia[modifica]