Cees Nooteboom

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Cees Nooteboom nel 2011

Cees Nooteboom (1933 – vivente), scrittore, poeta e giornalista olandese.

Citazioni di Cees Nooteboom[modifica]

  • C'è uno scrittore come Marcel Proust, considerato mondano, frivolo, che non si è mai impegnato in nulla, a parte firmare per Dreyfus; ma se oggi vuoi sapere che cos'era la Francia dell'Ottocento devi leggere la Recherche.[1]
  • E poi l'Italia, in autostop. Ero giovane, povero, avevo vissuto la Seconda guerra mondiale, gli anni in cui tutto era grigio, buio, triste. Per la prima volta viaggiavo verso Sud, dove c'era la luce, come ci insegna Goethe.[1]
  • Il punto era: non vogliamo un'Europa tedesca, ma una Germania europea. Ora il nazionalismo è venuto fuori da molte altre parti. Credo che la Germania abbia davvero imparato molto dalla Seconda guerra mondiale, sicuramente più del Giappone. I tedeschi hanno guardato a fondo nel loro passato politico. Noi olandesi abbiamo subito l'occupazione – mio padre è morto per le bombe tedesche – quindi non li amavamo molto, non ci piaceva il suono della loro lingua. Ma ora è tutto cambiato. È un Paese interessante ed è lì, nel cuore dell'Europa.[1]

Cerchi infiniti[modifica]

Incipit[modifica]

In cosa consiste l'immagine di un paese? Sono sdraiato per terra nell'aereo che da ormai quasi venti ore passando per il Polo è in viaggio per il Giappone. Intorno a me piedi dormienti. Ho un cuscinetto sotto la testa e una copertina azzurra della KLM sul corpo, ma non riesco a dormire. Stranamente continuo a rivedere una stessa immagine: una foto che poco dopo la guerra – allora avevo circa dodici anni – mi colpì moltissimo. Un prigioniero australiano con un paio di quegli assurdi pantaloni inglesi coloniali color cachi seduto su uno sgabello o un tronco d'albero, non ricordo più. Ha gli occhi bendati, i capelli biondi leggermente scompigliati dal vento, le mani legate con una corda. Alle sue spalle, in piedi, un giapponese. Lui ha in testa un kepi e porta pantaloni neri infilati negli stivali e una camicia bianca a maniche corte. Con entrambe le mani solleva in alto una grande spada, più o meno come un campione di golf che tiene la mazza nella posizione più alta. Una frazione di secondo dopo colpirà, la spada mozzerà di netto il collo dell'australiano, la testa schizzerà via, il sangue sgorgherà dal collo che adesso è ancora intatto e il corpo con le mani legate crollerà di lato. Questa, in ogni caso, è l'immagine del «Giappone» più vecchia che ho. Trent'anni di esperienze e conoscenze l'hanno corretta,spiegata e circostanziata in tutti i modi, eppure in questo preciso momento, in cui io stesso tra un'ora di volo sarò in Giappone, si risveglia in me, insopprimibile, una lieve sensazione di paura mista a stanchezza. Immagino milioni di persone su treni e metropolitane, ma poi quelle immagini sono attenuate da giardini, templi e composizioni floreali. Il termine «apprensione» forse descrive al meglio le emozioni di cui sono preda. L'interrogativo che mi impegna è quanto è «diverso» il Giappone. Negli ultimi anni ho letto romanzi di Tanizaki, Kawabata, Kenzaburō Ōe e Mishima che non mi hanno dato la sensazione che il «diverso» del Giappone sia un «diverso» diverso da quello, tanto per dire, del Brasile. Un certo esotismo negli usi sociali e religiosi, piante diverse, clima diverso, ma persone diverse? Quei romanzi trattano di sentimenti e problemi che non mi sono veramente estranei; se tolgo l'esotismo, o lo sostituisco con un altro, ciò che mi resta non è qualcosa di cui non capisco nulla. Ma lo ritroverò anche fuori dal contesto dei libri? Mentre me ne sto qui sdraiato in terra a pensare, sento sorgere dentro di me anche una gelosia incontrollabile. Perché devo andare in giro come una botte piena di pregiudizi e informazioni, perché non si può mai andare in un posto di cui si ignora assolutamente tutto, come Pizarro andò nel regno degli inca, o i primi europei in Giappone? Non sapere nulla del prodotto interno lordo, non avere mai visto un film giapponese; Hiroshima, zen, kabuki, sumo, kaiseki, Sony, samurai, harakiri, ikebana – suoni senza alcun significato. Quello che faccio io non si può quasi più chiamare viaggiare, non si scopre più niente, si digita, controlla, smentisce e conferma, immagini e idee vengono confrontate con la «realtà», ciò che in ultima istanza vado a fare è vedere se il Giappone esiste davvero, come se uno spettatore al cinema potesse entrare nello schermo e sedersi a tavola con i protagonisti.

Citazioni[modifica]

  • Il potere dello shōgun può essere paragonato a quello di dittatori come Stalin e Franco. Il fatto che accanto a lui perduri l'ombra divina dell'imperatore – come un uccello raro prigioniero nel suo palazzo e nella sua corte a Kyoto – è uno di quei misteri giapponesi che non si riusciranno mai a spiegare del tutto. Quell'imperatore non aveva nessun potere, eppure i Tokugawa gli consentono un'esistenza controllata e limitata nei movimenti lì nella sua corte lontana, fino a quando, dopo una lunga serie di shōgun, l'ultimo Tokugawa restituisce il potere alla corona. (L'ombra di Nyogo: il Giappone a Londra)

Incipit di alcune opere[modifica]

Il canto dell'essere e dell'apparire[modifica]

«È questo, naturalmente, che deve fare uno scrittore», disse lo scrittore. «Librarsi alto, come un'aquila, al di sopra dei personaggi che vuole seguire. In questo caso il dottore e il colonnello.»[2]

La storia seguente[modifica]

Non ho mai nutrito un eccessivo interesse per la mia persona, il che però non significa che fossi in grado di smettere semplicemente di riflettere su me stesso se desideravo farlo, purtroppo. E quella mattina avevo qualcosa su cui riflettere, questo è certo.[2]

Note[modifica]

  1. a b c Citato in Cristina Taglietti, La Germania occuperà il vuoto lasciato da Londra. Sono un idealista, ma l'Ue è nata dall'avidità. È la paura che alimenta i nazionalismi, La Lettura, supplemento del Corriere della Sera, 9 aprile 2017, pp. 3 e 5.
  2. a b Citato in Giacomo Papi, Federica Presutto, Riccardo Renzi, Antonio Stella, Incipit, Skira, 2018. ISBN 9788857238937

Bibliografia[modifica]

  • Cees Nooteboom, Cerchi infiniti, traduzione di Laura Pignatti, Iperborea, 2015.

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