Dario Martinelli

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Dario Martinelli (1974 – vivente), musicologo e semiologo italiano.

Intervista di Federica Gemma, Lettera a un futuro animalista, eHabitat.it, 17 febbraio 2015
  • Venivo tempestato di luoghi comuni, ogni volta che qualcuno apprendeva di questa mia scelta [vegetariana]: "ma come fai per le proteine?", "ma come fai per il ferro?", "l'uomo è cacciatore per natura", "i canini che li teniamo a fare?", "ma perché non ti preoccupi dei problemi reali?", e via così. [...] pian piano, le cose sono diventate più semplici [...]. Ho visto sempre più persone capire il significato della parola "vegetariano", [...] ho visto persone con atteggiamento sempre meno polemico nei miei confronti; e ho visto – soddisfazione maggiore – alcune delle persone che prima mi criticavano o prendevano in giro diventare a loro volta vegetariane. E pazienza se ora si fanno belli della cosa come del risultato di una sensibilità che hanno SEMPRE avuto verso questi temi.
  • [...] pur non essendo religioso (e dunque, non avendo battezzato mio figlio), non ce l'ho affatto con quei genitori che battezzano i propri figli, perché vogliono trasmettergli qualcosa che per loro è giusto e importante. Ed è esattamente quello che fanno anche i genitori che NON battezzano: anche per loro questa azione è il risultato di un "valore". [...] a mio figlio, prima o poi, dovrò dar conto di queste mie scelte [...]. Specialmente se queste scelte, come il vegetarismo, lo porranno in una posizione minoritaria rispetto alla società, ai suoi compagni di scuola, ai suoi parenti. So perfettamente che ci saranno momenti difficili in cui ci chiederà come caspita ci è venuto in mente di renderlo così "diverso" dagli altri. Inizialmente, allora, e in forma privata, ho pensato di mettere giù, nero su bianco, tutte queste risposte, in modo che lui possa capire che il discorso è molto complesso, e che non è solo una questione di mangiare questo e non mangiare quello, ma è un vero e proprio modo di "stare al mondo", che chiama in causa alimentazione, ambiente, solidarietà, economia, relazioni...
  • Finché porti tuo figlio ad avvelenarsi al MacDonald, nessuno ti dice niente. Hai fatto una scelta irresponsabile, nient'affatto salutare, e nient'affatto per il bene del bambino, ma hai fatto una scelta "maggioritaria", quindi nessuno ti giudica.

Lettera a un futuro animalista[modifica]

  • Dagli animali possiamo imparare con grande efficacia il valore della sobrietà. La condizione stessa di "animalità" è in antitesi al concetto di «spreco», perché è legata a doppio filo agli equilibri dell'ecosistema.[1]
  • Educare all'animalismo è in realtà un'impresa titanica, che chiama in causa tantissime sfere della vita personale e sociale. Ne parlerò accuratamente più avanti, ma per ora mi preme sottolineare l'incredibile quotidianità del nostro rapporto con gli altri animali (rapporto che è quasi sempre «abuso» e «sfruttamento»). È un rapporto di una tale ricorrenza e intensità che ho sempre trovato assurdo che materie come l'antrozoologia (o zooantropologia) non vengano insegnate sin dai primi anni di scuola. Si arriva ad insegnare cose come equazioni e radici quadrate, che non serviranno mai nella vita della stragrande maggioranza degli abitanti di questo pianeta, e non si insegna come interpretare segnali di apertura o ostilità in un cane, che invece è qualcosa che accade ripetutamente a quasi tutti, anche solo passeggiando per strada.[2]
  • Razzismo, maschilismo, eurocentrismo, classismo e tutto il resto si sono volatilizzati. Puff! Scomparsi in quell'odioso buco nero chiamato progresso civile. Come conciliare le proprie esigenze discriminatorie con il moderno progresso sociale della civiltà e della tolleranza? La risposta, oggi, si chiama «specismo», ovvero la discriminazione verso specie animali diverse dalla nostra. Quello, per molti versi, è ancora accettato, e in molti versi incoraggiato.
    Chissà, dati gli incoraggianti risultati ottenuti dai movimenti in favore dei diritti delle grandi scimmie (tipo il Great Ape Project), tra qualche anno potremo assistere al familismo (con riferimento tassonomico alla famiglia Hominidae, che appunto include tutte le grandi scimmie), perché nel frattempo diventerà sempre meno accettabile discriminare gorilla, scimpanzé, bonobo e oranghi.[3]
  • Tornando a oggi, c'è ancora un fertilissimo terreno per mentalità e dichiarazioni speciste senza che nessuno inorridisca. Quando parliamo di animali, in genere, ne parliamo come di cose e non persone (ad esempio, in inglese non si usa he o she, ma it), ed esibiamo una terrificante disinvoltura quando parliamo del loro abuso o della loro uccisione (a qualunque scopo, divertimento incluso).[3]
  • Pare che [...] l'idea più difficile da accettare, nella costruzione dell'identità umana, sia proprio quella di essere, comunque, animali. Possiamo accettare (almeno negli strati più laici della società) l'evidenza scientifica della nostra appartenenza a quel regno, ma in quel caso dobbiamo per forza provare di essere animali «speciali», e non nel senso che ogni animale, a suo modo, è speciale. No. Dobbiamo essere speciali-speciali, speciali al quadrato. Tutti gli animali sono uguali, ma alcuni sono più uguali di altri: ti ho mai parlato di George Orwell?[3]

Note[modifica]

  1. Citato in quarta di copertina.
  2. Citato in Animot. L'altra filosofia, n. 1, anno II, Graphe.it edizioni, giugno 2015, p. 123.
  3. a b c Da Lettera sull'alterità (in Lettera a un futuro animalista, pp. 72-76), in Animot. L'altra filosofia, n. 1, anno II, Graphe.it edizioni, giugno 2015.

Bibliografia[modifica]

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