Areteo di Cappadocia
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Areteo di Cappadocia (... – ...), medico greco antico.
Delle cause, dei segni e della cura delle malattie acute e croniche
[modifica]- Quando poi l'accesso epilettico si approssima scintillano dinnanzi agli occhi certi spettri ora rossi, ora neri, ora di varii colori permisti, come se si scorgesse l'Iride su nel cielo: si sentono de' cattivi odori: risuonano le orecchie: si svolge l'iracondia, e la bile per nulla fortemente si accende. Talché alcuni per la più lieve cagione, come per sola angoscia dell'animo procombono. [...] Questi segni indicano che nel capo è fissa la radice del male. Ad alcuni però comincia a manifestarsi la sede del male ne' nervi lontani dal capo per i quali esso poscia è tratto in consenso morboso. (Delle cause e dei segni delle malattie acute, libro I, capitolo V; p. 1)
- Nell'insulto, appena sviluppasi, l'epilettico giace destituito di sensi: le sue mani si raggruppano e contraggono per la distensione de' nervi: le cosce non solo si divaricano impetuosamente, ma qua e là sono concitate dai rimbalzi tendinosi. Questo genere di calamità può assomigliarsi a quella del toro strangolato. Il collo s'incurva, il capo è in vari modi distorto. Talché alcuna volta si rende prono come arco, e allora la mascella al petto si fa aderente. Talora è respinto violentemente verso le scapole, come se chi vel traesse a forza pe' capelli: quando infine ora dall'una ora dall'altra parte verso gli omeri si rivolge. I miseri così martoriati spalancano la bocca, la quale hanno arida e con lingua proluberante, ed esposta cosi ad esser ferita, ed anche totalmente recisa. I denti talora fra se dibattonsi nella convulsione, gli occhi si travolgono, le palpebre amiccando di spesso restano aperte; cosicché volendole anche serrare, non giungono a connettersi, e l'albuginea sola si vede negli occhi semiaperti e spaventevoli. Le sopraciglia corrugansi talora in modo, che sembrino quelle della collera la più feroce: tal altra sono come stirate da ambo i lati verso le tempia, sì che fanno sparire tutte le rughe della fronte, e ne rendono la cute pellucida e distesa. (p. 2)
- Nel mentre che per questo modo il male si arretra e scompare, l'epilettico ritorna in sé e si rialza. Però liberatosi appena dall'assalto, sente le sue membra fragili, cascanti, è oppresso da un capiplenio, da uno sfiancamento e languore, che bene si annuncia nel suo pallido e sparuto sembiante. L'animo, riconoscendosi, tra per la fatica del morbo o tra per la vergogna di esso, cade in estrema tristezza e melanconia. (pp. 2-3)
- Il colera è malattia acutissima nella quale le materie da tutto il corpo refluiscono nello interno canale della gola, del ventricolo e delle intestina. Quelle che al di sopra sono respinte cioè nel cardias e nella gola, erompono per vomito. Gli altri umori ristagnanti nel ventricolo e nelle intestina, si emettono per da basso. Dapprima le materie vomitate sono simili all'acqua, le deposte per secesso stercoracee, liquide e molto fetide. Perocché una diuturna crudità di tali umori eccitò cosiffatto profluvio; e se per clistere viene dall'ano provocato, prima pituitose, poi biliose sono le deiezioni. (libro II, capitolo V; pp. 16-17)
- [Sul decorso del colera] La voce svanisce: i polsi si fanno minimi e frequentissimi: e [...] gli sforzi di vomito sono perpetui ma infruttuosi. La voglia di evacuare il ventre è vieppiù tormentosa, seguita da tenesmo, e da niuna materia evacuata. Infine s'affaccia la morte piena di dolori, miseranda tra le convulsioni, lo strangolamento, e gl'incessanti e vani conati per vomitare. Cosiffatto malore spesseggia nell'estate, meno frequente in autunno, meno ancora in primavera, rarissimo nell'inverno. Fra le eta le più soggette, sono a designarsi la gioventù, e quella che è congiunta a maggior robustezza. Ne' vecchi assai di rado lo vedrai. I fanciulli lo soffrono più de' vecchi; ma non è in loro pericoloso. (p. 17)
- Coloro che nel fegato son malati, non così prestamente come quelli, che hanno male al cuore, ma con più forte dolore perdono la vita; essendo il fegato per la massima parte un sangue agglomerato. (capitolo VII; p. 18)
- I reni per quanto s'appartiene alla struttura o configurazione del corpo umano, sono collocati in guisa da non essere esposti a molti pericoli: sebbene anch'essi cadono pure in qualche acuta malattia. Sono costituiti di un tessuto glandolare, che ammorbando li rende pur atti a spegnere la vita. Imperocché esercitano anch'essi funzioni importanti, come quella di secernere l'urina dal sangue ed espellerla. Ma questa è trattenuta o da un calcolo, o da una interna infiammazione, o da una raccolta di sangue, o da altre cause siffatte; tantoché niune maggiore offesa si crea dal consenso morboso, che deriva dalla forma della causa materiale. (capitolo IX, p. 21)
- Nel bel mezzo della regione iliaca della femmina è posto l'utero, viscere femminile, cui forse non a torto si attribuisce somiglianza con un animale. Muovesi or qua or là verso gl'ilei: ha consensi al di sopra colla cartilagine xifoide: movesi dai lati ora a destra ora a sinistra, ora verso il fegato, ora verso le intestina. Però la sua naturale inclinazione è alle parti inferiori: e per dirto in brevi parole, è di una vitale natura mobilissima, erratica e bizzarra. (capitolo XI, pp. 22-23)
- Che se al sottentrare dell'isterismo la donna comincia ad essere molestata alle parti superiori, si rende svogliata e pigra nelle sue faccende: si sente languida, malaticcia, trabellando le ginocchia sopraggiunge la vertigine, le estremità si rilassano; duole il capo, ed è pesante, dolgono i tronchi delle vene che giacciono da ambe le parti del naso. Il che avvenendo, seguono mordicazioni allo stomaco, un senso di vacuità occupa i precordj là dove è la ragione dell'utero. I polsi intermettono, sono disordinati, mancano: il respiro è grandemente affaticato, la voce s'appanna, la facoltà di sentire si ottunde all'estremo, il respiro è inavvertito, oscuro è frequentissimo, e la morte giunge all'impensata. (p. 23)
- Se dinanzi agli occhi s'affaccino veli tenebrosi, e il capo rassembri come aggirarsi a guisa di turbine. e per le orecchie si senta un mormorio come fiume che strepiti cadendo, o come di vento che percuota le vele d'un vascello, o come suono di tibie o di sampogne, o come cigolìo di ruote di un carro; al complesso di tutti cotesti fenomeni si dà il nome di vertigine [...] (Delle cause e dei segni delle malattie croniche, libro I, capitolo III; p. 26)
- A me pare che la melanconia sia il prodromo o una parte della mania, che i Latini chiamano furore. Imperò ne' furiosi l'animo ora è spinto alla escandescenza, ora alla gioia; ma tra' melanconici la tristezza e l'angoscia dell'animo predominano sempre. Inoltre i furiosi traono molta parte della loro vita nella mania continua, e commettendo atti sconci ed atroci. Chè i melancolici passano da una specie di insania all'altra, e o sospettano di essere avvelenati; o infastiditi e aborrenti della societa si seppelliscono nella solitudine, o si convertono in una superstizione religiosa, o in fine prendono in odio la luce del giorno e la stesa vita. Ma se alcun intervallo pur godano di remissione nelle loro angosce, si rallegrano e ne gioiscono. Questi però facilmente precipitano nel furore. (capitolo V; p. 28)
- L'apoplessia, la paraplegia, la parèsi, la paralisi, son tutte dello stesso genere. Imperocché in tutte si tratta di difetto o di moto, o di tatto, o di entrambe queste facoltà: spesso vi difettano ancora, e la mente e gli altri sensi. Ma nell'apoplessia, e senso, e ment, e movenza di tutto il corpo restano offesi. Niun potere giunge a dissipare una forte apoplessia, e non è facile svellere una debole. (capitolo VII; pp. 31-32)
- La Ftoe è contrassegnala per lo più da questi segni: un calore urente si eccita che nella notte dà fuori; talora si riconcentra nelle viscere: manifesta in questi malati è l'ambascia, la debolezza, la colliquazione. Imperocché se di giorno in giorno cotesto fuoco si eliminasse dal corpo, dovrebbe pure l'individuo farsi più pingue, più robusto, più tollerante della malattia. Invece allo evaporarsi di quello più gravi si fanno i fenomeni morbosi. I polsi si fanno piccioli e frali: veglie, pallidezza ed ogni altro segno si palesa che è proprio de' malati di febbri acute. Le specie poi degli sputi sono a centinaia. Lividi, atri, puri e sinceri, pallidi e bianchi, bianco-verdognoli, larghi, rotondi, duri glutinosi, sciolti, diffluenti, inodori, o fetentissimi. (capitolo VIII; p. 34)
- Fate che anche un uomo del volgo vegga un malato pallido, debole, tossicotoso, emaciato, egli vi dirà costui essere un tisico. Allorché taluni vi sono, che sebbene non abbiano i polmoni ulcerati, tuttavia sono consunti da diuturne febbri, hanno la tosse, ma secca, dura e senza sputi, anche questi propriamente sono chiamati tisici. Hanno anche questi una oppressione di petto, una infermità di polmone, l'angoscia, l'intolleranza, la nausea, i brividi vespertini e calori mattutini, un molesto sudore vaporoso sino al petto, emettono nella espettorazione materie di diversa qualità, come di sopra notammo: hanno la voce rauca, il collo alquanto ritorto e gracile, non pieghevole ma come irrigidito: le dita sottili, e grosse le loro articolazioni, talché sembra che le sole ossa ne siano rimaste. Diresti che tabidi ne sono i muscoli: le unghie si rendono adunche, il polpaccio di esse si fa rugoso e spianato, imperocché per il dimagrimento perdono le parti molli circolari, e la loro rotondità. Tutta la l'orza è circoscritta alle loro estremità e nelle loro unghia uncinate, colle quali soltanto come membra solide sostengono alcune fatiche. Similmente le narici diventano acuminate e gracili: le guance prominenti e rossastre: gli occhi incavati lucidi splendenti: tumefatta emaciata, pallida o livida è la faccia: le labbra assottigliate stringonsi sui denti, sicché somigliano a chi ride: in tutto finalmente ti rappresentano un cadavere. (pp. 34-35)
- Certo ai vecchi di rado avviene diventar tisici, ma se vi cadono, non ne scampano. I giovani poi sino alla florida e pubere età dopo lo sputo di sangue, precipitano nella tisi: ne risanano ma non facilmente. I fanciulli presi talvolta da tossi ostinate s'avanzano con esse sino alla tisi, ma facilmente ne retrocedono. Predisposti a cotal vizio sono quelli di tempera gracile e delicata simili a tavole segate, con scapole in forma d'ala agli omeri, con collo prominente, bianchi di pelle, e di petto quasi diafano. I climi freddo-umidi sogliono esserne più degli altri feraci. (p. 35)
- Il primo luogo nelle funzioni digestive lo tiene il fegato nello stato di sanità, tanto più che in lui prende radice il sistema venoso. E nelle malattie contiene in se cause più potenti a riacquislare sanità, che a perdere la vita. Però come prevale nelle sue fisiologiche condizioni, altrettanto è più inchinevole a gravi malattie. Con molta celerità e violenza s'infiamma, e assai di frequente e in modo più funesto passa in suppurazione. (capitolo XIII; p. 39)
- Quando per tutto il corpo, dal viscere che ne è il secretore, si disperda una bile gialla, o ranciata, o crocea, o nericcia, o verdognola; questa malattia dai Greci si chiama Ictero, dai Latini Morbo Regio o anche Arquatus e Auriga. Anche ne' mali acuti questo fenomeno è sempre grave; perocché non solo comparendo avanti il settimo, ma anche dopo, moltissimi condusse a morte: e rare volte fu buon segno verso gli estremi della febbre, e non si ottenne che di rado con facilità la sua scomparsa. (capitolo XV; p. 42)
- [Sull'ittero] Esso non deriva solo, come opinano alcuni dei medici; da un vizio del fegato; ma e il ventricolo e la milza, e i reni e le intestina tenui vi sono immischiate. Imperocché se il fegato sia attaccato da flemmone e da scirro, non è però sempre impedito nel suo officio di creare la bile, ne la cistifella in lui riposta lascia di segregarla e raccoglierla. Ma se i meati, che conducono questo umore al duodeno, sono obliterati per flemmone o per scirro, la bile trasuda ed è indietro respinta: si mescola allora col sangue, il quale irrigando lutto il corpo, e portandosi seco l'umore, lo diffonde per tutte le membra, e cosi ne viene quel coloramento in giallo, che caratterizza la malattia. Le materie fecali sono bianchicce simili all'argilla, perché mancano di essere irrorate e colorate dalla bile. (p. 42)
- [Sull'ittero] Manifestissimo è il giallore che si genera nell'albuginea degli occhi: e nella fronte verso le tempia, sopra quelli di bianca carnagione, al più leve grado della malattia, apparisce assai notabile il colore itterico. In quelli che sono affetti dalla itterizia nera, nelle medesime parti scorgerai il colore atro-verdastro. Questi si raffreddano, sono languidi, inerti, tristi, di animo avvilito, ed esalano un disgustoso fetore: ogni sapore sente loro di amaro: respirano con molestia: sentono un dolore, un morso allo stomaco: i loro escrementi sono porracei, neri, aridi, stentati. Le urine sono assai colorale, e quasi fuliginose. Quindi paiono indigestioni, inappetenze, vigilie, tristezza, melanconia. (p. 44)
- La malattia che porta il nome di Diabete, sebbene non molto frequente alla umana specie, è oltre modo sorprendente, per il fenomeno che in essa si effettua del disciogliersi in urine le carni e le membra dell'organismo. Riconosce una causa interna di freddo ed umido siccome l'idropisia; colla differenza che cotesta causa qui risiede solitamente ne' reni e nella vessica. Le urine non si rendono a intervalli; ma, come se i canali ne fossero spezzali, il profluvio è perenne. La genesi di questo morbo si opera lentamente, e lungo tempo impiega sempre nello sviluppo. (libro II, capitolo II; p. 49)
- I reni presentano la sostanza loro simile a quella delle glandole, che i Greci chiamano Adene. Hanno però un color rosso cupo più somigliante al color del fegato, che a quello delle mammelle o dei testicoli, che sono glandole anche esse, ma d'un colore assai più chiaro. La forma de' reni s'accosta a quella de' testicoli; ma più larghi, piatti, e da un lato incavati. Hanno piccioli seni per lo scolo delle urine, crivellati da una quantità di piccioli forellini. Dall'uno e dall'altro spuntano due canaletti membranosi, a guisa di fistole, e vanno a inserirsi ad ambedue le pareti laterali della vessica; il perché la via che percorre dai reni l'urina è eguale da ambe le parti. (capitolo III; p. 50)
- Lo stomaco è il fonte del piacere e della tristezza, e per la vicinanza del cuore, e per il consenso con l'anima, la sua facoltà imprime all'animo il carattere di alacrità o di obiezione. (capitolo VI; p. 54)
- Il ventricolo destinato all'officio del digerire, ammorbando, altera cotesto officio medesimo; e ne segue un profluvio dell'alvo d'inconcotte e liquide materie detto dai Greci Diarrea. Sennonché cotesto profluvio, secondo che la causa prossima è recente o permanente può affacciarsi o nell'un giorno, o nell'altro. Oltreché si impossessa di tutto l'organismo la debolezza, non essendo il corpo nutrito, e ne segue la malattia cronica detta flusso Celiaco, che latinamente potrebbe dirsi morbo ventricolare, per la imbecillità del calore digestivo, e la frigità del ventricolo. E nel vero liquefatto l'alimento dal calore, ma non concotto né convertilo in succo nutritivo, ristagna indigesto e imperfetto, e non avendo attinto quel grado di perfezione necessaria rimane crudo e si trasforma in modo nocevole sì nel colore, che nell'odore, e nella consistenza. Fetidi e fangosi sono gli escrementi, liquidi e disciolti per l'indebolita azione configurativa, e traenti con se fuori la virtù e il principio assimilatore. (capitolo VII; p. 55)
- [Sulla celiachia] Grave è il dolore del ventricolo, e spesso puntorio: la persona si rende gracile ed emaciata, è pallida e pigra, e nelle consuete faccende svogliatissima. (p. 56)
- [Sulla celiachia] Se la malattia va innanzi e s'aggrava, tira di contro sul ventricolo da tutto il corpo le materie; inversiona quasi della virtù distributiva. Allora avviene la colliquazione dell'organismo, le fauci inaridiscono, squallida è la cute, nulla la traspirazione. Il ventricolo ora si sente come bruciato da carboni ardenti, ora agghiacciato come dal contatto della neve. (p. 56)
- [Sulla celiachia] La malattia è lunghissima, e di arduo trattamento. E se talora sembra dileguarsi senza manifesta cagione, si vede poi ritornare per il più leggero errore commesso. Il rimettere di cotesto malore avviene per periodi. E familiare ai vecchi, e più alle donne che agli uomini. Ai fanciulli è consueto e vero il flusso di ventre, ma non per debolezza del ventricolo, invece per la quotidiana intemperanza nel nutrimento. Fra le stagioni dell'anno la state più spesso reca questa malsania, poi l'autunno, quindi il freddissimo inverno, se subito dopo sia seguito da caldo. (p. 56)
- Le superiori intestina sino al ceco, tenui sono e biliose, e diconsi pertanto dai Greci Cholades: le interiori, cioè dal ceco sino all'origine dell'intestino retto, sono crasse e carnose. (capitolo IX; p. 57)
- [Sulla gotta] L'artritide è uno spasmo comune a tutte le articolazioni; se dei piedi podagra, se delle cosce ischiade, se delle mani chiragra si nomina. [...] Dapprincipio dolgono i nervi delle legature articolari, e quelli che partono dalle ossa, o che in esse si inseriscono. E nelle ossa accade questo di mirabile; che esse non dolgono ne nel segarle, ne nel romperle; ma se alcuna di esse dolga per artritide, nessun'altra cagione genera in esse dolore più forte; non ferri né funi che stringano, non spade taglienti, non fuoco bruciente; cose tutte che talora anzi s'impiegano come rimedii de' grandi spasimi. Che se taluno tagli un osso dolente, il dolore del taglio e oscurato dall'altro che è maggiore. E se il primo prevalga, come avviene de' denti e di qualche altro osso, il dolore del taglio e della estrazione è tosto seguito da piacere, e dalla oblivione delle passate sofferenze. La vera causa dell'artritide la sanno i soli Iddìi: a noi non è dato prescrutarne, che la probabile e la apparente. (capitolo XII; p. 62)
- [Sulla gotta] Duole dapprima il dito grosso del piede, dipoi il calcagno nella parte principale, sulla quale ci appoggiamo, dipoi nella sua parte concava, e si tumefà il malleolo posteriore. Gli infermi non ne trovano la legittima cagione: alcuni ne accusano lo stringere delle scarpe, una lunga camminata, un urlo, una percossa, e niuno saprà sospettarne la cagione intestina e famigliare: e quando agli ammalati tu la snoccioli chiara e tonda, essi penano a crederti. Infrattanto incontrano una malattia insanabile, poiché il medico non può ostare ai principii, essendo il morbo per se stesso allora leggerissimo, e acquistate che abbia per lunghezza di tempo maggiori forze, a nulla valgono le mediche cure. Ad alcuni, il morbo si sta conficcato nelle articolazioni del piede sino alla morte: ad altri va vagando per tutta la periferia del corpo. Per lo più va dai piedi alle mani, e non importa gran fatto, se piuttosto negli uni, che nelle altre risieda; perocché ambedue le articolazioni sono della medesima natura, cioè gracili, scarne, esposte all'esterno freddo, e dal calore interno remotissime. (p. 63)
- [Sulla gotta] Nelle articolazioni poi si osservano altresì certi nodi tofacei, che dapprincipio occupano le nocche articolari, a guisa di ascesi. Fattisi in seguito più duri per il concreto umore tolgono ogni flessione, e infine in forma di tofi solidi e bianchi si manifestano. Lungo tutta la parte si vedono piccoli tubercoli, quali sono i cosi detti Jonthi dai greci, Vari dai latini, che più s'ingrossano. L'umore che contengono è denso, biancastro, grandinoso, essendo tutto il morbo frigido come grandine. (p. 63)
- La podagra continua difficilmente si incontra: il più spesso è intervallata da lunghe intermissioni, essendo di natura fuggevole. Un podagroso, quietatogli il morbo, riportò vittoria nel corso agli Olimpici ludi. Gli uomini agevolmente incappano nella malattia, e fra le donne le più agili. Nel vero le donne assai diffìcilmente sono da questo vizio attaccate. Ma appunto perche loro non è consueto né famigliare, se per alcuna urgente cagione con forza lo contraessero, si renderebbe violento e arrecherebbe maggiori calamità. La eta proclive a tale malattia è dai cinque anni sopra i trenta, o più tardi come la natura di ciascuno, o il tenore del vitto predispone. Atroci certamente sono i dolori, ma i sintomi concomitanti lo sono ancor più; deliquii, impotenza al moto, contrarietà ai cibi, sete, vigilie. (p. 64)
- Cadono totalmente esanimi quelli cui l'apoplessia instupidisce il corpo e la mente. Ella è pertanto un male di gran forza. Se l'infermo è vecchio (consueta è ne' vecchi l'apoplessia) non se ne cava, oppresso dalla violenza del morbo, e dalla miseria dell'età. [...] Se v'abbia gioventù, l'apoplessia non è così forte, e nondimeno è difficile a curare. Ad ogni modo deesi tentare di medicarla. Ad ambedue indispensabile, come lo è sempre ad un gran male un grande rimedi, ell'è l'emissione di sangue; dove l'estrarlo oltre misura, non arrechi il deliquio. (pp. 76-77)
- Nuoce nel choléra il sopprimere la emetocatarsi. Trattasi di umori crudi, ai quali bisogna sempre lasciare libera l'ultronea espulsione. Che anzi se penino ad escire conviene aiutarli, dando a bere acqua tepida, spesse volte, ma a sorsi, affinché gli sforzi infruttuosi dello stomaco non prendano forma di convulsione. (Della cura de' morbi acuti, libro II, capitolo IV; p. 96)
- Le purgagioni si facciano coll'elleboro: il bianco, il ventre superiore, il nero purga l'inferiore. Sennonché l'elleboro bianco non solo provoca il vomito, ma gli è il potentissimo fra tutti i farmachi vacuativi: non per copia e varietà d'escrementi alla maniera de' cholerosi, né per intenso e violento vomito, quale è quello che è eccitato dalla nausea di mare: non ha né cotesta forza, né cotesta mala qualità; ma invece restituisce i travagliati blandamente in salute, con placido purgamento, e comportevole intensità. Senza dubbio, che quando ogni altra medela sia inutile, in qualunque cronica malattia che abbia già messo profonde radici, cotesto elleboro è l'ancora sacra. È in lui una natura paragonabile a quella della fiamma, e com'essa serpeggia e si diffonde per le interiora. (Della cura delle malattie croniche, libro II, capitolo XIII; p. 125)
Citazioni su Areteo di Cappadocia
[modifica]- Areteo, sommo maestro nel medicare fra gli antichi. (Giovanni Battista Morgagni)
Bibliografia
[modifica]- Areteo di Cappadocia, Delle cause, dei segni e della cura delle malattie acute e croniche, libri otto, traduzione di Francesco Puccinotti, Presso Bertani Antonelli e C., Livorno, 1843.
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