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Francesco Moroncini

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Francesco Moroncini

Francesco Moroncini (1866 – 1935), critico letterario italiano.

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  • Il Tiraboschi fu il primo, che si accinse all'erculea fatica di scrivere la Storia della letteratura italiana dalle origini etrusche e latine fino al principio del secolo XVIII; e in undici anni condusse da solo a termine questo colossale lavoro[1]. Egli dice bensì di volere scrivere la storia della letteratura italiana, e non la storia dei letterati italiani; ma in realtà dissertando a lungo sulla vita dei singoli autori e sul tempo della pubblicazione dei loro scritti, di rado entra a parlare dei libri loro, o se lo fa qualche volta, è assai leggermente. Oltre al non seguire il metodo puramente cronologico, oggi riconosciuto generalmente il migliore, sono in lui gravissimi difetti, come notò il Foscolo, la mancanza di disegno e di colorito, vane questioncelle in cui spesso si perde, e la mancanza di quella ragione filosofica che dovea dimostrare come e quanto uno scrittore giovasse o nuocesse all'arte e alla patria, e perché la fama di lui crescesse o diminuisse coll'andare del tempo. (p. 17)
  • Luigi Lanzi prese a trattare la questione degli Etruschi, che il Tiraboschi avea appena toccato. Dopo studii accuratissimi egli pubblicò un Saggio di lingua etrusca: titolo forse un po' ambizioso; in quanto, se di questa lingua ci rimangono moltissimi monumenti, la conoscenza di essa è ancora un desiderio. Egli si ferma sulle antichissime inscrizioni greche e latine, dalle quali deriva l'alfabeto, l'ortografia e una specie di grammatica pel suo etrusco, colla quale si fa ad interpretare i monumenti; non accorgendosi che, se per l'egiziano poté lo Champollion dalla conoscenza del cofto[2] passare alla scoperta dei caratteri, per l'etrusco invece si doveva dai caratteri passare alla scoperta dell'alfabeto e della grammatica, impresa mille volte più malagevole. (pp. 17-18)
  • Il Lanzi, malgrado le imperfezioni e gli errori dell'opera sua, è una delle glorie più grandi d'Italia in questo genere di studii, avendo portato una gran luce nello studio dell'antichità, e determinato il retto metodo ermeneutico, che si deve tenere nella interpretazione dei monumenti di essa. (p. 18)
  • Un'importanza filologica superiore ai suaccennati [Botta, Colletta e Ciampini] ha senza dubbio il Micali, per avere fra i primi, nella sua Storia degli antichi popoli italiani richiamato l'Italia, anzi l'Europa allo studio dei monumenti antichi come insigne materia per la storia dei popoli. Ei vuol dimostrare che la popolazione italiana è antichissima, e che l'Italia ebbe una civiltà tutta propria, prima che alcun altro popolo vi apportasse la sua. E per accrescer valore alla sua tesi, crea una mitologia etrusca di suo capo e allega una serie di stampe rappresentanti i più famosi monumenti dell'antichità, nell'interpretazione dei quali per altro cade in molti e gravi errori. Tuttavia, sebbene per le nuove scoperte e i progressi della critica storica l'opera di lui sia oggi poco conosciuta e stimata, egli è pel suo tempo uno dei pochi che compresero il metodo che si conveniva seguire in simili lavori. (pp. 18-19)
  • Quello che, pel difetto dei tempi, non aveva potuto fare il Winkelmann[3], lo fece il romano Ennio Quirino Visconti; il quale, più fortunato del Winkelmann, avendo potuto studiare i monumenti egiziani e scorgere in quelle massicce figure i primi lineamenti dell'arte di Fidia e di Prassitele, poté abbracciare colla sua mente robusta tutta l'arte antica, svelare il soggetto e l'intendimento di ogni lavoro, e segnare, correggendo quelle del Winkelmann, le epoche corrispondenti ai diversi stadii dell'umano incivilimento. Il Museo Pio-Clementino e l'Iconografia greca e romana sono due de' più grandi monumenti del nostro tempo, a cui gli stranieri non hanno nulla di somigliante da opporre. (pp. 19-20)
  • [...] la paleografia, fondata propriamente da Bernardo di Montfaucon (1708), ebbe in Gaetano Marini il suo massimo splendore. Il suo lavoro più insigne sono gli Atti e Monumenti dei fratelli Arvali, raccolti, decifrati e commentati da lui con tanta ampiezza di erudizione e finezza di critica, che circa mille altri antichi monumenti ne rimangono illustrati. (p. 20)
  • Quando [Angelo Mai] ridonò al mondo i libri «De Republica» di Cicerone, quantunque imperfetti, da un capo all'altro di Europa fu un grido di ammirazione. Al valore letterario dell'opera si aggiungeva la sua importanza politica, essendo un documento solenne del modo con cui Cicerone ed altri grandi romani pensavano circa la miglior forma di governo. La dottrina sulla divisione dei poteri insegnata in queste pagine antiche, e il principio di una giustizia astratta, superiore alla forza e alla prepotenza dei re, erano indicate come pericolose utopie, sorelle di quelle sediziose dottrine che avevano fatto versare tanto sangue in Europa. Poco mancò che il Mai non fosse posto fra i perturbatori dell'ordine pubblico. (p. 22)
  • Ora noi possiamo dire che, se l'avanzamento della critica ha corretto qualche opinione e qualche interpretazione del Mai, la scienza filologica deve tuttavia a lui più che ad alcun altro erudito di questo secolo. (p. 23)

Note

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  1. Si servi degli Annali del Muratori, che gli porsero il filo della narrazione, e dei lavori speciali del Gimma, Crescimbeni, Fontanini, Serassi e altri dotti. [N.d.A.]
  2. variante di "copto".
  3. errato per Winckelmann.

Bibliografia

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Altri progetti

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