Francesco Novati

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Francesco Novati (1859 – 1915), filologo italiano.

Citato in Maria Acrosso, La critica letteraria[modifica]

  • Tutte le testimonianze già note intorno al poeta di Goito sono state diligentemente raccolte e vagliate; parecchie ignote sono tornate alla luce: le liriche stesse del trovatore, fin qui inedite o sparsamente divulgate, hanno rinvenuto un editor acuto ed amoroso e numerosi illustratori. Il risultato di questo lavorìo non può tuttavia dirsi sotto certi rispetti molto confortante; giacché la realtà storica del Sordello dantesco ne ha ricevuto un colpo fiero così che sembra attenuarsi sempre più e dileguare. «Si direbbe che Dante, conscio di non poter lasciare il suo eroe congiunto colla terra senza diminuirne la figura, abbia voluto staccarnelo affatto e circondarlo della pura atmosfera d'una vita ideale». Così scrive il Parodi, che si mostra incline, come i più competenti ormai tra i cultori degli studi danteschi, a conchiudere che sotto le spoglie del concittadino di Virgilio, ardente tutto di patria carità, l'Alighieri finì, volente o nolente, per ritrarre non altri che se stesso.[1] (p. 77)
  • Scrisse già Claudio Fauriel che l'Alighieri «ha voluto fare ed ha fatto di Sordello il tipo, l'ideale del patriotta in generale e più particolarmente forse del patriotta italiano; egli ne ha fatto un ghibellino, il quale non sa perdonare a Rodolfo d'Asburgo d'aver neglette le cose d'Italia, aggravandone con siffatta negligenza le condizioni; ma che tuttavia spera ed invoca ancora da un altro imperatore la salvezza della penisola». Vi sono in cotesto giudizio del dotto francese inesattezze gravi. Sordello non rappresenta già nel Purgatorio l'amor di patria in generale e neppur l'amore dell'Italia, bensì personifica, a mio avviso, nella sua forma più caratteristica, più primitiva, se così posso esprimermi, la carità verso il natìo loco, la tenerezza figliale, che lega indissolubilmente l'uomo al terreno dove posò pria, dove fu nudrito dolcemente, dove riposano l'ossa dell'uno e dell'altro suo parente. Dante ha voluto mostrare in lui non l'Italiano, bensì il Mantovano; e se egli sorge così impetuoso, obliando l'alterezza innata e l'abituale disdegno, ad abbracciare Virgilio, ciò è dovuto unicamente al magico suono di quel nome che spunta sul labbro del poeta: Mantua me genuit. S'egli non fosse nato tra i canneti del Mincio, se non trasse l'origine dal luogo ond'ei pure è venuto, avrebbe il cattano di Goito mutato sì prontamente contegno? No davvero. È dunque indubitabile: Sordello raffigura quel sentimento, quel vincolo che nasce dall'avere comuni, secondo dice Cicerone, i monumenti dei maggiori, i templi, i sepolcri.
    Ma codesto sentimento non esiste più nel petto degli italiani a' dì dell'Alighieri: esso ne è stato violentemente sradicato. In luogo suo i cuori non nutriscono che odio; e dall'odio son generate le fazioni, per colpa delle quali appaiono partiti non gli abitanti soltanto delle città tutte della penisola, ma quelli pure de' borghi, e fin de' villaggi.[1] (pp. 78-79)
  • Additar dunque in Sordello un ghibellino è fraintendere completamente il pensiero dantesco. No, no, Sordello non può essere né guelfo né ghibellino, giacché questi esecrandi nomi, che gli spiriti delle tenebre scrissero a caratteri di fuoco tra i lampi ed i tuoni, nel cielo sconvolto dalla bufera in una notte maledetta, servono soltanto a mascherare le basse e feroci passioni per cui quotidianamente le vie d'ogni città italiana son fatte lorde di sangue. Ed il male par tanto più grave, più inesplicabile al poeta in quanto che coloro i quali soli potrebbero correre al riparo, non ne hanno cura veruna.[1] (p. 79)

Note[modifica]

  1. a b c Da Freschi e Minii del Dugento, Cogliati, 1908, pp. 159-172.

Bibliografia[modifica]

  • Maria Acrosso, La critica letteraria, con avviamento alla composizione, Palumbo, stampa 19703.

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