Giacomo Losi
Aspetto
Giacomo Losi (1935 – 2024), calciatore e allenatore di calcio italiano.
Citazioni di Giacomo Losi
[modifica]Citazioni in ordine temporale.
- [Sulla Coppa delle Fiere 1960-1961] Ricordo un senso di grandezza per una squadra che vinceva poco, era un trofeo molto importante. Un grande orgoglio. Fu una gara durissima col Birmingham, loro erano una squadra difficile da affrontare, ma noi volevamo a tutti i costi la qualificazione. Per fortuna i gol in trasferta non valevano doppio, perché nella semifinale contro l'Hibernian al ritorno all'Olimpico pareggiammo 3-3. Io non dovevo nemmeno giocare. Il giorno prima ero a Bologna per Italia-Irlanda del Nord. Dopo la partita ho preso il treno e ho raggiunto la squadra in ritiro. A casa ho una miniatura della Coppa delle Fiere che custodisco gelosamente. La davano solo ai capitani della squadra vincitrice. La coppa vera l'ho portata in mano facendo il giro dello stadio, la gente era impazzita, perché Roma quando festeggia, festeggia veramente.[1]
- [Sul soprannome "Core de Roma"] [...] fu determinante anche un'ospitata in tv, su Rai 1. Il programma era L'oggetto misterioso, con Walter Chiari e Rita Pavone. Fu il grande attore a dire: "Vi presento il core de Roma" e da allora lo sono stato per tutti.[1]
- Quando eravamo una "Rometta", lo stadio era pieno. In Italia nessuno ha un tifo come quello giallorosso.[2]
- [«Cosa ricorda della Coppa delle Fiere vinta contro il Birmingham City?»] Che l'abbiamo vinta noi giocatori, alla società non gliene fregava niente! A volte non volevano neanche pagarci il premio partita. Nel 1961 era un calcio più amatoriale: il tecnico contava fino a un certo punto.[2]
Intervista di Riccardo Cotumaccio, soccermagazine.it, 21 settembre 2012.
- [Sulla Coppa delle Fiere 1960-1961] Giocai la semifinale avendo disputato, il giorno prima, una partita con la Nazionale in Irlanda. Mercoledì, giorno del match, andai a trovare gli altri in ritiro. Dissi a mia moglie: "Vado a salutare i miei compagni", all'epoca abitavo all'EUR. Arrivato in ritiro i miei compagni si complimentarono per la prestazione con l'Italia e il mister Foni mi disse: "Senti, se ti chiedo di giocare che fai?" – "Io gioco", risposi. Il mister chiamò i compagni e gli chiese: "Che dite, facciamo giocare Giacomo?". In risposta ci fu un lungo applauso. Fu poi una fortuna. Telefonai a mia moglie dicendole: "Vai allo stadio da sola, io gioco con la squadra". Così la partita finì 3-3, ed io – a cinque minuti dalla fine – salvai il risultato bloccando l'attaccante avversario sulla linea di porta. Giocammo la bella quattro giorni dopo e vincemmo in casa per 6-0, qualificandoci per la finale. Poi vincemmo la Coppa.
- [«[...] da Capitano [...] ha vissuto una delle pagine più tristi della storia della Roma: la Colletta del Sistina»] Erano mesi che non ci pagavano. Non c'erano i soldi, né i premi. Ma non fu colpa del presidente Marini Dettina, troppo buono per fare il presidente di una società come la Roma. Allora era allenatore Lorenzo, ex Lazio, e lui pensava di andare tutti al Sistina e di fare una riunione con i tifosi più facoltosi, i tesserati. Ci convinse a presenziare, e andammo al Sistina ignari di quello che poteva succedere. Salimmo sul palcoscenico e, dopo il discorso di Lorenzo, uno dei tifosi voleva che scendessimo in platea per ricevere delle elemosine da parte del popolo. Ci rifiutammo, ma quel signore si tolse il cappello e raccolse centomila lire. Quei soldi Lorenzo li diede a noi giocatori, ma noi li devolvemmo alla popolazione del Vajont, all'epoca vittima del noto disastro industriale, non prendendoci una lira.
- [Su Helenio Herrera, «che rapporto c'era con il tecnico?»] Quando è arrivato ero felicissimo. [...] avevo 34 anni, non ero decrepito. Mi fece giocare la Coppa Italia prima del Campionato e le prime otto in Serie A. Ero l'unico, però, a rispondergli o a dirgli qualcosa. Controbattevo certe sue idee. Lui da lì cominciò a non masticare molto Giacomo Losi. A Verona giocai la mia ultima partita con la Roma, persa per 2-0 perché gli altri avanzavano e io rimanevo da solo a difendere. Negli spogliatoi lo invitai a cambiare marcia e non la prese affatto bene. Ero l'unico a poter parlare; tutto ciò che diceva per gli altri era vangelo. In ritiro a Grottaferrata, pochi giorni dopo, sul giornale lessi "Sorpresa! Fuori Giacomo Losi" con il Bologna. Chiesi spiegazioni ad Herrera, il quale, invece di mandarmi in tribuna per scelta tecnica, si inventò un mio infortunio. Lui diede la colpa ai giornali, poi aggiunse: "Lei non si preoccupi. Se vuole può anche andar a casa". Presi e me ne andai, da quel giorno non avrei più giocato. E la società non ha neanche alzato il telefono per chiedermi cosa fosse successo. A fine stagione mi han chiesto di andare a cercare giocatori in giro per la Roma. Ma io ero un giocatore! Lì ci rimasi molto male con la società perché non me l'aspettavo. Alla fine del campionato l'usciere della Roma mi consegnò una lettera, ben scritta, nella quale mi si ringraziava di tutto e mi si liberava. Ero svincolato. Con la Roma ho finito in questa maniera, e ci rimasi così male che non giocai più al calcio. Mi volevano Atalanta e Bari. Ma non giocai più.
- [«Ad Alessandria fu esonerato prima di disputare il campionato»] Me ne andai via prima. Non mi è piaciuto il presidente, il signor Sacco. In breve: ero in preparazione, avevo già fatto tre partite di Coppa Italia, arriva il presidente che, dopo essersi complimentato, mi invita a casa sua. Mi impose di cedere cinque giocatori fondamentali a tre giorni dall'inizio del campionato. Mi rifiutai. "Lei non sa con chi parla! Sono il presidente Sacco!" – "Sì, ma di merda", gli risposi!
Intervista di Gianni Mura, repubblica.it, 17 febbraio 2014.
- La mia famiglia era povera, io e mio fratello dormivamo nello stesso camerone dei genitori. Mio padre Pietro lavorava in una cooperativa di facchini che riempivano e svuotavano i grandi silos. Mia madre Maria, era in filanda. E di quelle filandere toste, che andavano a discutere col padrone. Me la ricordo, nel primo dopoguerra, che si dava da fare a organizzare i comizi di Pajetta. Mio padre non ha mai voluto saperne della tessera del Fascio. Era di famiglia socialista. Così una notte del '43 sono venuti gli squadristi a prenderlo in piena notte. Stai tranquilla, hanno detto a mia madre, lo mandiamo a lavorare per la patria e sei fortunata, perché ti spedirà a casa dei bei soldini. Mai visti, ma il peggio è che per quasi due anni non abbiamo più saputo nulla di lui, dov'era, se era vivo, e un giorno torna che quasi non lo riconosciamo, magro come un chiodo, la barba lunga, era scappato e ha dovuto nascondersi. Era stato a scavare in un campo di lavoro in Cecoslovacchia, di fianco c'era un campo di concentramento. Non ha mai voluto parlare di quel periodo.
- Ho smesso in quinta elementare, c'era da dare una mano in casa, ero l'aiuto di un sarto, mi piaceva. I calzoncini della mia prima squadra, nata tra amici, li ho cuciti io. [...] Ma i giochi più pericolosi erano con le bombe. Nel '45 portavo bombe e nastri di mitragliatrice ai partigiani che sparavano giù della Rocca. I tedeschi si arrendevano e sul camion lasciavano di tutto, una pacchia per la gente: coperte, scarponi, ma io prendevo solo baionette e maschere antigas. Facevamo i fuochi d'artificio con la polvere da sparo, ma un giorno al fiume accade un dramma. La guerra era finita, ma gli ex partigiani usavano le bombe per pescare. In un'ansa era rimasta una bomba chiara, più grande. diversa dalle altre, e noi ragazzini a provocare: vediamo chi ha il coraggio di andarla a pescare. Io, anche se era un bel quattro metri sotto. La porto a riva e uno più grande, sui 15 anni, dice: lasciate fare a me, ci penso io. Eravamo in sette. Grande botto, schegge dappertutto, una mi trancia la falange di un pollice, vede? Passa il mugnaio col carretto e ci carica per andare all'ospedale. Ne manca uno, gli dico. Torniamo indietro, il ragazzo era già morto. Da quel giorno ho chiuso con le armi.
- [...] allora un difensore non era valutato solo in centimetri. E io, come difensore, sui palloni alti non stavo incollato all'attaccante, anzi. Sui corner, mi piazzavo sul primo palo, importante era capire in anticipo dove sarebbe andato il pallone, e a quel punto saltavo con una breve rincorsa. Giocavo sulla palla, non sull'avversario. Sarà anche vero che oggi il calcio è più veloce e tecnico, ma mi sembra troppo esasperato e meno pulito, quasi più una recita che uno sport.
- Uno con cui non l'ho mai vista, Garrincha. Aveva una gamba più corta, veniva avanti ciondolando, come stesse per cadere, fintava da una parte e partiva dall'altra.
- [«Lei con Helenio Herrera non legò molto»] Credo fosse geloso della mia popolarità in città, anche se non la facevo pesare. Andavamo nei club dei tifosi e chiedevano l'autografo prima a me che a lui. [...] A Herrera non ho mai perdonato di aver fatto rientrare la squadra da Cagliari quando Taccola morì sul lettino dello spogliatoio. Io non c'ero, ero a Roma, e mi toccò andare a informare la famiglia di Giuliano. Forse a Herrera non faceva piacere che io rifiutassi la pillola quotidiana di Evoran, gliele procurava il massaggiatore Wanono in Francia. Mai presa, e dicevo ai compagni di starci attenti. Lui diceva che erano vitamine, ma noi cosa ne sapevamo?
Irene Sigillo - Liceo Dante Alighieri di Roma, diregiovani.it, 29 aprile 2016.
- Io ho incominciato a giocare a calcio quando avevo 13 anni, da bambino, a Sorcino in provincia di Cremona in mezzo alla strada. Non avevamo neanche il campo e abbiamo creato una squadretta tra amici, ci siamo comprati anche le magliette da soli. E lì incominciai a giocare a pallone diciamo, perché prima mi piaceva molto la bicicletta ero un appassionato di Fausto Coppi. Ho scoperto il pallone improvvisamente giocando per strada con gli amici.
- A 16 anni mi presero alla Cremonese, ma mi presero come ragazzo e debuttai lì in prima squadra. I miei compagni mi tenevano come un bambolotto, perché erano tutti più grandi di me. Ma da lì vincendo il secondo campionato di quarta serie qualcuno da Roma mi ha visto, anche se io pensavo di andare dappertutto ma non a Roma. [...] È stata una sorpresa perché quando mi hanno chiamato mentre ero in vacanza, al telefono pubblico perché non ce l'avevamo in casa, mi hanno detto: "Ti abbiamo ceduto ad una squadra di Serie A". Non ho neanche domandato la squadra che era tanto che ero contento [...]. Però è stata una piacevole sorpresa perché Roma, beh era un bel viaggio per me, non c'ero mai stato a Roma ma già ci impressionava a noi ragazzi, venivamo dai tempi della guerra non è che conoscevamo qualcosa al di fuori del paese. Quando mio padre mi portò a Milano nel '54, avevo 19 anni, per prendere il treno per Roma mi disse: "Cerca di giocare bene o devi andare a fare il magutt (manovale)".
- Il calcio è cambiato, ai miei tempi era passionale, un calcio che amavi. Giocavi perché ti faceva piacere giocare, non c'era prima vengono i soldi e poi il gioco. Non pensavamo mai a quello che ci davano, andavi lì e ti davano quello che ti davano. Poi è arrivato il calcio moderno, nazionali, la carriera è andata avanti ma prima che succedesse questo sono passati anni. Adesso già i bambini i genitori pensano al guadagno. Il gioco del calcio è un divertimento, una cosa bellissima, se fatto con lo spirito, se lo fai pensando che devi guadagnare cifre esorbitanti allora non va bene. Io insegno a giocare a calcio cercando di insegnare le basi del gioco, ad essere corretti. [...] Io intendo il calcio come una vita se sei corretto nel calcio, sei corretto nella vita. Il calcio deve essere una cosa gioiosa, non opprimente. Questo insegno ai miei ragazzi.
Da un'intervista al Corriere dello Sport - Stadio; citato in pagineromaniste.com, 16 settembre 2017.
- Io sono del '35 e avevo nove anni quando ho cominciato a dare i primi calci in mezzo alla strada. Facevamo le porte con gli indumenti che avevamo addosso. Mettevamo un cappellino da una parte, un maglione dall'altra della piazzetta, quelle erano le porte. E giocavamo sul selciato, perché non c'era l'asfalto, erano solo sassi. Però pur di giocare facevamo tutto, anche prendere a calci palle di pezza...
- Appena finita la guerra ci trovavamo, noi ragazzi, alla via Crucis che si faceva in Quaresima. C'era una specie di spiazzo, davanti alla chiesa, e noi lì abbiamo costruito una squadretta che abbiamo chiamato Virtus, pensi che immaginazione. Andavamo a sfidare i comuni vicini a Soncino, tipo Orzinuovi, Soresina. In questi paesi negli oratori c'erano i campi da calcio, tutti abbastanza piccoli. È stato lì, in quell'Italia libera e povera, che ha avuto inizio la mia passione per il calcio.
- È stato una sorpresa, per me, Herrera. Perché io pensavo che fosse un grandissimo allenatore quando è arrivato. Capirai: abbiamo preso Herrera, ha vinto tutto con l'Inter, faremo sfracelli. Invece avevo scoperto durante la preparazione del campionato che vendeva molto fumo come allenatore. Non mi piaceva. Però aveva un grosso carisma e riusciva a conquistare la simpatia di tutti. [«È vero che lui dava delle pillole nello spogliatoio?»] Sì, si chiamava Levoral, diceva che era una vitamina. Io non l'ho mai usata, la buttavo dovunque potevo. Noi andavamo in ritiro spesso a Grottaferrata, e lì, prima di entrare in albergo, c'era una specie di fontana. Il fondo era pieno di pasticchette che i giocatori facevano finta di prendere e poi gettavano in questa fontanella. [...] Lui insisteva per metterla in bocca, ma noi la tenevamo sotto la lingua e poi la sputavamo.
- [«Come è nato il mito di Losi a Roma?»] Non lo so. Forse per il modo di giocare che avevo. Perché io non mi davo mai per vinto. Non mollavo mai l'osso.
- [Su John Charles] Era eccezionale. Io l'ho avuto come avversario e come compagno. Era un ragazzo adorabile. Aveva una potenza fisica eccezionale però non era capace di fare male a nessuno. Non metteva mai la gamba per farti male, cercava anche di essere di sostegno all'avversario quando succedeva un incidente.
- [«Lei è stato ammonito una sola volta in tutta la carriera... Raro, per un difensore...»] Mi ammonirono nell'ultima partita... [...] A Verona. [...] Il Verona giocava con due centravanti. Bui e Traspedini. Due cristoni alti uno e novanta. Io mi trovavo sempre con questi due davanti. Quando c'erano i lanci lunghi su questi due giocatori, forti di testa, io dovevo sempre anticiparli, sennò non la pigliavo mai. Mettevo giù uno, mettevo giù l'altro ogni volta che volevo fermarli. A un certo punto l'arbitro mi disse "Losi, non sa quanto mi dispiace, ma devo ammonirla". Aveva ragione. Poi mi ha detto "Che succede oggi?". Per tutti era una cosa strana che io facessi dei falli perché io non giocavo picchiando gli avversari, io giocavo d'anticipo, pulito.
Citazioni su Giacomo Losi
[modifica]- Giacomo Losi nel campo dei ricordi ha il numero 3, ma andrebbero bene anche il 2, il 5 e il 6. Tutti i ruoli della difesa li ha coperti, semmai c'è da chiedersi come riuscisse, lui alto 1.68, a marcare giganti come John Charles. (Gianni Mura)
- Un padre di famiglia, una persona pacata, serena, che riusciva a capire l'uomo ed il giocatore. (Domenico Penzo)
Note
[modifica]- ↑ a b Dall'intervista di Francesco Balzani/Edipress, Roma-CSKA Sofia: parla Losi, capitano della Roma vittoriosa in Europa, guerinsportivo.it, 16 settembre 2021.
- ↑ a b Dall'intervista Giacomo Losi, capitano della coppa europea vinta: "Caro Lorenzo, ora tocca a te", forzaroma.info, 7 maggio 2022.
Voci correlate
[modifica]- Massimo Liofredi – nipote
Altri progetti
[modifica]- Wikipedia contiene una voce riguardante Giacomo Losi
- Commons contiene immagini o altri file su Giacomo Losi