Giambattista Giraldi Cinzio

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Giambattista Giraldi Cinzio

Giovan Battista Giraldi Cintio (1504 – 1573) letterato, poeta e drammaturgo italiano. Cintio, Cinthio (o Cynthius) che segue il cognome è un soprannome accademico.

Egle[modifica]

Incipit[modifica]

ATTO PRIMO

SCENA PRIMA

Silvano solo


Quando lo stuolo uman ne l'innocenza
prima vivea, e dava cibo a ognuno
le ghiande ne le selve, e bever l'acque,
furon le selve ed i pastori in pregio,
e noi al par de gli altri Dei pregiati.
Furono poi dai boschi e da le selve,
(o che per virtù de l'eloquenza altrui;
o per opra d'alcun prudente, o vera
che così pur volessero le stelle)
gli uomini in un con le cittadi accolti,
e col luogo mutar' costumi e legge;
ed in vece de l'acque e de le ghiande,
le quali il mondo, che le fugge, onora,
die lor Cerer le biade, e Bacco il vino,
Bacco, al qual noi serviamo, e che nodrito
fu dal nostro Silen tener fanciullo;
E quantunque essi ne le altier' cittadi
avessero altra vita, altri costumi,
nondimen raccordevoli d'avere
principio avuto da gl'incolti boschi,
a noi Dei de le selve alzaro altari
tal che non pur ne' luoghi aspri e selvaggi,
ma ne l'alte cittadi il nome nostro
era avuto in onore e in riverenza,
e ne' solenni giuochi e né le feste
introdotti eravamo ancora noi
per dare esempio a ognun di miglior vita;
e quantunque, da poi che trasformossi
quel giovanetto che sovra ogni cosa
io amava, e avea nel cor vivo scolpito,
in questa pianta che il suo nome serba,
Sempre io sia stato misero e infelice;
pur non m'era discar veder ch'a noi
desse il debito onor la gente umana.

Citazioni[modifica]

  • Amor che mai non giunca a fine, amore | dir non si dee, ma una continua pena (Satiro: atto I, scena II)
  • Il lamentarsi è vano, | quanno non ponno le querele: ajuto | porgere a chi si duole. (Fauno: atto I, scena II)
  • 'Bacco, se nel nudrirti ebbi già affanno, | tant'or piacere ho in core | pel tuo licore [Il vino], che mi par lieve ogni sofferto danno. (Sileno: atto I, scena III)
  • Or sotto questi faggi | datemi bere. | Oh che soave odore | esce di questo vaso! (Sileno: atto I, scena III)
  • Beata quella vite, ond'è uscì fuore | così soave umore [il vino]. (Egle: atto I, scena III)
  • Beato il padre e la madre onde nacque | Bacco, nostro alto duce, | che noi lieti conduce | a ber l'alto licor [il vino] che mai non spiacque. (Sileno: atto I, scena IV)
  • Tenete questo fiasco pien di greco, | e bevete una e due volte, e in un tratto | vi uscirà ogni dolor fuori del petto. | Bevi Satiro mio, bevi, car Fauno, | che chi beve buon vin, senza Lete, | se ne beve l'obblio d'ogni dolor. (Sileno: atto I, scena IV)
  • Ma io vi prego intanto a ricordarvi | che il vino è medicina a ogni gran cura: | e che impossibil è, che chi ben beve, | con ogni grave duol non faccia tregua. (Sileno: atto I, scena IV)
  • O Bacco onnipotente, | difendi la tua gente | da gli oltraggi del cielo | [...] | temp'è signor, che mostri, | se mai sempre ti piacque | il nostro non bere acque. (Coro: atto I, scena IV)
  • Il piacere introdotto fu nel mondo, | perché il mondo per lui si conservasse. (Egle: atto II, scena I)
  • Solo il piacer è che condisce | di dolcezza ogni amar di questa vita. (Egle: atto II, scena I)
  • Di ciò che vive | il diletto sia fine, e tra i diletti | quel di Venere e Bacco il maggior sia. (Egle: atto II, scena I)
  • La troppa audacia torna spesso in danno. (Fauno: atto II, scena II)
  • Non si vuol venir mai a la forza, | fin che non s'è tentata ogni altra via; | e sciocchezza è voler tor con violenza | cosa che per amor si possa avere. (Fauno: atto II, scena II)
  • Andremo ad altri lidi | prima che ognun di noi amando pera. (Coro: atto II, scena IV)
  • Se sapeste che cosa è il ber vino, | i fiumi e i fonti vi verriano a noja. (Egle: atto III, scena I)
  • È un velen dolce | il vino, e fa, come serpente ascoso, | che quando il pensi men, ti dà di morso. (Najadi: atto III, scena I)
  • Il mondo, in quanto a se, tutto distrugge, | chi di servar verginità si pensa. (Egle: atto III, scena I)
  • E in cielo | Venere ama Vulcan quantunque tale, | ed ella la Dea sia d'ogni bellezza. (Egle: atto III, scena I)

Orbecche[modifica]

Incipit[modifica]

ATTO PRIMO
SCENA PRIMA
nemesi Dea, furie infernali.
Nèmesi


L'infinita bontà del sommo Giove
tempra così la sua giustizia immensa,
che ancorché un reo sia di gran vizi pieno,
né ad altro mai, che a mal oprar intenda,
e per ciò meriti agro, e crudel castigo;
pur aspettando Dio ch'ei si corregga
rattien la sferza, e non gli dà la pena
degna delle sue triste, ed inique opre;
anzi, oh bontà del Creatore eterno!

Citazioni[modifica]

  • Ove a color, che son nel male immersi, | quando i lor peccati son giunti al sommo, | e conoscer non han voluto quanto | cerco abbia Dio a richiamarli a lui, | da spesso in questa vita acerba morte, | e nell'altra infiniti aspri tormenti, | che stati forse son piena mercede | di qualche piccol fatto da loro, | che come il mal non è senza la pena; | così non è senza mercede il bene. (Nèmesi: p. 111)
  • Nulla procede senza ordine infinito. (Nèmesi: p. 112)
  • Fate, che miser venga chi è felice, | e felice si stimi il più dolente, [...]. (Nèmesi: p. 114)
  • Ahi, quanto brevi sono i piacer nostri, | quanto vicin' al riso è sempre il pianto! (Orbecche: p. 121)
  • Credo, che fu, come si dice appunto, | la fallace fortuna a me nemica, | che quanto più piacer ci arreca o gioia, | tanto maggior dolor ne apporta poi [...]. (Orbecche: p. 121)
  • Onde si può ben dir, quel che ho già udito | e molti saggi dir, che sol felice | è chi unqua nel mondo mai non nasce, | o che subito nato, se ne more. | E così fugge, come dall'incendio | levato fosse, l'incostante sorte; [...]. (Nutrice: p. 130-131)
  • Difficil' è nell'onde acerbe, e crude, | quando l'irato mar poggia, e rinforza, | tener dritto il timone; ma non deve | però esperto nocchier perder sì l'arte, | che dall'ira del mar rimanga vinto | senza opporsi al furor; chè spesse volte | vinse l'altrui valor l'aspra tempesta. (Oronte: p. 132)

Citazioni su Giambattista Giraldi Cinzio[modifica]

  • In queste condizioni di povertà di produzioni – giacché queste che abbiam nominate son tutte le tragedie volgari che si produssero in Italia nei primi quarant'anni del secolo XVI, – in questo stato di esagerata imitazione dai modelli greci, si trovava il teatro italiano, quando comparve nell'arringo tragico Giambattista Giraldi ferrarese, il quale colla ricca opera sua doveva dare al teatro un nuovo indirizzo e tale un impulso, da fargli attribuire il vanto, che in dieci anni, dacché si era posto all'opera, erano apparse in Italia più tragedie che non nei trecento anni già scorsi dell'italiana letteratura. E la storia del teatro tragico in Italia conferma pienamente il vanto. (Pietro Bilancini)
  • Né dopo l'esame che abbiamo fatto di tutte e nove le tragedie si vorrà ripetere ancora che il carattere fondamentale del teatro del Giraldi sia l'amore all'orribile: v'è questo elemento, purtroppo comune a quei tempi anche nella vita, di cui il Giraldi ha subito l'efficacia, come, prima di lui, l'aveva subita lo stesso Rucellai[1] nella Rosmonda[2], come la subirono i tragici di tutti i teatri d'allora specialmente lo spagnolo e l'inglese; ma non possiamo dire che ne sia la qualità caratteristica. Anzi il teatro del Giraldi così per gli argomenti come per i personaggi che vi agiscono ha per carattere precipuo la varietà, mescolando l'orribile al patetico, il crudele al delicato il vizio più infame accanto alla virtù più pura, il tragico al comico, come mai si era fatto in Italia da alcun poeta: e per questo soprattutto può dirsi l'unico che coll'opera sua preludesse a quello che si disse drama romantico. (Pietro Bilancini)

Note[modifica]

  1. Giovanni di Bernardo Rucellai (1475 – 1525), detto anche Giovanni II per distinguerlo dal nonno Giovanni di Paolo Rucellai.
  2. Rosmunda, tragedia rappresentata nel 1516.

Bibliografia[modifica]

  • Giovan Battista Giraldi Cintio, Orbecche, prefazione di Michele Cataudella, CUES, Salerno, 1976.
  • Giovan Battista Giraldi Cintio, Egle, da il Parnaso italiano: Aminta, Alceo, Egle, Favole Teatrali del secolo XVI , a cura di Andrea Rubbi, Tomo XXIV, Antonio Zatta e figli, Venezia, 1786.

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Opere[modifica]