Gian Giacomo Felissent

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Gian Giacomo Felissent (1857 – 1912), politico, militare e pubblicista italiano.

Il generale Pianell e il suo tempo[modifica]

  • Insigne esempio di questa riservatezza stoica, ce lo diede il Maresciallo Von Benedek, quegli che aveva preparato la pappa all'Arciduca Alberto a Custoza[1] e andò, capro espiatorio, convinto, al macello di Sadowa![2] Davanti alla Commissione d'inchiesta egli non si difese, anzi coprì tutti perché lo aveva promesso all'Imperatore; dopo, quando l'Arciduca Alberto il 4 novembre 1866 si recò da lui e lo assicurò della simpatia e della viva riconoscenza di Francesco Giuseppe pel suo silenzio, e lo pregò di dargli parola che non avrebbe mai rivelato cosa alcuna fino alla morte, il Maresciallo promise... ma tanta sua nobiltà non gli risparmiò gli attacchi de' suoi nemici: l'Arciduca Alberto stesso uccise la sua fama di soldato; egli sofferse e tacque ancora. E alla moglie, che lo invitava a difendersi, rispondeva:
    «Verrà giorno che mi sarà resa giustizia, e se questo giorno non venisse, a me basterà di essere in pace con me stesso, con la mia coscienza e col mio Dio.» (parte prima, cap. 1, pp. 7-8)
  • Di fisico robustissimo Pianell non poteva comprendere come altri si stancasse, e ciò sa bene chi lo seguì a piedi, a cavallo, in carrozza e chi ebbe a collaborare nel suo ufficio. In certe cose pareva una macchina: tanto era metodico e preciso! l'ordine che dagli altri esigeva, lo sapeva anche tenere per sé. Questa minuziosità sarebbe sembrata certamente una negativa del talento a chi si figura l'uomo d'ingegno scapigliato, negletto, distratto; non a chi è noto che il genio è ordine e pazienza (Buffon). (parte prima, cap. 1, p. 20)
  • Cialdini fiero, vanaglorioso, insofferente di comandi e anche di consigli, ambizioso all'eccesso: era quegli che faceva verso la fine della campagna[3] il viceré a Strà, altero con tutti quasi fosse un sovrano, era quegli che da Padova appena occupata faceva staccare una locomotiva con un solo vagone per lui, per correre ad accettare l'invito a pranzo da una signora, bellissima vicentina, che l'aveva ospitato e curato quand'era stato ferito a Monte Berico nel 1848, senza pensare che gli Austriaci occupavano ancora la città a pochi passi da lui, e che potevano con ben lieve fatica catturare il generale in capo italiano!
    Si può dare maggior prova di leggerezza?... (parte seconda, cap. 12, p. 404)

La conflagrazione europea e l'Italia[modifica]

  • [...] se la Germania armerà la flotta al punto da rendersi minacciosa per l'Inghilterra, questa non tollererà mai a qualunque costo simile attentato; e ciò, tutto il suo passato glorioso per costanti propositi fino all' estremo, dimostra. – Popolo calcolatore, l'Inglese sarà risoluto nel saltar addosso a qualsiasi potenza che lo minacci nel predominio del mare; e quindi schiaccerebbe la potenza navale tedesca come già annientò la Spagnola, l'Olandese e la Francese. (p. 7)
  • Non chiedete all'Inghilterra la rinunzia alla egemonia dei mari, che essa è abituata a considerare eterna; e tanto meno chiedetelo oggi, in cui essa sa benissimo che non ha solide milizie nelle sue isole, che essa vuole isolate completamente per forza delle sue navi. Uno sbarco germanico reso possibile dalla vittoria sulle flotte britanniche, segnerebbe l'ultima ora per l'Inghilterra ed essa lo sa; come lo sapeva quando ispirata da Pitt profondeva l'oro sul continente per deviare la bufera che le si addensava contro, coi preparativi di sbarco organizzati a Boulogne dal genio guerresco[4] pel quale tutti tremavano. Boulogne generò Ulma e Austerlitz. L'oro inglese fu l'olio alle ruote delle coalizioni europee. (pp. 7-8)
  • I commerci sono legami fra i popoli – ma hanno bisogno di pace sicura altrimenti non possono prosperare. Se vi è modo a sperare assai per la fratellanza dei popoli, per l'aumentarsi continuo dei traffici e dei rapporti, non v'è però a pensare che la sola ragione commerciale possa impedir le guerre, anzi invece talora questa è atta a fomentarle e a renderle anche necessarie. (p. 20)
  • [...] alla prova delle armi, (prova sanguinosa e suprema), si giudica della virtù e solidità di un popolo, della sua serietà, della sua robustezza, del suo carattere, dei suoi ingegni. (p. 20)
  • Noi italiani [...] subiamo la depressione all'estero e la sfiducia intima, per contraccolpo delle guerre perdute, degli insuccessi sul mare e in terra. Gli stranieri facilmente sono tratti al dileggio, perché ci credono inetti ad offendere e a difenderci – e ci rinfacciano troppo spesso le continue disfatte ; – noi, a nostra volta perdiamo la fede nel prestigio delle armi nostre e ci sentiamo menomati al confronto di popoli più di noi belligeri e oltracotanti per la memoria dei bellici allori, quasi questi li rendessero di sangue più nobile, più vivo e meno degenerato del gentil sangue latino. (p. 21)
  • Esso [il nostro esercito italiano] respirerà a polmoni più liberi se saprà che quanto di meglio si può fare – lo si fa, inesorabilmente, – per dargli capi sicuri e degni della sua fiducia, che non sieno a quel posto, soltanto per impartire ordini, – o spingerlo al macello; ma per guidarlo alla vittoria.
    Perché la convinzione di vincere, che dà lo spirito relativo, occorre nella guerra; – non la semplice idea della difesa passiva e scorante. (p. 29)
  • Il Generale Pollio assunto da poco tempo al posto di Capo di Stato maggiore ha con sé la fiducia dell'esercito. È dotto ed energico; Ministero, Parlamento e Nazione seconderanno l'opera sua, che abbiamo ogni motivo per aspettarci, energica e benefica. (p. 30)

Note[modifica]

  1. Nella battaglia di Custoza del 24 giugno 1866, l'arciduca Alberto d'Asburgo comandava l'esercito austriaco che sconfisse le truppe italiane.
  2. Nella battaglia di Sadowa (o Königgrätz), evento conclusivo della guerra austro-prussiana del 1866, von Benedek comandava le truppe austriache che furono sconfitte dai prussiani.
  3. Nella terza guerra d'indipendenza del 1866.
  4. Napoleone Bonaparte.

Bibliografia[modifica]

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