Giovita Scalvini

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Giovita Scalvini (1791 – 1843), scrittore, poeta, critico letterario e patriota italiano.

Foscolo, Manzoni, Goethe[modifica]

  • Allora che l'arte è interprete della mente generale, ogni età diversa si effigia in una forma diversa, che a grado a grado è recata a perfezione da molte singole menti: poiché non è dato ad un sol uomo di cominciare a compiere ei solo veruna cosa, che debba essere eredità dell'intero umano genere. Allora vi è, per così dire, una poetica per tutti, non iscritta, ma vivente nella ragion dei tempi e delle cose; ed è veduto, bellissimo, il consorzio della libertà dell'ingegno particolare con la necessità di una forma e di un intelletto comune. (p. 211; in 1973, p. 149)
  • [Su Johann Wolfgang von Goethe] Egli si gitta per entro la storia, né la studia con longanimità, quasi temendo di perdere ispirazione o di trovare gli uomini diversi da quelli che bisognano al suo pensiero; la suggella della sua immaginazione, anzi che riceverne ei stesso l'impronta: né s'arretra pure dinanzi alle volgarità della vita, poiché naturalmente nella sua anima si colorano pur quelle di un lume di bello e di vero in tutto ideale. Le più schiette immagini, i più semplici affetti, sono da lui quasi sempre tessuti sopra un fondo di cose alte e straordinarie: ne appaiono fiori, per la bellezza e la fragranza simili a quelli de' nostri prati, ma spuntati fra le rocce ed i precipizi di un mondo diverso dal nostro. (p. 214; in 1973, p. 151)
  • [...] Dante, altiero e ghibellino, ritraeva schifamente l'animo da chiunque non fosse conosciuto per fama o per infamia. Il suo cuore era in Alemagna: officina d'ogni tirannia e d'ogni vassallaggio, che per secoli hanno afflitto tutta Europa. E chi, in quella barbarie di tempi, cercava gli abituri della povera plebe, quando non fosse per manometterla o farnela uscire a parteggiare? Dante pellegrinava da castello a castello; né altro vedeva nel mondo fuorché imperatori, e re, e papi; e Cane, e Meroello, e Guido. I villani «gli puzzavano»; e gli doleva di veder «cambiare e mercare» colui il cui avolo aveva limosinato; né gli sarebbe paruto di mal fare, potendo pur rendere la religione stromento di vendette e di carneficine. (in 1973, pp. 216-217)
  • Cristo ha messo in terra il seme di una pianta che crescerà viepiù robusta e più florida sempre, e finirà con nutrire de' suoi frutti tutte le genti: la superbia si stancherà di portare la scure alle sue radici, e non sarà finalmente più mestieri d'irrigarle di sangue. (pp. 236-237; in 1973, p. 217)
  • Se la dottrina de' Promessi Sposi, quanto alla religione, è antica, quanto alla sapienza e liberalità, ond'è adoperata, ritrae palesemente dalla moderna filosofia. Da quella, che mentre pareva affaccendata ad isvellere dagli animi umani la fede, operava senza avvedersene a spargere nel mondo quegl'insegnamenti, per amore de' quali la fede appunto era stata negli animi umani raccolta; e di speculativi e gridati nelle scuole e nei tempî, li riduceva a pratica, cercando nelle umili case i popolani, troppo più che non vuole giustizia, caduti, e nelle regge i grandi, troppo più insorti, affinché si raffrontassero insieme e tornassero a scambievole conoscenza. (pp. 237-238; in 1973, p. 218)
  • Quanto a me, sto volentieri con loro [gli umili], pur come povere creature; e i loro oscuri travagli mi tengono in più sollecitudine, che non le famose sventure, che prescrivono generale corrotto, e sono piante con false lagrime dagli insaziabili di ricchezze e di vanaglorie; il loro frustagno mi piace più delle porpore; e i loro spilli più delle corone: godo e m'attristo con loro, uno di loro; la loro casetta, «col piccolo cortile, cinto da un murettino» e «la chioma folta del fico che lo sopravanza», mi è più bella dei palagi colle statue nei vestiboli; e quel rumore dell'aspo di Lucia, «che gira, che gira, che gira», m'è più grato del plauso e di tutte le musiche che mi si fanno udire fuor per le mille finestre delle abitazioni reali. Chi spregia la loro scarsa refezione, commensale del ricco, «tiri fuor dal bicchiere il naso vermiglio», ed alzi la voce per «dar ragione a tutti». (p. 238; in 1973, p. 218)
  • Il Padre Cristoforo è certamente la persona più alta, più ideale del romanzo, è quella che rivela di più le vie misteriose che congiungono il finito con l'infinito. Pare che in lui la religione non sia, a così dire, che una forma che ha assunto la sua stoica virtù, il suo sentimento imprescindibile del dovere. Gli altri personaggi, se ebbero qualche merito in terra, ebbero pure in terra la loro ricompensa. Renzo e Lucia hanno sopravvissuto alla peste per unirsi insieme con nodi che non li separeranno più. Don Abbondio ha la consolazione, grandissima per lui, di veder sparire dal mondo colui che lo teneva in tanta paura. L'Innominato vede quelli stessi ch'egli aveva offeso, rispettarlo e riverirlo. Ma il Padre Cristoforo è cacciato, fatto viaggiare lungi da ciò che aveva di più caro; egli va attraverso la vita oscuro, mendico, paziente; egli va a raccogliersi dove sono più guai, dove più l'uomo soffre tra le piaghe e il tanfo, estenuato, col corpo oppresso ma coll'anima pronta e placida. Il nostro cuore che è affezionato a lui, che lo ammira, gode di vederlo uscire da tanta miseria, e appena ci si sottrae all'occhio qui sulla terra, noi non possiamo a meno di vederlo in cielo. È il Padre Cristoforo solo, adunque, che ci eleva l'anima a dire: dove e quando che sia la virtù non può fallire a una ricompensa. Se questo non fosse vero, la vita sarebbe un campo di guerra e di dolori spaventosi. L'anima ne sarebbe atterrita, ella non vorrebbe sostenerla. Dimenticate il cappuccio di P. Cristoforo, dimenticate i suoi zoccoli e la sua sporta che vi hanno talvolta fatto adirare, e troverete in lui un filosofo: non di coloro che gridano nelle cattedre per raccogliere a sera i plausi nei circoli, ma caritatevole e umile, e non rimane del cappuccino che quella cieca obbedienza colla quale lascia la contrada e Renzo e Lucia negli impacci. (pp. 245-246; in 1973, pp. 265-266)
  • L'arte non ha le sue ragioni nella vita, ella si leva sovr'essa e ne dà presentimento e d'onde veniamo e dove siamo aspettati. Nell'ordine della vita terrestre noi non rinveniamo le ragioni perché l'arte sia. (p. 290)

Citazioni su Giovita Scalvini[modifica]

Giovanni Arrivabene[modifica]

  • Lo Scalvini debole di corpo, era altrettanto forte di mente; di delicato e fine gusto e giudice competentissimo in fatto di lettere e di belle arti. Una volta egli criticò l'opera di Ugoni, e questi gli rispose: Tu l'avresti fatta meglio, ma io l'ho fatta.
  • Mio fratello [Francesco] mi dice sottovoce: "Hanno arrestato Scalvini." – "Per qual motivo?" – "Per una lettera trovata a Mantova..." [...].
    Io torturai lunga pezza la mente affine di scoprire qual lettera avesse potuto dar motivo ad un[1] sì severo provvedimento. Scalvini slanciava bensì di quando in quando nelle sue lettere dei tratti sardonici sul governo austriaco, ed io faceva altrettanto scrivendo a lui, ma non avevamo mai tessuto in esse alcuna trama, nemmen l'ombra di una trama; e noi le affidavamo bonariamente alla posta! Pensa e ripensa, mi sovviene alla fine, che in una scrittami nel 1819 da Milano, Scalvini avea parlato in termini irriverenti dell'Imperator d'Austria. Questa, dissi a me tosto, questa è certo la lettera che ha cagionato l'arresto di Scalvini; e ben mi apposi.
  • Scalvini soffrì assai in prigione. Vi cadde gravemente ammalato, e forza fu trasportarlo nella infermeria, ove ebbe a vicini di letto, assassini; per infermieri, assassini. Egli ebbe molto a lodarsi di essi. Gli portarono grande rispetto, gli mostrarono gran deferenza ed ebbero di lui affettuosa cura. Egli trasse partito da una sì dolorosa e strana vicenda per istudiare una natura d'uomini, che altrimenti avrebbe sempre ignorata; ed ebbe occasione di conoscere, che pochi umani, o nessuno forse, è mai tanto abbandonato dal cielo da essere interamente diseredato della bontà del cuore. La povera sua madre lo vide in quel luogo, fra quelle miserie, in quella compagnia!

Bibliografia[modifica]

Altri progetti[modifica]

  1. Nel testo "una".