Giulio Carotti
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Giulio Carotti (1852 – 1922), storico dell'arte italiano.
Architettura italiana di tutti i tempi
[modifica]- L'architettura è la madre delle Arti e la prima a fiorire. Più ancora della scultura e della pittura essa caratterizza, personifica il momento storico di un popolo, il suo grado di civiltà ed i suoi ideali. (p. 1)
- Il Duomo di Cefalù è in una posizione panoramica. Il re Ruggero I ritornava per mare in Sicilia, quando la sua nave fu colta da violenta burrasca; fece voto che avrebbe innalzato un tempio a Dio in caso di salvezza e sul punto della costa ove sarebbe approdato. Toccò terra ai piedi della rupe, sulla quale anticamente sorgeva la città greca di Cefaledium, e nel 1131 fondò il gran Tempio, adorno dei più bei musaici bizantini di tutta Italia. S'innalza protetto dalla rupe e dominando maestosamente la città di Cefalù che si protende verso il mare. (p. 2)
- Il Duomo di Monreale sorge in una posizione pur assai pittoresca ma di carattere tutto differente [da quella del duomo di Cefalù] e costituisce colle sue aggiunte un complesso monumentale di cattedrale, mausoleo e convento. Il colle, su cui s'innalza poco fuori di Palermo, era dapprima tutto un bosco popolato di selvaggina ed il re Ruggero II vi si recava di frequente per cacciare. Un giorno, stanco, si addormentò nel bosco fitto della cima ed in sogno vide la Madonna che lo avverti di scavare proprio in quel posto: vi avrebbe scoperto un tesoro nascostovi da suo padre e gli raccomandò di dedicarlo alla gloria di Dio. Così fu iniziato il Duomo di Monreale ed a lato vi fu pur costrutto un convento di Benedettini, ai quali doveva rimaner affidato il compimento del colossale edificio e le tombe dei re Normanni che vi sarebbero collocate. (pp. 2-3)
- Dietro al Battistero ed al Duomo [di Pisa], sorge assai basso il lungo Camposanto avvolto da una muratura ad arcate cieche su lesene, di una complessiva sobrietà austera che s'addice appunto ad un luogo di cemetero. Entriamo: la solennità permane bensì nel suo complesso ma è di mesta malinconia soltanto nella parte di mezzo: un lungo rettangolo – ove il vescovo Ubaldo di ritorno dalla Crociata aveva fatto deporre un alto strato della terra del Calvario, recata come zavorra dalle navi pisane – tuttora nudo di monumenti, coperto di prati verdi e piantato di qualche piccolo rosaio e di qualche cipresso. Ma tutt'attorno, l'immenso portico che gira lungo i quattro lati, verso il campo dei morti è chiuso da un traforo gotico, un pizzo di candido marmo di maravigliosa eleganza e bellezza. (p. 23)
- [Camposanto monumentale] Tutta questa immensa quantità di opere d'arte della scultura, specialmente greca, romana e medievale, è stata collocata come veniva, senza pedanterie di cronologie, di stili, di scuole. Non v'ha museo al mondo così straordinario per affreschi e sculture, ed in un ambiente di tanta meravigliosa bellezza e con tanta abbondanza di luce. A crearlo apposta nessuno, neppure un genio vi riescirebbe! Eppure signore mie e signori miei, vi sono alcuni padroni della sorte dei monumenti e delle opere d'arte che hanno concepito la terribile idea di portar via le sculture in altri ambienti contigui e classificarle per ordine di stili e di cronologia, insomma di farne un museo o magari diversi musei. Si poteva immaginare un progetto più terribile? Dio salvi il Camposanto di Pisa da tanta iattura! (p. 25)
- Il palazzo della Signoria, creazione come già ricordai di Arnolfo di Cambio, è la vera personificazione dello spirito della gloriosa repubblica fiorentina: robustezza, forza poderosa, sano equilibrio intellettuale, chiarezza di concetto. In questa mole di bozze di macigno, così ben proporzionata, col suo grandioso coronamento merlato a corridoio poggiante su robusti mensoloni; in questa torre elegante ma pur essa robusta, non guizzante a straordinaria altezza ma bensì a giusta proporzione colla massa del palazzo stesso, abbiamo la corrispondente espressione artistica del genio fiorentino nel momento felice della sua maggiore potenza politica, sul finire del Dugento e per buon tratto del Trecento. (p. 40)
- Alla Signoria parve finalmente troppo modesta l'antica ringhiera, ove il Podestà saliva in bigoncia per parlare al popolo ed ove sedevano i Priori nelle grandi funzioni della Repubblica coram populo; volle una bella loggia e così a lato del palazzo [della Signoria] sorse la loggia dei Priori. È composta di tre sole grandi arcate nella fronte ed una nel fianco sinistro, eppure è spaziosa, di nobiltà finissima e di somma eleganza, doti associate al senso fiorentino della grandiosità delle proporzioni, della delicatezza della decorazione e sopratutto della misura di questa, onde dar ricchezza alle forme architettoniche senza soverchiarle colla sua abbondanza. (p. 40)
- Poco fuori di Arezzo, dopo una passeggiata di una ventina di minuti nel poetico paesaggio toscano, talvolta e qui appunto dolcemente malinconico, si giunge alla antica chiesa di santa Maria delle Grazie. Dinanzi a questa, nel Quattrocento, fu aggiunto un portico che s'appoggia alla sua fronte. La passeggiata ha servito di preparazione dello spirito a godere la soavità armoniosa di questo portico che reca sull'animo di chi lo contempla l'ineffabile incantesimo di una suonata musicale, dolcemente penetrante. Quanta armonia nel suo complesso! Come son ben profilate e largamente spaziate le colonne che coi loro larghi mozziconi di trabeazione (alla Brunelleschi) sorreggono le pur larghe arcate! Come l'architetto ha ben saputo proporzionare l'altezza dei sostegni e l'ampiezza degli archivolti! (pp. 61-62)
- La cà d'oro sul Canal grande è la creazione più bella ed ammirabile di questo periodo di tempo[1]. Sin dall'XI secolo i grandi negozianti di Venezia – che trafficavano coll'Oriente e ne distribuivano le merci in Italia ed al di là delle Alpi – acquistate ricchezze, cominciarono a costruirsi case che servissero loro ad un tempo di magazzeno, di studio e di abitazione; e nonostante gli ostacoli naturali e le difficoltà tecniche particolari alla città della laguna, le vollero non solo comode e signorili ma altresì artistiche. (p. 85)
- Nella prima metà del Quattrocento, il più bell'edificio signorile in Venezia, di privata dimora, è adunque la cà d'oro, un meraviglioso gioiello d'arte, in cui il genio veneziano ha fuso e trasformato in uno stile nuovo veneziano elementi bizantini arabi e gotici, per opera principalmente di artisti lombardi, quali il maestro Matteo Raverti di Milano ed i numerosi suoi aiuti lombardi ed altri oriundi lombardi, quali il maestro Giovanni Bon e suo figlio Bartolomeo. (pp. 85-86)
- La Certosa di Pavia, fondata da Gian Galeazzo Visconti nel 1396, ha conservato l'organismo medievale nell'impianto complessivo, nella struttura della chiesa e dei chiostri; ma ha ricevuto quasi la totalità della sua decorazione nel Rinascimento e non già in uno stile di importazione, bensì nello stile creato dai maestri lombardi colla assimilazione e trasformazione con spirito lombardo, sia dell'arte toscana, sia (anzi ancor più) dello stile veneziano. (p. 92)
- Chi vorrà godere bene la bellezza della facciata della chiesa della Certosa di Pavia dovrà recarsi alla Certosa stessa nel pomeriggio perché allora è illuminata dal sole e poi, più tardi che sia possibile, portarsi nel gran viale che dalla Torre del Mangano viene alla Certosa. Una volta era fiancheggiato interamente di alti pioppi; ora non ne rimangono che gli ultimi due, quelli più vicini all'ingresso. La loro massa cupa, reca risalto alla splendida facciata, tutta dorata nei suoi marmi dai raggi del sole. Entrato nel cortile ed avvicinandosi, apparrà la facondia esuberante lombarda, appassionata di decorazione; questa però, ricchissima nella metà inferiore eseguita nel Quattrocento, si riduce quanto mai nella metà superiore eseguita a datare dal Cinquecento, quando il gusto artistico si era fatto più sobrio. La linea terminale non è completa; vi sono le due lunette laterali minori, ma manca il grande lunettone di coronamento, non eseguito. Di stile veneziano, affine alle facciate di s. Zaccaria e di santa Maria dei Miracoli in Venezia, era adunque il concetto generale della gran linea complessiva di questa facciata, e di concetto veneziano altresì la policromia di marmi, porfidi e serpentini incrostati nella metà inferiore. Il portale invece ricorda assai l'arte del Rinascimento in Roma, qualcuno vi vedrebbe però l'imitazione di un concetto di Bramante. (pp. 92-94)
- La visita dell'interno [della Certosa di Pavia], nonostante i mutamenti e le alterazioni introdotte nel Seicento e nel Settecento, trasporta il visitatore di meraviglia in meraviglia. Questa raggiunge infine il grado maggiore nei due chiostri adorni di terrecotte cremonesi della seconda metà del Quattrocento. Incantevole è il chiostrino [...]; cercate una delle arcate del suo portico vicino all'ingresso al refettorio, e fermatevi in quel punto in cui un'arcata fa da cornice alla veduta del bel giardinetto tutto verde e fiorito, al disopra l'esterno rosso amaranto delle terrecotte del portico, sopra ancora lo splendore dei marmi della chiesa e del tiburio che distacca sull'azzurro del cielo: oh quanto è bello, disse appunto il Manzoni, il cielo di Lombardia, quando è bello! (p. 94)
Artisti contemporanei: Giuseppe Bertini
[modifica]- L'artista è il riflesso dell'ambiente e della società del tempo suo e non si può comporre un'opera storica sopra un periodo, una fase di una nazione, di un popolo, senza tener conto degli artisti e delle opere d'arte che vi si collegano. Ma vi sono anche degli artisti che da soli ci possono ridestare in un attimo tutta la figura, l'essenza, lo spirito, i dolori o le gioie, gli aneliti o gli entusiasmi, di un momento storico.
Chi più di Giuseppe Bertini ridesta in noi l'esultanza, la gioia, il brio, la contentezza generale degli animi nel 1859 e nel 1860?[2] (p. 163)
- Fu in Roma che il Bertini si trasformò completamente. Delle opere classiche e di quelle dell'alto rinascimento subì l'ascendente? Delle prime non pare; delle seconde certamente, ma solo nel senso della idealità elegante e dello splendore decorativo, verso cui lo spingeva la propria indole, non già quanto alla forma ed al tipo delle figure. Il nostro giovane artista ebbe la fortunata, la felice ispirazione di contentarsi di ammirare e di osservare profondamente i capolavori della città eterna, senza copiarli, senza imitarli, né prenderli a modello, a scopo finale dell'arte. Egli ebbe inoltre la ventura di trovare là gli amici Pagliano, Luigi e Ferdinando Galli, dei quali seguì lo stesso indirizzo: ebbe la fortuna di guardarsi attorno, di subire il fascino della gran luce, della natura maestosa e di splendida colorazione di Roma e della campagna romana. È là che egli si trasformò, o meglio è là che si formò, che acquistò la propria originalità, che divenne Giuseppe Bertini. (p. 170)
- Giuseppe Bertini, esteta nel senso completo della parola, rifuggiva da tutto ciò che sia duro, doloroso, aspro, come da tutto ciò che sia volgare: la sua creazione del Transito di San Giuseppe è, come la sua Madonna col Bambino [...] una visione profusa di poesia elegiaca. (p. 180)
Corso elementare di storia dell'arte
[modifica]- L'Afrodite che stava per scendere nel mare, ch'egli [Prassitele] aveva scolpita per il santuario di Cnido, era opera così splendida che più tardi Nicomede re di Bitinia, pur di possederla, aveva offerto agli abitanti di Cnido l'abbandono del suo credito di Stato, ed era cosi celebre che da lontani paesi si accorreva per contemplarla. Pare che i sacerdoti del santuario non ne abbiam mai lasciato prendere il calco cosicché le copie che se ne posseggono non ne danno che un'idea approssimativa [...]. (vol. I, p. p. 186)
- La celebre Venere di Milo del museo del Louvre [...] rispecchia lo stile di Scopa, illuminato dal sorriso della grazia di Prassitele. E' scolpita nel marmo pario, di cui il tempo ha accresciuto l'intonazione calda roseo-dorata, che le conferisce un effetto ancor più armonico ed affascinante. (vol. I, p. 188)
- Le discussioni sul tempo approssimativo in cui [la Venere di Milo] fu eseguita, sul suo atteggiamento, sull'azione che l'artista le aveva dato (ha le braccia spezzate) e sul problema se fosse isolata o raggruppata con altra figura, agitano tuttora gli studiosi. Comunque, essa è è un'opera insuperabile, di una bellezza plastica maravigliosa, di uno stile largo, poderoso ed ideale ad un tempo, di una grazia severa e pur anche soave, di espressione divina e altresì di intensa vibrazione di vita; è la più bella statua greca che si conosca, il che vuol dire la più bella statua del mondo! (vol. I, pp. 188-189)
- Il gruppo del Laocoonte al Belvedere in Vaticano è certamente l'opera più celebre di quella scuola ed una dell'ultime grandi creazioni dell'arte greca. [...]. L'arte della scultura, in possesso della scienza perfetta dell'organismo umano, della sua anatomia, dei suoi movimenti, non che della potenza di espressione dei moti dell'animo, ed in possesso altresì di tutte le risorse della plastica e di una prodigiosa abilità, in questa creazione, che è pur di un cosi evidente effetto pittorico, ha portato al suo ultimo grado lo svolgimento dello stile drammatico della scuola di Pergamo. In modo sensazionale e terribile ha saputo riprodurre tanto il dolore fisico e la reazione di tutto il corpo, quanto la profonda angoscia ed il più intenso dolore morale di un padre, che, non solo lotta lui stesso disperatamente contro la morte, ma deve assistere impotente alla morte dei figli, uno dei quali già sta per soccombere e l'altro invano invoca da lui aiuto. Sotto questo aspetto è il più alto grado di potenza che abbia potuto raggiungere la scultura e certo anche il massimo limite ammissibile. (vol. I, pp. 216-217)
- Le antiche religioni orientali escludevano il popolo dal tempio, quelle dell'epoca classica lo ammettevano ad assistere alle funzioni del culto, le quali però si compivano all'esterno del tempio stesso, dinanzi alla porta spalancata della cella.
La religione cristiana invece svolgeva le sue funzioni nell'interno dell'edificio e vi ammetteva tutti senza distinzione di classi sociali. Ora, in una città come Roma, ove i Cristiani erano per così dire innumerevoli, occorreva un tablino[3] o sala di grande vastità, in cui vi fosse posto per tutti e tutti potessero vedere e sentire: ed il modello più adatto fu, salvo le opportune modificazioni ed aggiunte, il tipo di edificio in uso per borsa e tribunale, la basilica profana e Basilica fu per lo appunto denominata la chiesa cristiana. (vol. II, p. 74)
- [...] Santa Sofia di Costantinopoli non è soltanto il risultato, il trionfo della evoluzione e dello svolgimento della nuova architettura dei Bizantini, ma è altresì: quanto alla cupola, uno svolgimento della creazione dell'arte antica orientale, svolta dall'arte ellenistica e dalla romana; quanto ai pennacchi sferici, uno svolgimento della creazione dell'arte sassanide; e, quanto alle aggiunte delle parti laterali al quadrato e delle absidi, l'applicazione dei principii fondamentali dei Romani in fatto di organismo complesso e di equilibrio statico. Difatti l'equilibrio del gran corpo centrale a cupola, ottenuto mediante la controspinta delle altre parti circostanti della costruzione, e la sapiente distribuzione delle stesse varie parti dell'edificio sono ancora elementi caratteristici della architettura romana. (vol. II, p. 74)
Le opere di Leonardo, Bramante e Raffaello
[modifica]- [Leonardo da Vinci] [...] studiando dal vero tutto ciò che nella natura lo colpiva (il bello, lo strano, il ridicolo; la figura umana, il paesaggio, i fiorellini, il filo d'erba), egli venne conquistando un mezzo meccanico meraviglioso non più di scuola, né di sintesi della maniera di più scuole, ma unico, universale e particolare, tutto suo ed originale, che progressivamente gli consentì di esprimere ciò che la sua mente pensava e fantasticava, tutto ciò che il suo animo sentiva e sognava.
Egli è dunque un artista diverso. Negli altri grandi, nelle opere loro, in fondo, oltre al pensatore ed al poeta, si manifesta pur anche il tecnico; in lui, nei suoi dipinti, nei suoi disegni, è tale la espressione intellettuale ed ideale che, nonostante la tecnica maravigliosa, ciò che vi colpisce e rapisce, è il pensiero ed il sentimento dello scienziato, del filosofo e del poeta, il quale, invece di esprimersi colla scrittura o colla parola, si vale del linguaggio delle arti figurative e con queste manifesta il trionfo del sapere e del sentimento umano nel momento dell'apogeo della meravigliosa civiltà italiana del Rinascimento. (Leonardo da Vinci: Periodo giovanile, pp. 5-6)
- Entrando [...] nell'interno della Chiesa di Santa Maria presso S. Satiro, si prova una impressione diversa e stranissima; par di scendere nell'interno di un poderoso monumento, il quale stia affondandosi. Tale è l'effetto che danno le maschie proporzioni dei pilastri e l'ampiezza della volta, in seguito agli inesperti provvedimenti adottatisi nei tempi nostri nello riordino di questa chiesa, attorno alla quale per l'azione dei secoli il suolo della città è venuto rialzandosi.
E siccome tutt'attorno son pur venute accerchiandola case di abitazione (alcune, le più moderne, assai alte), così le tre navate interne si trovano immerse nella penombra e cresce l'effetto cavernoso che contrasta colla gran luce che risplende sotto la cupola e nella navata trasversale. (Bramante: Periodo lombardo. I. Opere di architettura, pp. 103-104)
- In quel tempo [sul finire del Quattrocento, nella città di Perugia] vi teneva [...] scuola e bottega Pietro Vannucci di Città della Pieve, detto il Perugino, il quale era l'artista più noto e più desiderato in Italia. Il suo stile segnava l'apogeo della scuola umbra, tutta dolcezza sentimentale, ispirazione mistica, vaga poesia misteriosa in consonanza coll'incantevole paesaggio di quella regione; egli possedeva disegno elegante, chiaroscuro morbido, e colorito forte, intenso ed armonioso; inoltre si era arricchito della scienza artistica della scuola del Verrocchio in Firenze, ove, al contatto di Leonardo da Vinci, aveva acquistato ancor maggior poesia nell'aria dei visi e maggior delicatezza nel chiaroscuro. E tutte queste preziose doti egli faceva vieppiù valere con una esecuzione finissima e di insuperabile diligenza. (Raffaello d'Urbino: Nella bottega del Perugino, pp. 210-212)
- [Raffaello Sanzio] La sua indole dolce e contemplativa, amabile e sentimentale gli fece trovare nel Perugino il maestro che più gli era facile comprendere e seguire; nello stesso tempo, la sua natura impressionabile e recettiva lo spinse quasi inconsapevolmente a far suo prò anche del modo di comporre, della festosità e del colorito del Pinturicchio. Assai presto, egli subì un tale ascendente, un tal fascino dello stile e della maniera umbra di quei due maestri, massime del maggiore, che parve quasi dimenticasse del tutto la maniera emiliana che pur aveva assorbita cosi bene studiando sotto Timoteo Viti. Fin da questo momento vediamo come egli con tutta facilità venisse assimilandosi tutto il buono che gli capitava sotto gli occhi nelle opere altrui e come, anziché creare immagini e composizioni nuove, preferisse prendere a prestito quelle già inventate dagli altri, per poi perfezionarle e nobilitarle nella linea, nel raggruppamento e nell'effetto generale. (Raffaello d'Urbino: Nella bottega del Perugino, pp. 213-214)
Note
[modifica]Bibliografia
[modifica]- Giulio Carotti, Architettura italiana di tutti i tempi, Istituto italiano d'arti grafiche, Bergamo, 1916.
- Giulio Carotti, Artisti contemporanei: Giuseppe Bertini, in Emporium Rivista mensile illustrata d'arte letteratura scienze e varietà, Istituto italiano d'arti grafiche Bergamo - Editore, vol. IX, Marzo 1899, n. 51, pp. 163-194.
- Giulio Carotti, Corso elementare di storia dell'arte, vol. I, Ulrico Hoepli, Milano, 1907.
- Giulio Carotti, Corso elementare di storia dell'arte, vol. II, Ulrico Hoepli, Milano, 1908.
- Giulio Carotti, Le opere di Leonardo, Bramante e Raffaello, Ulrico Hoepli, Milano, 1905.
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