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Valerio Massimo Manfredi

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Valerio Massimo Manfredi

Valerio Massimo Manfredi (1943 – vivente), archeologo e scrittore italiano.

Citazioni di Valerio Massimo Manfredi

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  • Non credo si possa sfuggire al proprio destino: meglio andargli incontro. (da Lo scudo di Talos)
  • Recuperare la verità storica dei fatti è impossibile. Non solo perché la memoria di ogni uomo ha diversa estensione, ma perché ciò che attrae l'attenzione di uno sfugge a quella dell'altro. Anche ammettendo la buona fede di ognuno, ciascuno ricorda quanto ha attratto la sua attenzione, non ciò che è passato realmente sotto il suo sguardo. (da Idi di marzo)

Aléxandros

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Il figlio del sogno

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I quattro Magi salivano a passi lenti i sentieri che conducevano alla sommità della Montagna della luce: giungevano dai quattro punti dell'orizzonte portando ognuno una bisaccia con i legni profumati destinati al rito del fuoco.
Il Mago dell'aurora aveva un mantello di seta rosa sfumato in azzurro e calzava sandali di pelle di cervo. Il Mago del tramonto portava una sopravveste cremisi screziata d'oro, e gli pendeva dalle spalle una lunga stola di bisso ricamato con gli stessi colori.
Il Mago del mezzogiorno indossava una tunica di porpora operata con spighe d'oro, e calzava babbucce di pelle di serpente. L'ultimo di loro, il Mago della notte, era vestito di lana nera, intessuta dal vello di agnelli non nati, tempestata di stelle d'argento.

Citazioni

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  • Non sono scappato, mi sono solo fatto indietro per prendere la rincorsa e tornare a cozzare come un montone infuriato. (Filippo II di Macedonia)
  • Il figlio al quale darai la luce risplenderà di un'energia meravigliosa, ma come le fiamme che ardono di luce più intensa bruciano le pareti della lucerna e consumano più in fretta l'olio che le alimenta, la sua anima potrebbe bruciare il petto che la racchiude. (Sacerdote dell'oracolo di Delfi a Olympias)
  • Essere greco, Alessandro, è l'unico modo di vivere degno di un essere umano. (Aristotele)
  • Ricorda una cosa, Alessandro, un buon maestro è quello che dà risposte oneste. (Aristotele) (2010, p. 78)
  • Tu non sarai mai né greco né macedone. Sarai soltanto Alessandro. (Aristotele)
  • Non è lui. [...] Non è Alessandro. Lisippo sta modellando il giovane dio che immagina davanti a sé, un dio che ha gli occhi, le labbra, il naso, i capelli di Alessandro, ma che è altro, è di più e di meno, allo stesso tempo. (Aristotele)
  • Conserva questo segreto nel tuo cuore finché non verrà il momento in cui la natura di tuo figlio si manifesterà appieno. Allora sii pronta a tutto, anche a perderlo, perché qualunque cosa tu faccia non riuscirai a impedire che si compia il suo destino, che la sua fama si estenda sino ai confini del mondo. (Sacerdote dell'oracolo di Delfi a Olympias)
  • È destino dell'uomo sopportare ferite e malattie e dolori e morte prima di sprofondare nel nulla. Ma agire con onore ed essere clemente ogni volta che è possibile è nella sua facoltà e nella sua scelta. Questa è l'unica dignità che gli è concessa da quando è messo al mondo, l'unica luce prima delle tenebre di una notte senza fine.
  • Si rendeva anche conto che nessuna potenza era in grado di resistere al logorio del tempo: solo la gloria di chi ha vissuto con onore cresce con il trascorrere degli anni. (2010, p. 241)
  • Se Aristotele fosse qui, forse direbbe che le profezie possono avverare il futuro, più che prevederlo.... (Alessandro) (2010, p. 241)

Incipit de Le sabbie di Amon

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Dall'alto della collina Alessandro si volse a guardare la spiaggia, a contemplare uno spettacolo che si ripeteva quasi uguale a distanza di mille anni: centinaia di navi allineate sulla riva del mare, migliaia e migliaia di guerrieri, ma la città alle sue spalle, Ilio, erede dell'antica Troia, non si preparava ora a un assedio decennale, anzi gli apriva le porte per accoglierlo, lui discendente sia di Achille che di Priamo.
Vide i compagni che salivano a cavallo per raggiungerlo e spronò Bucefalo verso la rocca. Voleva entrare per primo e da solo nell'antichissimo santuario di Atena Iliaca. Affidò lo stallone a un servo e varcò la soglia del tempio.

Incipit de Il confine del mondo

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Il re si rimise in viaggio attraverso il deserto sul finire della primavera, per un'altra via che dall'oasi di Amon raggiungeva direttamente le sponde del Nilo nei pressi di Menfi. Cavalcava da solo per ore e ore in groppa al suo baio sarmatico, mentre Bucefalo gli galoppava a fianco senza finimenti e senza briglie. Da quando Alessandro si era reso conto di quanto lunga fosse ancora la strada che avrebbe dovuto percorrere, cercava di risparmiare al suo cavallo tutte le fatiche inutili, come se volesse prolungargli il vigore dell'età giovanile il più possibile.
Ci vollero tre settimane di marcia sotto il sole cocente e fu necessario affrontare ancora durissime privazioni prima di vedere la sottile linea verde che annunciava le fertili sponde del Nilo, ma il re sembrava non sentire né la stanchezza né la fame né la sete, assorto nei suoi pensieri o nei suoi ricordi.

Il mio nome è Nessuno

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Incipit de Il giuramento

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Mi chiamarono Odysseo perché così aveva stabilito mio nonno Autolykos, re di Acarnania, giunto in visita al palazzo un mese dopo la mia nascita. E presto mi resi conto che gli altri avevano un padre e io non l'avevo. La sera, prima di addormentarmi, chiedevo alla nutrice: «Mai, dov'è mio padre?».
«È partito con altri re guerrieri alla ricerca di un tesoro in un luogo lontano.»
«E quando torna?»
«Non lo so. Non lo sa nessuno. Quando si parte per mare non si sa quando torna. Ci sono le tempeste, i pirati, gli scogli. Può succedere che la nave vada distrutta e che qualcuno si salvi nuotando verso terra. Ma poi deve aspettare che passi un'altra nave e possono trascorrere mesi, anni. Se poi si ferma un vascello pirata, li prende e li vende come schiavi nel porto successivo. Quella del marinaio è una vita rischiosa. Il mare nasconde mostri terribili e creature misteriose che vivono negli abissi e salgono alla superficie nelle notti senza luna... Ma adesso dormi, piccolo.»
«Perché è andato a cercare un tesoro?»
«Perché ci sono antati tutti i guerrieri più forti di Achaja. Poteva tuo padre mancare? Un giorno i cantori racconteranno questa storia e i nomi degli eroi che vi hanno preso parte saranno ricordati in eterno.»

Incipit de Il ritorno

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Troia bruciava ancora in un rogo immane, dardi di fuoco piovevano dal cielo con strepito assordante, ombre di guerrieri caduti ancora urlavano strazio tra il fumo e le fiamme, spettri inquieti e senza pace alle soglie dell'Hades. E sarebbe bruciata per giorni e notti fino a ridursi in cenere. Il bagliore delle fiamme m'indicava la via.
Due uomini per ognuna delle mie navi raggiunsero la riva lottando contro la violenta risacca e le ancorarono a terra piantando saldi picchetti di quercia. Dissi loro di asoettarmi e di non allontanarsi per alcun motivo e m'incamminai in direzione della città. Ancora mi chiedo perché non mi fermai per la notte a dormire con i miei uomini, perché tornai sul luogo dell'insidia e del massacro, e non trovo risposta.
Vidi dall'alto le navi di Agamemnon e degli altri re rimasti con lui ancorate di poppa e con la prua al mare. Anche loro si stavano preparando alla partenza. Forse si erano convinti che non c'erano sacrifici ed ecatombi che potessero riparare gli orrori commessi, ripagare del sangue di tanti inermi innocenti. Ritrovai la strada, passai tra gli stipiti bruciati delle porti Skaiai e salii verso la rocca. In tempo per assistere a un evento sconvolgente. Il cavallo che avevo costruito crollava in quell'istante divorato dalle fiamme. Solo ora lo avevano raggiunto, isolato. E alto com'era, a dominare la città e la reggia, si accasciò a terra in un vortice di scintille e di fumo bianco. La testa fu l'ultima a dissolversi nel rogo.

Incipit de L'oracolo

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Efira, Grecia nordoccidentale, 16 novembre 1973, ore 20

Tremarono improvvisamente le cime degli abeti, le foglie secche delle querce e dei platani ebbero un brivido ma non c'era un soffio di vento e il mare lontano era freddo e immoto come una lastra di ardesia.
Parve al vecchio studioso che tutto tacesse d'un tratto, il pigolio degli uccelli e l'abbaiare dei cani e anche la voce del fiume, come se le acque lambissero le sponde e le pietre dell'alveo senza toccarle, come se la terra fosse pervasa da un oscuro, subitaneo tremore.
Si passò una mano tra i candidi capelli, si toccò la fronte e cercò dentro di sé il coraggio di affrontare, dopo trent'anni di caparbia, infaticabile ricerca, la vista della meta.
Nessuno avrebbe potuto dividere con lui quel momento. I suoi operai, Yorgo e Stathis, già si allontanavano dopo aver riposto gli attrezzi, con le mani in tasca e il bavero rialzato e il rumore delle loro suole sulla ghiaia della strada era il solo nella sera.

Il tiranno

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L'uomo arrivò poco dopo il tramonto quando le ombre cominciavano ad allungarsi sulla città e sul porto. Avanzava a passo svelto portando a tracolla una bisaccia, e si volgeva intorno di tanto in tanto con una certa aria apprensiva. Si fermò nei pressi di un'edicola di Persetene, e il lume che ardeva davanti all'immagine della dea ne rivelò l'aspetto: i capelli brizzolati di chi ormai aveva superato la mezza età, il naso dritto e la bocca sottile, gli zigomi alti e le guance scavate, in parte coperte da una barba scura. Lo sguardo, inquieto e sfuggente, manteneva tuttavia un'espressione di dignità e di contegno che contrastavano con l'aspetto dimesso e con il vestiario consunto, rivelando una condizione elevata anche se decaduta.
Imboccò la strada che conduceva al porto orientale e cominciò a scendere verso la darsena, dove erano più numerose le bettole e le osterie frequentate dai marinai, dai commercianti, dagli scaricatori e dai soldati della flotta. Corinto viveva un momento di prosperità e i suoi due porti brulicavano di vascelli che importavano ed esportavano merci in tutti i paesi del mare interno e del Ponto Eusino. Nel quartiere meridionale dove c'erano i magazzini del frumento era facile udire l'accento siciliano in tutte le sue variazioni di tono: agrigentina, catanese, geloa, siracusana...
Siracusa... a volte gli sembrava di averla dimenticata, ma bastava un nulla per richiamare alla memoria i giorni della sua infanzia e della maturità, per ritrovare le luci e i colori di un mondo ormai trasfigurato dalla nostalgia, ma soprattutto dall'amarezza di una vita segnata inesorabilmente dalla sconfitta.
Era giunto davanti alla taverna ed entrò dopo essersi guardato intorno un'ultima volta.

Citazioni

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  • Un lampo illuminò a giorno la strada luccicante di pioggia e il volto tumefatto del maestro. Un tuono esplose in mezzo al cielo ma lui non si scosse. Strinse al petto la sua borsa e disse, scandendo le parole con enfasi: «Il suo nome era Dionisio, Dionisio di Siracusa. Ma il mondo intero lo chiamò... il tiranno!» (p. 6)
  • Io sono siciliano... un greco di Sicilia, come voi, come tutti gli altri, razza di bastardi figli di Greci e di donne barbare. "Mezzi barbari" ci chiamano nella cosiddetta madrepatria. (Dionisio; p. 18)
  • Le città dei Greci sono come nidi di gabbiani attaccati alle rocce della costa. (Arete; p. 48)
  • Le donne pensano in modo diverso. Voi uomini pensate solo alla vendetta, all'onore, a mostrare il vostro valore di guerrieri, ma questo non fa che perpetuare gli odi, rinvigorire i rancori. Voi inseguite la gloria, noi piangiamo i nostri figli, i nostri fratelli, i nostri padri e mariti. (Arete; p. 65)
  • La Storia. La Storia è il giudice. Essa ricorda chi ha fatto il bene degli esseri umani e condanna chi li ha oppressi, chi li ha fatti soffrire senza motivo. (Filisto; p. 145)
  • Pochi ti conoscono meglio di me, ma è difficile rassegnarsi al pensiero che ciò che ho sempre amato in te non esista più. (Iolao; p. 238)
  • Tradito da te stesso, Dionisio. Dalla tua sfrenata ambizione, dal tuo avventurismo, da un egoismo sconfinato. Quanta gente è morta per te, cercando di seguirti nelle tue folli imprese? No, io non ti ho tradito. (Filisto; p. 244)
  • Tu sei ancora capace di soffrire? (Leptines; p. 258)
  • Non vedrò mai l'alba della nuova era che ho sognato per tutta la vita... La Sicilia... al centro del mondo... (Dionisio; p. 271)
  • La vedrai, invece. Torneremo a casa e finiremo questa guerra, una buona volta. Vincerai... Vincerai, Dionisio, perché sei tu il più grande. (Filisto; p. 271)
  • Firmai io la pace, appena ebbi il potere per farlo, e cercai di mantenerla. Ma non incutevo paura a nessuno e perfino i filosofi volevano insegnarmi a governare... In capo a dieci anni la grande costruzione di mio padre era in rovina e non sarebbe risorta mai più. Un vecchio generale inviato dalla Metropoli, Timoleonte, sconfisse i Cartaginesi e mi tolse il potere. Poi mi confinò qui, a Corinto, da dove erano partiti i nostri padri fondatori, tanti secoli fa... (Dionisio II; p. 272)

L'armata perduta

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  • Sognare non costa nulla e per un po' è come vivere un'altra vita: quella che tutte avremmo voluto e che non abbiamo né avremo mai. (cap. 1)
  • Aveva fatto bene a risparmiarlo: i poeti non dovrebbero mai morire perché ci regalano quello che altrimenti non potremmo mai avere. Essi vedono molto oltre il nostro orizzonte, come se abitassero sulla cima di una montagna altissima, odono suoni e voci che noi non udiamo, vivono molte vite contemporaneamente, e soffrono e gioiscono come se queste vite fossero reali e concrete. Vivono l'amore, il dolore, la speranza con un'intensità sconosciuta anche agli dèi. (Abira: cap. 5)
  • Sono sempre stata convinta che siano una stirpe a sé stante: ci sono gli dèi, ci sono gli umani. E ci sono i poeti. Essi nascono quando il cielo e la terra sono in pace fra loro o quando scocca la folgore nel cuore della notte e colpisce la culla di un bambino senza ucciderlo, sfiorandolo soltanto con una carezza di fuoco. (Abira: cap. 5)

Le 7 meraviglie del mondo antico

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  • [Sui giardini pensili di Babilonia] È la prima delle Sette Meraviglie, la più sfuggente e inafferrabile, cercata a lungo da poeti, archeologi e studiosi: i Giardini Pensili di Babilonia.
  • Ma cosa fa dei Giardini Pensili babilonesi qualcosa di così unico e speciale? Essi sono unici e diversi da tutti gli altri giardini della storia perché non crescono sulla terra né affondano le radici, ma sono sospesi nell'aria, su un piano sorretto da colonne o sostegni.
  • [Sui giardini pensili di Babilonia] Un antico paradiso. Il sogno antico di una principessa malinconica che diventa realtà.
  • Sappiamo esattamente dove si trovava il Mausoleo grazie ad alcuni scavi che vennero effettuati verso la metà dell'Ottocento ad Alicarnasso. Era a destra del teatro e di fronte alla baia. Una simile posizione ha un significato importante che si collega con la tradizione delle colonie greche, dove, al centro della città, sorgeva il monumento funerario del fondatore. Questi era nominato dall'oracolo e quindi aveva un carisma particolare, una sorta di sacralità.
  • Si suppone quindi che l'edificio sia stato innalzato quando Mausolo era ancora vivo. Fu certamente lui a scegliere lo spiazzo a destra del teatro, nell'incavo di una collina e in posizione dominante. Il Mausoleo fu quindi eretto di fronte al porto, ma su un fondo piuttosto duro e compatto, e fu probabilmente questo a preservarlo per parecchi secoli.

Le paludi di Hesperia

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Si fece silenzio nella sala, tutti guardavano l'ospite, il naufrago abbandonato dal mare fra gli scogli e la rena. Le sue mani erano ancora ferite e graffiate, i suoi occhi arrossati e i capelli secchi come l'erba al finire dell'estate. Ma la sua voce era bella, d'un timbro fondo e sonoro e, quando narrava, il suo volto si trasfigurava, gli occhi si accendevano di una febbre misteriosa, sembravano riflettere un fuoco interno e nascosto, più ardente che le fiamme del focolare.
Capivamo la sua lingua perché noi abitavamo vicino al paese degli Achei e un tempo avevamo con loro rapporti commerciali ma, benché io sia un cantore fra la mia gente e conosca storie bellissime e lunghe tanto da occupare una notte intera d'inverno, quando gli uomini hanno piacere di starsene su a bere vino e ad ascoltare fino a tardi, tuttavia non avevo mai udito nella mia vita una storia più bella e terribile; la storia della fine di un'era, del tramonto degli eroi...
Triste quindi, soprattutto per un cantore quale io sono, perché se gli eroi scompaiono anche i poeti muoiono, non avendo più materia per il loro canto.

Citazioni

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  • Ora una paura sconosciuta e ben maggiore lo spingeva a strisciare nel buio. La paura di essere stato dimenticato. Non c'è nulla di più terribile per l'uomo.
  • Conosci qualcuno che meriti di morire? Sprofondare nel buio lasciando per sempre il profumo dell'aria e del mare, i colori del cielo, dei monti e dei prati, il sapore del pane e l'amore delle donne… c'è qualcuno che merita un simile orrore, solo per il fatto di essere nato? [Tenefo, servo hittita]
  • Nessuno è più forte di un uomo che non ha più nulla da aspettarsi dalla sorte. [Diomede]
  • Soltanto tra familiari ci si può odiare veramente. [Anaxibia, sorella di Menelao]
  • Il mondo, in fondo, è lo stesso dovunque. Sono gli uomini che lo abitano a renderlo diverso. [Malech, Chnan]
  • I poveri sono uguali in tutto il mondo. [Tenefo, hittita]
  • Il mio passato che torna: devo ucciderlo se voglio conquistare il futuro. [Diomede]
  • Non ho mai conosciuto una guerra che non fosse maledetta, che non portasse lutti e dolori senza fine. [Malech, Chnan]
  • Una quercia non può generare un giunco e un'aquila non può dare alla luce un corvo. [Diomede]

Incipit di alcune opere

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Chimaira

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Fabrizio Castellani arrivò a Volterra una sera di ottobre a bordo della sua Fiat Punto, con un paio di valigie e la speranza di vincere un posto da ricercatore all'Università di Siena. Un amico di suo padre gli aveva trovato un alloggio a buon mercato in una fattoria della Val d'Era a non molta distanza dalla città. Il colono se n'era andato qualche tempo prima, il podere era sfritto e lo sarebbe rimasto ancora a lungo perché il padrone pensava di ristrutturare il fabbricato e di venderlo a uno dei tanti inglesi innamorati della Toscana.
La casa era cresciuta in varie epoche successive attorno a un nucleo di base risalente al XIII secolo e aveva una bella corte nella parte posteriore, con ricoveri per gli attrezzi a pianterreno e fienili al piano superiore. La parte antica era fatta di sasso e coperta con vecchi coppi macchiati, a nord, di licheni gialli e verdi, quella più recente di mattoni. Il terreno circostante, coltivato nel lato esposto a sud, allineava una decina di filari di grandi ulivi nodosi pieni di frutti e altrettanti di una vite bassa, carica di grappoli violacei con le foglie che cominciavano a virare dal verde verso il rosso brillante dell'autunno. Un muretto di pietre a secco correva tutto attorno ma appariva in più punti crollato e bisognoso di restauro. Oltre si estendeva un bosco di querce che saliva fino al crinale del monte spandendo una macchia di un vivido colore ocra, interrotta qua e là dal rosso e dal giallo degli aceri montani. Un bosso secolare ornava l'ingresso sulla destra e un paio di cipressi svettavano dall'altra parte superando in altezza il tetto della casa.

L'armata perduta

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Il vento.
Soffia senza sosta attraverso le strettoie del monte Amano come dalla gola di un drago e si abbatte sulla nostra pianura con violenza disseccando l'erba e i campi. Per tutta l'estate.
Spesso per la maggior parte della primavera e dell'autunno.
Se non fosse per il ruscello che scende dai contrafforti del Tauro non crescerebbe nulla da queste parti. Solo stoppie per magri armenti di capre.
Il vento ha una sua voce, continuamente modulata. A volte è un lungo lamento che sembra non doversi placare mai; altre volte un sibilo che s'insinua di notte nelle crepe dei muri, nelle fessure tra i battenti delle porte e gli stipiti, avvolgendo ogni cosa con una foschia sottile e arrossando gli occhi e inaridendo le fauci anche quando si dorme.

Idi di marzo

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Romae, Nonis Martiis, hora prima
Roma, 7 marzo, le sei di mattina

Un'alba grigia, un cielo invernale, plumbeo e compatto, lasciava filtrare un velo di chiarore da nubi meno spesse distese sull'orizzonte. Anche i rumori erano diffusi, torpidi e opachi come la nuvolaglia che schermava la luce. Il vento giungeva a intervalli dal vico Iugario come l'ansito di un fuggitivo.
Un magistrato apparve nella piazza dall'estremità meridionale del foro. Era solo ma riconoscibile dalle insegne e camminava di buon passo verso il tempio di Saturno. Rallentò davanti alla statua di Lucio Junio Bruto, l'eroe che aveva abbattuto la monarchia quasi cinque secoli prima. Ai piedi del grande bronzo corrucciato, sul piedistallo che recava l'elogio, qualcuno aveva tracciato una scritta con minio: "Bruto, dormi?".
Il magistrato scosse il capo e proseguì la sua strada, aggiustandosi la toga che gli scivolava dalle spalle magre a ogni soffio di vento. Salì sollecito le scale del tempio passando accanto all'altare ancora fumigante e scomparve nell'ombra del portico.
Al piano superiore della casa delle vestali si aprì una finestra. Le vergini custodi del fuoco si destavano al loro dovere. Altre si preparavano a riposare dopo la veglia notturna.
La vestale massima, avvolta di bianco, uscì dal portico interno e si diresse alla statua di Vesta che campeggiava al centro del claustro. La terra tremò, il capo della dea oscillò a destra e a sinistra. Un frammento di laterizio cadde dal cornicione dietro la fontana con un tonfo secco amplificato dal silenzio. Si udì un rumore lontano mentre la vestale levava gli occhi al vento e alle nubi.
Il suo sguardo si riempì di sgomento. Perché la terra rabbrividiva?

Il faraone delle sabbie

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Gerusalemme, anno decimottavo
del regno di Nabucodonosor,
il nove del quarto mese.
Undecimo del re di Giuda, Sedecia.

Il profeta volse lo sguardo verso la valle gremita di fuochi e poi verso il cielo deserto e sospirò. Le trincee cingevano i fianchi di Sion, gli arieti e le macchine ossidionali minacciavano i suoi bastioni. Nelle case desolate i bambini piangevano chiedendo pane e non v'era chi lo spezzasse per loro; i vecchi si trascinavano per le strade sfiniti dal digiuno e venivano meno nelle piazze della città.
«È finita» disse rivolto al compagno che lo seguiva dappresso. «È finita, Baruc. Se il re non mi da ascolto non ci sarà salvezza per la sua casa né per la casa del Signore. Gli parlerò un'ultima volta ma non ho molte speranze.»
Riprese il cammino attraverso le strade vuote e si fermò dopo un poco per lasciar passare un gruppo di persone che trasportavano, senza pianto, un feretro con passo frettoloso. Solo la salma si distingueva nel buio per il colore chiaro del sudario che l'avvolgeva. Li guardò per un poco scendere quasi trotterellando per la strada verso il cimitero che il re aveva fatto aprire a ridosso delle mura e che da tempo non era più sufficiente a contenere i cadaveri che la guerra, la fame e la carestia vi riversavano ogni giorno in grande numero. «Perché il Signore sorregge Nabucodonosor di Babilonia e gli consente di imporre un giogo di ferro a tutte le nazioni?» chiese Baruc mentre il profeta riprendeva il cammino. «Perché si allea con lui che è già il più forte?»

L'impero dei draghi

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I raggi del sole nascente bagnarono le vette del Tauro, i picchi innevati si tinsero di rosa, scintillarono come gemme sulla valle ancora nell'ombra. Poi il manto lucente cominciò a distendersi lentamente sui gioghi e sui fianchi della grande catena montuosa risvegliando dai boschi la vita addormentata.
Le stelle impallidirono.
Il falco si librò per primo in alto a salutare il sole, e le sue strida acute echeggiarono sulle pareti rupestri e sulle forre, sugli aspri dirupi fra cui scorreva spumeggiante il Korsotes, gonfiato dallo sciogliersi delle nevi.
Shapur I di Persia, il re dei re, dei Persiani e dei non Persiani, il signore dei quattro angoli del mondo, riscosso da quel grido alzò lo sguardo a scrutare l'ampio volo del signore delle altezze, poi si avvicinò al purosangue arabo splendidamente bardato che gli portava lo scudiero. Un servo si inginocchiò perché lui potesse appoggiare il piede sulla sua gamba flessa e balzare in sella. Altri due servi gli porsero l'arco e la scimitarra dal fodero d'oro e un alfiere gli porse al fianco impugnando lo stendardo reale: un lungo vessillo di seta rossa con l'immagine in oro di Ahura Mazda.

L'ultima legione

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Dertona, campo della Legione Nova Invicta,
Anno Domini 476, ab Urbe condita 1229.

La luce cominciò a penetrare la nube che copriva la valle, e i cipressi si ersero d'un tratto come sentinelle sul crinale dei colli. Un'ombra curva sotto un fascio di sterpi apparve al limitare di un campo di stoppie e subito si dileguò come un sogno. Il canto di un gallo risuonò in quel momento da un casolare lontano annunciando un giorno grigio e livido, poi si spense come se la nebbia lo avesse inghiottito. Solo voci d'uomini attraversavano la bruma[1].
«Fa freddo.»
«E questa umidità penetra fin dentro le ossa.»
«È la nebbia. Non ho mai bisto in vita mia una nebbia così fitta.»
«Già. E non hanno ancora portato il rancio.»
«Forse non c'è rimasto più nulla da mangiare.»
«E nemmeno un po' di vino per riscaldarci.»
«E non riceviamo la paga da tre mesi.»
«Io non ne posso più, non sopporto più questa situazione. Imperatori che cambiano quasi ogni anno, i barbari in tutti i posti di comando e ora l'assurdità più grande di tutte: un moccioso sul trono dei Cesari, Romolo Augusto! Un ragazzino di tredici anni che non ha nemmeno la forza di reggere lo scettro dovrebbe reggere le sorti del mondo, almeno nell'Occidente. No, davvero, io la faccio finita, me ne vado. Alla prima occasione lascio l'esercito e me ne vado in qualche isola a pascolare capre o a coltivarmi un pezzo di terra. Non so voi, ma io ho deciso.»

La torre della solitudine

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La colonna avanzava lentamente nel bagliore del cielo e delle sabbie; l'oasi di Cydamus non era più che un ricordo, con le sue acque limpide e con i suoi datteri freschi. Da molti giorni l'avevano lasciata, non senza timore, ma l'orizzonte meridionale continuava ad allontanarsi, vuoto, falso e sfuggente come i miraggi che danzavano tra le dune.
In testa, sul suo cavallo, il centurione Fulvio Macro teneva eretta la schiena e diritte le spalle né si toglieva mai l'elmo arroventato dal sole, per dare agli uomini l'esempio della disciplina.
Era originario di Ferentino e veniva da una famiglia di piccoli proprietari terrieri. Se ne stava a marcire da mesi con il suo reparto in un ridotto della costa sirtica fra le allucinazioni della malaria, bevendo vino inacidito e sognando invano Alessandria e le sue delizie, quando improvvisamente il Governatore della provincia lo aveva convocato a Cirene e gli aveva affidato l'incarico di attraversare il deserto con una trentina di legionari, un geografo greco, un aruspice etrusco e due guide mauritane.

Lo scudo di Talos

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Con il cuore pieno di amarezza sedeva il grande Aristarchos e guardava il figlioletto Kleidemos dormire tranquillo nel grande scudo paterno che gli fungeva da culla. E dormiva poco distante, in un lettino appeso al soffitto il maggiore, Brithos.
Il silenzio che avvolgeva l'antica casa dei Kleomenidi era rotto d'un tratto dallo stormire delle querce nel bosco vicino. Un lungo, profondo, sospiro del vento.
Sparta, l'invincibile, era avvolta dalla notte e solo il fuoco che ardeva sull'acropoli mandava bagliori rossastri verso il cielo percorso da nubi nere. Aristarchos si scosse con un brivido ed andò ad aprire l'impannata gettando uno sguardo nella campagna addormentata e scura.
Pensò che era giunto il momento di compiere ciò che doveva se gli dèi nascondevano la luna e ocuravano la terra, se le nubi nel cielo erano gonfie di pianto.
Staccò ul mantello dalla parete gettandoselo sulle spalle, poi si chinò sul figlioletto, lo sollevò, lo serrò piano al petto e si avviò con passo leggero mentre la nutrice del piccolo si girava nel sonno tra le coperte.

L'isola dei morti

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Quale ne l'arnanà de' Viniziani
bolle l'inverno la tenace pece
a rimpalmare i legni lor non sani.
«Mi sono venuti in mente quei versi dell'Inferno appena ho visto quel relitto, non so perché, anzi, lo so benissimo. Siamo a Venezia, o in ogni caso non molto distante, sul fondo della laguna a poche spanne dalla superficie c'è una nave risalente al quattordicesimo secolo, lunga una trentina di metri, che gli archeologi stanno liberando dal fango che la ricopre, e il fasciame comincia a riapparire... Uno spettacolo, ti assicuro, una tecnica costruttiva formidabile, una perfezione nelle connessure che faceva pensare a un violino, non allo scafo di una galea. Stavano liberando la scassa dell'albero: c'era ancora la stoppa tutto attorno e le zeppe per fissarlo...»
Lucio Masera si accalorava mentre descriveva ciò che aveva visto durante la sua immersione nelle acque non proprio limpide di San Marco in Boccalama e il suo amico Rocco Barrese lo ascoltava con grande interesse. Barrese era un filologo romanzo che insegnava letteratura letterale a Ca' Foscari, e che aveva pubblicato un importante studio sulle fasi compositive della Divina Commedia, suscitando anche una certa polemica negli ambienti degli specialisti. L'ipotesi di Barrese poco era che Dante fosse tornato sul suo testo fino all'ultimo momento e che certi ripensamenti o certe aggiunte erano state fatte addirittura poco prima della sua morte e non solo nella terza cantica del Paradiso, ma in tutto il poema. Barrese era inoltre un linguista poliglotta di sterminata dottrina, capace di distinguere a prima vista, o al primo ascolto, impercettibili sfumature semantiche e fonetiche, sia nel campo delle lingue che in quello dei numerosi dialetti che padroneggiava perfettamente. Il suo studio al secondo piano di una casa del Ghetto vecchio era talmente ingombro di libri che a malapena si riusciva a passare da un ambiente all'altro e sulla scrivania ce n'erano almeno una mezza dozzina di aperti, tra i quali la biografia di Dante del Petrocchi.

Palladion

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Era un giovane sulla trentina, alto, robusto, dai lineamenti forti, facili da ricordare. Certamente un forestiero, non l'aveva visto mai da quelle parti. Camminava da un po' lungo l'argine del fiume, su e giù, fermandosi ogni tanto a guardare la corrente. Per un paio di volte s'era avvicinato al cancello del laboratorio come se volesse entrare; poi s'era allontanato.
Quando venne l'ora di chiudere, il marmista ripose i suoi attrezzi e si avviò all'uscita.
Se lo trovò davanti, improvvisamente.
Di pelle scura, occhi grandi e fondi, i raggi obliqui del sole gli scolpivano la faccia e le braccia nude, duramente:
«Sei tu il padrone qui?» gli chiese.
«Si, perché?»
«Dovresti farmi un lavoro.»
«Lo vedi, sto per chiudere. Sei qui da un pezzo, non potevi deciderti prima?»
Il giovane non rispose.
«E non puoi tornare domani?»
«No, domani devo partire... per un viaggio. Starò via molto tempo.»
«Se è così...» Il marmista tornò indietro e riaprì la porta del laboratorio.

Teutoburgo

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Due ragazzi correvano nel bosco.
La luce brillava nei loro capelli a ogni passaggio da ombra a ombra, ogni volta che ritrovavano il sole, barbagli d'oro. Volavano leggeri come il vento che muoveva le fronde degli alberi e come il profumo della resina che passava fra gli abeti giganti. Non avevano esitazioni, non rallentavano in vista di ostacoli, né all'apparizione improvvisa delle grandi creature della foresta. Ogni loro movimento era pura gioia di vivere.
I loro nomi erano Wurf e Armin, nobile la stirpe.
Giunsero in cima al colle dell'eco nello stesso momento in cui il sole illuminava la grande radura.
Armin si fermò: «Ascolta».
Anche Wulf si fermò: «Che cosa?».
«Il martello, il martello di Thor!»
Wulf tese l'orecchio: si udivano rombi profondi di tuono e a ogni colpo si accompagnava il rumore di acqua scrosciante e la sua eco interminabile.
«Vuoi farmi paura?»
«No. Non ancora.»
«Da dove viene?»
«Da destra, dietro il bosco di querce.»
«Andiamo?»
«Sì, ma con prudenza. Non è il martello di Thor.»
«Che cos'è, allora?»
«Te l'avevo detto che ti avrei mostrato la strada che non si ferma mai.»

Quinto comandamento

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Ospedale San Gaetano, Imola, 11 febbraio 2004, ore 6

L'uomo percorse l'atrio dell'ospedale e si presentò all'accettazione. Indossava un giaccone di pelle nera e con tasche sul petto e spalline, jeans e anfibi lucidissimi, maglioncino di lana grigia e Ray-Ban scuri sul naso, benché fosse una giornata nebbiosa.
Sulla manica destra aveva cucito uno scudetto di pelle nera con la croce bianca a otto punte degli Ospitalieri, e due lettere: FC,
L'impiegato lo accolse perplesso: «Mi dica».
«Non ho niente da dire» rispose l'uomo con il giaccone di pelle nera.
«Prego?» domandò il giovane.
«Devo vedere padre Marco Giraldi. So che è ricoverato in questo ospedale.» Aveva una voce rauca e profonda come i grandi fumatori, ma denti bianchi e mani curate.

Antica madre

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Avanzava nella steppa numidica una carovana scortata da venti soldati a cavallo in tenuta leggera e altrettanti legionari che avevano da almeno due settimane ottenuto il permesso dal centurione Rufio Fabro di togliere l'armatura e metterla nel carro. Le loriche d'acciaio si arroventavano sotto il sole ed era impossibile sopportarne il peso e l'armatura.
In lontananza il centurione di prima linea Furio Voreno poteva vedere la mole immane di un elefante, un gruppo di zebre, antilopi dalle corna lunghe e, da parte, un gruppo di leoni fulvi guidati da un maschio dalla folta criniera. Dietro al centurione camminava il pittore di paesaggi, che si preparava a ritrarre il territorio selvaggio della Numidia.
La carovana era composta di una decina di carri che trasportavano animali selvaggi destinati alle venationes nell'arena di Roma: leoni, leopardi, scimmie e un gigantesco bufalo nero che già aveva squassato i pali della sua gabbia sul carro mandandola in pezzi. Ogni volta che sbuffava sollevava una nube di polvere e di paglia frantumata. Sembrava un essere mitologico come il toro di Creta.

Quaranta giorni

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«Se sei il figlio di Dio, scendi dalla croce!»
«Tu sai benissimo chi sono, bestia, schiavo! Credi di sapere più di me? Quante volte ti ho cacciato e ho guardato nei tuoi occhi di porco! Altri tuoi compagni ho chiuso nelle budella di animali immondi perché fossero defecati per miglia, tra il lezzo degli escrementi!»
Nessuno udì queste parole venire dal patibolo. I lineamenti del condannato erano indecifrabili, gli occhi pieni di dolore, una sola lacrima tracciata di sangue dalla fronte dell'angolo della bocca. Spine, membra scorticate dal flagello. Silenzio sulla rupe, pesante.
Il tempo passava mentre il dolore era sempre più straziante, tra grida umane e demoniache. Il vento soffiava sempre più forte da settentrione. Le imprecazioni dei soldati ai dadi: «Otto! Sei! Ho vinto».
«Hai perso! Che hai vinto? Quello straccio?»
Gli amici dileguati. Terrore, angoscia, dolore lancinante nei polsi, nelle caviglie. Un grido dal patibolo: «Perdonali. Padre!». Voce rauca dal tronco traverso e pianto di donne. Una sola implorò perdono per i Goyim.
«No!» gridò un'altra voce, quella di un uomo chiamato Giuseppe di Arimatea... E altre tremarono fra la morte e l'odio.
Molto silenzio seguì, poi pianto di madre. Il condannato le donò un figlio differente: il giovane Giovanni, il suo discepolo prediletto.
«Donna, ecco tuo figlio e tu, ecco tua madre!»
Ma la Madre disobbedì al figlio, si accostò al patibolo senza che i legionari la fermassero, gli abbracciò le ginocchia e appoggiò la guancia scossa dai singulti sulla sua coscia. Un'onda di ricordi. L'aveva allattato, cresciuto, educato.
IESUS NAZARENUS RED IUDAEORUM

Note

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  1. Il prologo inizia così: "Queste sono le memorie di Myrdin Emreis, del bosco sacro di Glena che i Romani chiamarono Meridius Ambrosinus, scritte affinché i posteri non dimentichino le vicende delle quali sono l'ultimo testimone".

Bibliografia

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Filmografia

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Altri progetti

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Opere

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