Plinio il Giovane

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Plinio il Giovane (Como, S.Maria Maggiore, scultura di Tommaso e Jacobo Rodari

Gaio Plinio Cecilio Secondo, detto Plinio il Giovane (61 – 113), politico e scrittore romano.

Lettere (Epistolae)[modifica]

  • C. Plinio al suo Tacito
    Chiedi che io ti scriva come mio zio uscì di vita, perché tu, o Tacito, possa tramandare ai posteri la sua fin e in modo conforme alla verità.
    Te ne sono grato, perché vedo che alla sua morte, qualora sia celebrata da te, arride gloria immortale.
    Certamente egli, come le popolazioni, come le città, fu coinvolto nella catastrofe delle terre più belle del mondo e la memoria dell'evento gli assicurò una vita quasi per sempre; certamente compose moltissime opere che rimarranno: tuttavia gli scritti tuoi, eterni, contribuiranno in modo decisivo alla perennità del nome.
    Beati coloro cui gli dei concessero di compiere fatti degni di essere scritti o di scrivere fatti degni di essere letti, ma beatissimi io credo coloro cui furono concessi l'uno e l'altro dono. Fra questi sarà annoverato mio zio per i libri suoi e tuoi. Perciò volentieri mi assumo il compito che mi affidi, anzi insisto per ottenerlo.[1]
  • [Plinio il Vecchio] Era a Miseno e teneva direttamente il comando della flotta. Il 24 agosto, intorno all'una del pomeriggio, mia madre gli indica una nube che appariva, insolita per grandezza e per aspetto. Egli aveva preso il sole, fatto un bagno freddo, mangiato qualcosa stando disteso ed ora studiava; chiede i sandali e sale in un luogo da cui si poteva osservare al meglio quel prodigio.
    Per chi osservava da lontano non era chiaro da quale monte (si seppe dopo che era il Vesuvio) si levava la nube, la cui forma da nessun altro albero più che dal pino può essere rappresentata. Infatti, lanciata in alto come su un tronco altissimo, si diffondeva in rami, credo perché spinta dal primo forte soffio d'aria e poi lasciata quando quello scemava, o anche vinta dal suo stesso peso si dissolveva in larghezza: talora bianchissima, talora sporca e macchiata, a seconda che aveva sollevato con sé terra o cenere.[2]
  • Dolce far niente.
  • I voti infatti si contano, non si pesano, né può farsi diversamente in una pubblica assemblea, dove nulla è tanto ineguale che l'eguaglianza stessa. (lib. II, ep. 12)
Numerantur enim sententiae, non ponderantur; nec aliud in publico consilio fieri potest; in quo nihil est tam ineguale quam aequalitas ipsa.
  • Il suo solo difetto è di non avere difetti. (lib. IX, ep. 26)
  • Io già predico, né la mia predizione è fallace, che le tue istorie saranno immortali [...]. (dalla lettera a Tacito; VII, 33; 1831, vol. II, p. 169)
Auguror, nec me fallit augurium, historias tuas immortales futuras [...].
  • Leggesti mai di quell'uom di Cadice, che mosso dalla rinomanza e dalla riputazione di Tito Livio, venne dall'ultimo confin della terra per vederlo, e partì come l'ebbe veduto? (II, 3, p. 63)
Numquamne legisti, Gaditanum quemdam, Titi Livii nomine gloriaque commotum, ad visendum eum ab ultimo terrarum orbe venisse, statimque, ut viderat, abiisse!
  • [...] io credo che il primo dovere di uno scrittore sia di tenere davanti agli occhi il suo tema, di domandarsi ripetutamente quali siano le esigenze dell'assunto che si è prefisso, e di rendersi conto che, se egli rimane dentro al suo argomento non è lungo, mentre è lunghissimo se vi inserisce e immette a forza qualcosa che non c'entri. (dalla lettera a Domizio Apollinare; V, 6, 42[3])
[...] primum ego officium scriptoris existimo, ut titulum suum legat atque identidem interroget se, quid coeperit scribere, sciatque, si materiae immoratur, non esse longum, longissimum, si aliquid arcessit atque attrahit.
  • Non è infatti questa una digressione, ma l'opera stessa. (V, VI[4])
Non enim excursus hic ejus, sed opus ipsum est.
  • Sento che Valerio Marziale è morto, e me ne duole. Era un uomo ingegnoso, acuto e pungente, che aveva nello scrivere moltissimo di sale e di fiele e non meno di sincerità. (Lettera a Cornelio Prisco, III, 21, anno 104)
  • [...] senza l'esercizio è difficile il ritener quello che s'è imparato. (dalla lettera ad Aristone; VIII, 14; 1831, vol. II, p. 197)
[...] difficile est tenere, quae acceperis, nisi exerceas.
  • Vorrei davvero sapere che cosa ne pensi tu dei fantasmi (phantasmata): se esistono realmente, con forma ed essenza propria, o se non sono che vane apparenze generate dal nostro terrore. (Lettera a P. Licinio Sura sui fantasmi, lib. VII, XXVII[5])

Note[modifica]

  1. Citato in Il Vesuvio, Pierro Gruppo Editori Campani, Napoli, 2000.
  2. Da Lettera a Tacito, Lettere, libro VI, lettera XVI.
  3. In Plinio il Giovane, Opere, a cura di Francesco Trisoglio, vol. I, UTET, Torino, 1973, p. 539.
  4. Citato in Laurence Sterne, Vita e opinioni di Tristram Shandy, a cura di Lidia Conetti, Mondadori, 1992, dedica del vol. VII.
  5. Citato in Fruttero & Lucentini, Íncipit, Mondadori, 1993.

Bibliografia[modifica]

  • Plino il Giovane, Le Lettere, 3 voll., tradotte e illustrate da Pier Alessandro Paravia, Tipografia di Commercio, Venezia, 1830-1831, vol. I, 1830, voll. II e III, 1831. Testo latino a fronte.

Voci correlate[modifica]

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