Plinio il Vecchio

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Plinio il Vecchio

Gaio Plinio Secondo, detto Plinio il Vecchio (23 – 79), scrittore, filosofo, zoologo, astronomo e studioso romano.

Citazioni di Plinio il Vecchio[modifica]

  • Questa è l'Italia sacra agli Dei. (da Naturalis Historia, III, 46)
Haec est Italia diis sacra.
  • La terra è benigna, mite, indulgente, ed alle richiedenze dei mortali serva continua; quante cose, costretta, produce, quante altre spontaneamente distrugge, quanti profumi, sapori, succhi, sensi, e colori ci offre! Con quanta onestà ci rende i tesori che a lei affidiamo! Quante cose per utile nostro essa alimenta. (citato in Claudio Malagoli, Etica dell'alimentazione: prodotti tipici e biologici, Ogm e nutraceutici, commercio equo e solidale, Aracne, 2006, p. 45)
  • Non c'è libro tanto cattivo che in qualche sua parte non possa giovare. (da Epistole, lib. III, ep. 5)
Nullum esse librum tam malum, ut non aliqua parte prodesset.

Storia naturale[modifica]

Incipit[modifica]

I libri di Storia naturale, opera di genere nuovo per le Muse dei tuoi Quiriti, ultimo mio parto letterario, ho deciso di presentarteli con una lettera di tono confidenziale, carissimo imperatore[1].

Citazioni[modifica]

  • C'è verità nel vino. (14, 28, 141)
In vino veritas.
  • Coloro (gl'illustri scrittori) dei quali le anime immortali parlano nelle biblioteche (XXXV, 2)
Illi quorum immortales animae in locis iisdem (in bibliothecis) loquuntur.
  • È proprio vero che la maggior parte dei mali che capitano all'uomo sono cagionati dall'uomo. (VII, 5)
At Hercule homini plurima ex homine sunt mala.
  • È tutt'altro che facile dire se la natura si sia dimostrata per l'uomo una madre generosa o una spietata matrigna. (VII, 1)
  • I latifondi condussero l'Italia a perdizione. (XVIII, 7)
Latifundia perdidere Italiam.
  • [I medici] imparano a nostro rischio e pericolo e fanno esperienze a furia di ammazzare. Per di più se la prendono con il malato rigettando la colpa sulla sua intemperanza, tanto che chi è rimasto vittima viene messo sotto accusa. (p. 1342)
  • Il mondo, o cielo che si voglia chiamare, nel cui ambito tutto si svolge, non a torto è reputato un dio: immenso, ingenerato, immortale. Che cos'altro possa esistere fuori di esso, gli uomini non hanno interesse a indagare, né la mente umana sarebbe capace di far congetture in proposito. (citato in Fruttero & Lucentini, Íncipit, Mondadori, 1993.)
  • L'abitudine è in tutte le cose il miglior maestro. (XXVI, 2)
Usus efficamissimus rerum omnium magister.[2]
  • Poi, sulla costa, sono Napoli, anch'essa calcidese, chiamata Partenope dalla tomba della Sirena, Ercolano, Pompei, col Vesuvio che si vede non lontano, col fiume Sarno che la bagna, il territorio nocerino e la stessa Nuceria a nove miglia dal mare, Sorrento col promontorio di Minerva, un tempo sede delle Sirene. (III, 9, 62)
Litore autem Neapolis, Chalcidensium et ipsa, Parthenope a tumulo Sirenis appellata, Herculaneum, Pompei haud procul spectato monte Vesuvio, adluente vero Sarno amne, ager Nucerinus et VIIII p. a mari ipsa Nuceria, Surrentum cum promunturio Minervae, Sirenum quondam sede.
  • Questa è l'Italia sacra agli Dei. (III, 46)
  • Due sole furono le perle maggiori che mai si trovassero al mondo, ed amendue l'ebbe Cleopatra, ultima regina d'Egitto, per le mani dei re di Oriente a lei date. Costei essendo ogni dì convitata da Marco Antonio con ricchissime e sontuosissime vivande, superba e sfacciata come regina e bagascia, si faceva besse di quanta magnificenza e pompa era quivi: onde Marco Antonio la domandò, com'essa avrebbe saputo far di più ; ed essa gli rispose: che ella avrebbe speso in una cena centomila sesterzii. (IX, 58; 1844, vol. 1, p. 884)
  • Il montone[3] assalta i pesci come uno assassino: talora s'asconde all'ombra de' navili grossi, i quali stanno fermi, e aspetta se alcuno ha voglia di nuotare; e ora alzando il capo fuor dall'acqua, apposta le barchette de' pescatori, e di nascoso nuotando le mette a fondo. (IX, 67; 1844, vol. 1, p. 896)
  • Cipolle salvatiche non ci sono. Le domestiche con l'odorato e con trar le lagrime rimediano i bagliori, e molto più con la unzione del sugo. Dicesi ancora ch'elle fanno venir sonno, e guariscono le fessure, o piaghe della bocca, mangiate col pane. Guariscono anco i morsi de' cani, bagnate verdi nell' aceto, o secche col melé e col vino, in modo che si sciolgano dopo il terzo giorno. Così sanano ancora le fratture. (XX, 20; 1844, vol. 2, p. 18)
  • L'aglio ha gran forza, e grande utilità contra la mutazione dell'acque e de' luoghi. Con l'odore scaccia le serpi e gli scorpioni, e, come dicono alcuni, guarisce i morsi d'ogni bestia, beendosi, o mangiandosi, о ugnendosene; e particolarmente giova alle morici, dato col vino per vomito. (XX, 23; 1844, vol. 2, p. 22)
  • Il cibo dello asparago, secondo che si dice, è utilissimo allo stomaco, e aggiuntovi il comino caccia le infiammagioni dallo stomaco e dell'intestino colon; e rischiara anco la vista. Gli asparagi mollificano leggermente il corpo: giovano a' dolori del petto e della schiena, e a' difetti degl'interiori, quando son cotti col vino; non che a' dolori de' lombi e delle reni, beendo il seme loro a peso di tre oboli con altrettanto comino. Dettano la lussuria, e muovono utilissimamente l'orina, ma rodono la vescica. (XX; 1844, vol. 2, p. 42)
  • Giova ancora la fava, perché fritta soda, e bollente messa in aceto forte medica i tormini. Infranta in cibo, e cotta con l'aglio, si piglia ogni giorno contra le tossi disperate, e le marcie raccolte nel petto; e masticata a bocca digiuna è adoperata ancora a maturare i fìgnolì, ed a levargli via; e cotta nel vino, a torre gli enfiati dei testicoli e delle parti genitali. La farina di fava ancora, cotta con lo aceto, matura e apre gli enfiati, e medica i lividori e le incotture. (XXII, 69; 1844, vol. 2, p. 256)
  • La fama di Malampode è nota per le arti di divinazione. Da lui ha nome il melampodio, ch'è una specie di elleboro. Alcuni dicono che ne fu inventore un pastor di questo nome, il quale osservò che le capre pascendo quest'erba si purgavano, e che dando poi il latte di queste capre guarì le Pretide, le quali erano impanate. Per la qual cosa si convien dire insieme di tutte le sue specie. Le prime sono due, del bianco e del nero. Molti dicono che la lor differenza si conosce solamente dalle radici: altri che le foglie del nero sono simili a quelle del platano, ma minori e più nere, e fesse con più divisure; e le foglie del bianco simili a quelle della bietola, quando ella comincia; ma queste ancor più nere, e rossigne sul dosso accanalato. (XXV, 21; 1844, vol. 2, p. 450)
  • La infermità delle gotte soleva essere più rara, non solamente ai tempi de' padri e avoli nostri, ma ancora a' presenti. Anche questa venne tra noi d'altronde. Il che perciò si prova che se anticamente fosse stata in Italia, avrebbe avuto nome latino. Non è da credere, che tale infermità non si possa guarire, perché in molti s'è veduta risanare da se stessa, e in molti per cura medica. (XXVI, 64; 1844, vol. 2, p. 560)
  • Il morbo regio è cosa mirabile, specialmente quando vien negli occhi; che certo è gran maraviglia come fra tanta sottigliezza e densità di pannicoli si soppiati il fiele. Ippocrate insegnò che la febbre dopo il settimo giorno è segno mortale. Ma noi abbiamo veduti di quei che avean questo segno, e non son morti. Viene ancora senza febbre, e lo guarisce, come dicemmo, la centaurea maggiore in bevanda, la bettonica, non che tre oboli d'agarico in un bicchiere di vin vecchio, ovvero la foglia di verbenaca in un'emina di vin caldo per quattro giorni. (XXVI, 76; 1844, vol. 2, p. 570)
  • Molte sorti di malattie guariscono nel primo coito, e nel primo mestruo delle donne. O se pur ciò non avviene, quei mali diventano lunghissimi, e massimamente il mal caduco. (XXVIII; 1844, vol. 2, p. 676)
  • Truovasi d'alcuni, che beendo latte d'asina si sono liberati dalle gotte de' piedi e delle mani. (XXVIII; 1844, vol. 2, p. 712)
  • Ma sopra tutto fu in maraviglia il colosso del Sole in Rodi, il duale fu fatto da Carote Lindio, discepolo del sopraddetto Lisippo. Egli fu alto settanta braccia. Questo simulacro dopo cinquantasei anni ruinò per terremoto, ma giacendo ancora è una maraviglia. Pochi possono abbracciare il suo dito grosso. Le dita sue son maggiori che molte statue; e le cavità nelle rotture delle sue membra paiono grandi spelonche. Veggonsi dentro sassi smisurati, col peso de' quali l'artefice fermò questa statua. Dicono ch'egli fu fatto in dodici anni, e che costò trecento talenti, i quali furono tratti dell'apparato del re Demetrio, il quale per essergli venuto a noia, lasciò l'assedio di Rodi. Nella medesima città sono altri cento colossi minori di questo, ciascuno le quali basterebbe da sé a nobilitare il luogo dove e' fosse. (XXXIV, 18; 1844, vol. 2, pp. 1128-1130)
  • Scopa ebbe per concorrenti a un medesimo tempo Briassi, Timoteo e Leocare, de' quali s'ba da ragionare a un tratto, perché essi di compagnia scolpirono il Mausoleo. Questo è un sepolcro fatto da Artemisia sua moglie a Mausolo re di Curia, il quale morì l'anno secondo della centesima olimpiade. Furono principal cagione questi artefici, che tale opera fosse annoverata fra i sette miracoli del mondo. È largo da mezzo giorno e tramontana sessantatré piedi, e più breve dalle fronti, e gira tutto quattrocento undici piedi. È in altezza venticinque braccia, circondato da trentasei colonne. Da levante lo lavorò Scopa, da tramontana Briassi, da mezzodì Timoteo, da ponente Leoeare. Prima che lo finisseru, la reina Artemisia, la quale area fatto fare questa opera in onore del marito, venne a morte. Non però questi artefici si levarono, se non poi che l'ebbero fornito, giudicando che ciò dovesse essere una memoria della gloria e dell'arte loro; e oggi ancora concorrono di virtù fra loro. Vi si aggiunse anche il quinto artefice, che sopra l'altezza degli edificii pose una piramide di altezza altrettanta che la fabbrica, la quale sormonta ventiquattro gradini e va in su appuntandosi. In cima v'è una carretta da quattro cavalli, di marmo, fatta da Piti. Quella carretta riduce tutta l'opera all'altezza di cento quaranta piedi. (XXXVI, 4; 1844, vol. 2, p. 1290)
  • [Sul faro di Alessandria] È celebrata ancora un'altra torre, fatta dal re Tolomeo nell'isola di Faro, dov'è il porto di Alessandria; la qual torre dicono che costò ottocento talenti; e per non lasciare nulla addietro, il re Tolomeo mostrò grande animo, comportando che in essa si scrivesse il nome di Sostrato da Guido architetto di quella fabbrica. Sopra di questa torre sta di continuo il fuoco acceso, per mostrare di notte il viaggio a' navili, acciocché veggano le secche, e l'entrata del porto; [...]. (XXXVI, 18; 1844, vol. 2, p. 1312)
  • Vera maraviglia di magnificenza è il tempio di Diana Efesia, fatto da tutta l'Asia in dugento venti anni. Fu fatto questo tempio in suolo paludoso, perché egli non sentisse terremoti, né apriture di terra. E acciocché i fondamenti di tanto edificio non fossero in luogo lubrico e instabile, vi misero sotto carboni ben calcali, e velli di lane. La lunghezza di tutto il tempio è quattrocento venticinque piedi, la larghezza dugentoventi: sonvi cento ventisette colonne, ciascuna fatta da un re, e alte sessanta piedi, e di queste trentasei ne sono scolpite, e una da Scopa. L'architetto fu Chersifrone. Gran maraviglia è ancora, come si potessero metter su i capitelli di tanto peso. Ciò fece egli con certi cestoni pieni di rena, componendoli a molle declivio sopra i capi delle colonne, e a poco a poco votando da basso que' cestoni finché tutto si fermasse come in suo letto. (XXXVI, 21; 1844, vol. 2, pp. 1316-1318)

Citazioni su Plinio il Vecchio[modifica]

  • Leggo con godimento e stupore sempre rinnovati molti libri vecchi e nuovi che parlano di animali, e mi pare di ricavarne un nutrimento vitale, indipendentemente dal loro valore letterario o scientifico. Possono anche essere pieni di bugie, come il vecchio Plinio: non ha importanza, il loro valore sta nei suggerimenti che forniscono. (Primo Levi)
  • [Sul valore scientifico dell'opera di Plinio] [...], un insieme di aneddoti e racconti da comare. (Alexandre Koyré)

Note[modifica]

  1. Dedica all'imperatore Tito.
  2. Letteralmente: «L'abitudine è potentissima signora di tutte le cose».
  3. Plinio si riferiva con ogni probabilità all'orca, gli antichi infatti avevano dato a questo animale infatti il nome di "delfino montone" o "cetaceo montone". Cfr. Alfred Edmund Brehm, La vita degli animali. Descrizione generale del mondo animale, Volume 2, Mammiferi, traduzioni di Gaetano Branca e Stefano Travella, Unione Tipografico-editrice torinese, 1872 p. 880.

Bibliografia[modifica]

  • Gaio Plinio Secondo, Storia naturale, traduzione di Alessandro Barchiesi, Einaudi, 1982.
  • Gaio Plinio Secondo, Storia naturale, Volume I, traduzione di M. Lodovico Domenichi, Tipografia di Giuseppe Antonelli, 1844.
  • Gaio Plinio Secondo, Storia naturale, Volume II, traduzione di M. Lodovico Domenichi, Tipografia di Giuseppe Antonelli, 1844.
  • Plinio il vecchio, Naturalis historia, Guardini, Pisa, 1984.

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