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Rosario La Duca

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Rosario La Duca (1923 – 2008), storico dell'arte, ingegnere, accademico e politico italiano.

I veleni di Palermo

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  • Il mattino del 9 febbraio 1954, nelle carceri dell'Ucciardone, Gaspare Pisciotta, luogotenente del bandito Salvatore Giuliano, viene avvelenato con una sostanza tossica mescolata con il caffè. È subito aperta un'inchiesta, vengono nominati i periti settori che dovranno eseguire la necroscopia del cadavere del Pisciotta e riferire al magistrato, entro due mesi, il risultato dell'esame. [...] In seguito si seppe soltanto che Pisciotta era stato avvelenato con una forte dose di stricnina, né altro aggiunse la giustizia. (pp. 30-31)
  • Il vero protagonista del crimine per mezzo di veneficio, specie nei tempi remoti, fu quasi sempre l'arsenico. Lo si trovava, facilmente, allo stato naturale, in masse compatte o anche, sotto forma di composti, in molti minerali. Il realgar e l'orpimento, arrostiti e successivamente ridotti in presenza di carbone, permettevano di ottenerlo quasi allo stato puro. (p. 31)
  • È fortemente tossico: la dose letale varia, a seconda dell'individuo, tra un ventesimo ed un decimo di grammo. (p. 32)
  • L'arsenico fu il principe dei veleni nel Medioevo e sino a qualche secolo fa. In soluzione acquosa, lo si poteva facilmente mescolare a cibi e bevande, senza che ad essi conferisse alcun sapore particolare. (p. 33)
  • A quel tempo[nel Cinquecento], tra la città antica ed i quartieri arabi di Settentrione, scorreva pigramente il Papireto che, originato dalla sorgente di Denisinni (l'araba Aîn-abi-Saîdin), era alimentato lungo il suo corso da molte polle. (pp. 34-35)
  • Il fiume muoveva le ruote di alcuni mulini e, là dove il letto si allargava, formava terreni acquitrinosi nei quali abbondante cresceva il papiro, che dava il nome al corso d'acqua ed alla contrada che l'attraversava. (p. 35)
  • Alcuni poeti siciliani avevano favoleggiato che il fiume ricevesse dal Nilo, attraverso vie sotterranee, l'acqua e l'erba egizia; storici ed eruditi, per non esser da meno dei poeti, avevano fatto a gara per aggiungere ai papiri anche i coccodrilli, sostenendo a spada tratta che la carcassa di uno di questi alligatori, che pendeva dal soffitto della bottega di un aromatario della contrada dell'Argenteria, fosse proprio quella di uno dei questi coccodrilli, giunto dal Nilo e catturato sulle sponde del Papireto. Ma i terreni paludosi del fiume, oltre all'erba egizia, generavano anche esalazioni nocive. (p. 35)
  • Il 12 luglio di quello stesso anno [1633], viene giustiziata Thofania d'Adamo «per aver fatto morire al quondam Francesco d'Adamo suo marito, et altre persone con acqua velenosa». La buona donna ha cercato di assommare per la sua acquetta il cauto impiego casalingo e l'avveduto e remunerativo commercio esterno. (p. 47)
  • Per Thofania d'Adamo la Regia Gran Corte Criminale prepara una «orrenda ma giustissima giustizia». La condannata, non appena uscita dalla Cappella della Vicaria, è posta mezza nuda sopra un carro e, mentre il boia ne strappa le carni con tenaglie arroventate, viene portata a zonzo per le vie della città. Dopo questa passeggiata preparatoria, è ricondotta alla Vicaria e la si fa salire nella parte più alta dell'edificio; qui viene strozzata ad un palo e «dal detto loco buttata e poi appiccata e squartata». (pp. 47-48)
  • Ma l'acqua velenosa sopravvive a coloro che l'avevano per lungo fabbricata e dispensata: con il nome di Acqua tofana o Acqua di Palermo, attraversa lo Stretto e raggiunge il Continente. Chi si era presa la briga di raccogliere il segreto della sua composizione, conservarlo religiosamente per poi trasferirlo in altre parti d'Italia? (p. 53)
  • In un processo criminale celebrato in Roma nel 1659 contro cinque donne che, dispensando veleno, avevano prodotto «un sordo macello di mariti», funestando per oltre quattro anni quella città, risulta che il segreto dell'acqua vi era stato portato da una Giulia Tofana di Palermo che alcuni vogliono essere stata parente, se non addirittura figlia della d'Adamo. (pp. 53-54)
  • Giulia Tofana era fuggita dalla città nativa, assieme alla figliastra Girolama Spana, «essendosi scoperto che per veleno da lei preparato, e amministrato da un tal Spadafora, era ivi morto un Ippolito Larcari ricco gentiluomo di Genova». (p. 54)
  • La Tofana, giunta a Roma col diabolico bagaglio di esperienze siciliane, inizia l'attività di sensale di matrimoni ed anche di fattucchiera, in quanto «s'intendeva di fisionomia». Allaccia relazioni con persone di alto lignaggio e, in tal modo, comincia a far carriera, trovando protezione ed anche l'occasione di cominciare a spacciare il suo prodotto. Stringe intimo legame con un tal Padre Girolamo di Sant'Agnese, che sta a San Lorenzo fuori delle mura, e trova in lui un collaboratore riservato ed attivo per la preparazione della sua acqua, «perocché era appunto il Padre reverendo che le forniva l'arsenico, che i farmacisti non avrebbero a lei venduto». (p. 54)
  • Giulia Tofana muore nel 1651, ma con lei non scompare il segreto della composizione dell'acqua: la figliastra Girolama Spana, assistita dal pio Padre Girolamo di Sant'Agnese, occupa il posto della matrigna, ma, poco dopo, cade nelle mani della giustizia assieme ad altre quattro collaboratrici, Giovanna de Grandis, Maria Spinola – soprannominata Grifola ed anch'essa siciliana, ma abitante a Roma sin dal 1627 – Laura Crispolti e Graziosa Farina. Processate, vengono condannate a morte e, nel pomeriggio del 5 luglio 1659, le «allegre comari» pendono dalle forche erette in Campo dei Fiori. (p. 54)
  • Dopo la morte di Thofania d'Adamo, leader degli avvelenatori siciliani, i fabbricatori e dispensatori di acque miracolose che vengono appresso appaiono dei semplici dilettanti. (p. 62)
  • Il segreto dell'acqua della 'gnura Tufania viene però gelosamente custodito. Ed ecco che, nel 1648, una certa Caterina Boni si dà da fare per «produrre una polvere velenosa simile all'acqua di un'altra scelerata femina cognominata Tofania, che uccidea gli uomini inavvedutamente». (p. 62)
  • Da quanto riferisce il cronista, si deduce che l'Acqua Tofana, chiamata così nel 1648, abbia preso il suo nome da Thofania d'Adamo e non dall'altra Giulia Tofana che, forse impunita, morì in Roma nel 1651. (p. 62)
  • [Su Giovanna Bonanno] A rinverdire le ormai monotone cronache del delitto cum veneno propinato, è chiamata una mendicante quasi ottantenne, un po' fattucchiera e quindi esperta in esorcismi, in orazioni e scongiuri, in filtri e beveraggi. (p. 73)
  • Nella tarda età, superati i settantacinque anni, maturano alcune circostanze che faranno della vecchia una fredda avvelenatrice, spinta al delitto non dalle passioni, ma soltanto dal desiderio di guadagnare qualcosa per migliorare la sua grama esistenza. (p. 73)
  • Il processo criminale, salvatosi dalla distruzione e pubblicato dal Ratti nel 1914, consente di ricostruire le squallide vicende di questa ammazzamariti, di nome Giovanna Bonanno, che meglio passerà alla storia come la vecchia di l'acitu. (p. 73)
  • La Bonanno ben conosce che l'aceto di D. Saverio La Monica è micidiale in quanto contiene arsenico, ma, per non farne sapere ad altri la composizione, decide di metterlo in commercio col nome di «acqua per uccidere gli uomini». E così la vecchiaccia, impugnata la carraffella che contiene l'aceto per ammazzar pidocchi, si appresta a percorrere la via del delitto lungo la quale avrebbe lasciato molti mariti inconsolabili e numerose vedove affrante. (p. 74)
  • Ci sono, ormai, prove più che sufficienti per dimostrare che la Bonanno uccise con l'aceto acquistato presso la bottega del La Monica e per mandare quindi la vecchia megera alla forca. Il 20 dicembre 1788 Giovanna Bonanno, condotta in loco tormentorum della Vicaria, viene sottoposta a tortura per adempiere alla legale solennità della ratifica di quanto ha già in precedenza deposto. (p. 81)
  • Prima che il Settecento volga al suo termine, un'altra morte misteriosa con sospetto di veleno, costituirà il giallo del secolo. Si tratta dell'improvviso decesso di Don Francesco d'Aquino principe di Caramanico, viceré di Sicilia, avvenuto proprio negli anni in cui ebbe il processo Giovanna Bonanno. [...] Giungeva nell'isola nell'aprile del 1786, preceduto dalla fama di essere stato protagonista di un grande romanzo d'amore come favorito ed amante della regina Maria Carolina. (p. 88)
  • Il Caramanico, già ambasciatore del Regno di Napoli a Londra e a Parigi, appena giunto a Palermo si dà subito da fare per continuare, anche se con maggiore diplomazia, l'opera iniziata dal suo predecessore Caracciolo, uomo di Stato tagliato alla Voltaire e alla Diderot, mangiapreti, nemico dell'Inquisizione e del potere baronale, ma zelante restauratore dell'autorità regia. Francesco d'Aquino abroga dapprima il mero e misto imperio dei baroni, sostenuto in ciò senza riserve dalla Corte, colpendo così a morte il baronaggio anche all'interno del feudo. (pp. 88-89)
  • Nel febbraio del 1794 il Caramanico viene «sopreso da gravissima malattia» che lo tiene inchiodato a letto per molti giorni. Convalescente, si reca a Napoli, ma, al suo ritorno, «mostra seempre soffrire incommodi in salute», e il giorno 8 gennaio del 1795, mentre si trova «a mutar aria alla Casina della Principessa del Cassaro nella contrada delle Terre Rosse, è assalito repentinamente da violenta convulsione, che all'ore 11 del giorno 9 seguente gli toglie la vita senzache abbia potuto ricevere il Santissimo Viatico, né munirsi dell'estrema unzione». Sulla morte del viceré circolano subito le notizie più fantasiose. Chi lo vuole ucciso dall'Acton suo rivale in amore con veleno direttamente propinatogli, chi dal Carelli suo segretario; altri ritiene, invece, che il Caramanico si sia suicidato con veleno essendo implicato in una congiura politica. (pp. 89-90)

Bibliografia

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  • Rosario La Duca, I veleni di Palermo, Introduzione di Leonardo Sciascia, Sellerio, Palermo, 1988.

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