Ruggero Moscati
Ruggero Moscati (1908 – 1981), storico italiano.
I Borboni d'Italia
[modifica]Un rapido bilancio della storiografia sul periodo borbonico nell'Italia meridionale negli ultimi venticinque anni deve necessariamente prendere le mosse da quella che era, nel periodo immediatamente precedente la situazione degli studi storici in Napoli in quel particolare settore.
Citazioni
[modifica]- Con le "Segreterie di Stato", cioè i futuri ministeri, nasce in sostanza nell'Italia borbonica, per influsso mediato o immediato della monarchia di Luigi XIV, la burocrazia moderna, il cui studio non è stato in Italia ancora affrontato come meriterebbe e che in Napoli relega in secondo piano, sin dal suo nascere, la classe curialesca, il ceto degli avvocati e dei giuristi pratici che aveva tenuto incontrastata la scena del '600 e con un aureo libretto aveva influenzato nel fatto anche la cultura del paese. (cap. 2, p. 42)
- La distinzione tra i beni ecclesiastici e i beni laicali dei chierici ad essi confusi, la sottomissione dei nuovi acquisti fondiari della chiesa all'integrale peso dei tributi comuni, il limite posto all'eccessivo numero degli ecclesiastici, la restrizione del diritto d'asilo e del diritto di foro speciale, segnano le principali tappe di un'azione che trovò nel concordato del 1741 una regolamentazione equilibrata e passibile di sviluppo. La decisa presa di posizione contro il tentativo dell'arcivescovo Spinelli di riproporre sotto nome mutato il tribunale del Santo Officio, il divieto di nuovi acquisti ai Gesuiti, l'annullamento dei testamenti «dell'anima» e – significative tra tutte – le parole del celebre dispaccio del 1758 che proclamò testualmente che «il matrimonio di sua natura è contratto, accessoriamente è sagramento», mostrano con evidenza le direttive della classe dirigente meridionale nei rapporti stato e chiesa. (cap. 2, p. 46)
- Ma mentre nel settore ecclesiastico, in specie per il noto orientamento che portò la Spagna a prendere una netta posizione di ostilità ai gesuiti, Tanucci riusciva ad avere assai spesso mano libera, nella lotta contro il magnatismo e cioè l'alto baronaggio, di cui lo statista toscano voleva annullare il peso, in alcuni settori tuttora paralizzanti, l'appoggio di re Carlo non era altrettanto deciso. (cap. 3, p. 51)
- Il precipitare degli eventi, negli ultimi giorni del '98 e nei primi del '99, conduce perciò a dei risultati inaspettati: i lazzari (il sottoproletariato) della capitale e i contadini delle province si rivelano ben lungi dall'esser quello che erano stati considerati fino allora, una massa amorfa, cioè, avvezza a passare con facile rassegnazione da un padrone all'altro; ché i repubblicani e i francesi trovano proprio in quelle masse l'ostacolo grave e imprevisto, la monarchia un sostegno fedele e validissimo. Fallisce così il primo esperimento della borghesia più avanzata per affermarsi apertamente come classe dirigente. Il cardinale Ruffo parte dalla Sicilia con la facoltà di alleviare i pesi fiscali del popolo: la corte stessa si rende conto che la massa rurale fa la rivoluzione contro i benestanti e contro i francesi, cui questi si appoggiano, nella speranza di veder migliorate le proprie condizioni economiche, e per questo si batte eroicamente per il re «tradito dai nobili e dai civili». (cap. 5, p. 90)
- In effetti, con l'abolizione del feudalesimo, l'introduzione del codice napoleonico, la struttura moderna data ai ministeri e all'amministrazione provinciale, la formazione di un nuovo catasto, l'imposizione fondiaria, la legislazione scolastica, si era dato l'avvio ad una mole imponente di riforme che trasformò il volto e l'anima del paese. Rifluì in Napoli la «classe colta sbandita» e si compì l'opera vagheggiata dai riformatori del '700: si consolidò definitivamente quel ceto medio e quella alta borghesia terriera del Mezzogiorno destinata a diventare la vera dominatrice della vita del paese; ne scaturì una schiera di politici, di tecnici, di militari che ben corrispose alle direttive del sovrano: da Giuseppe Poerio a Francesco Ricciardi, da Matteo Galdi a Biase Zurlo e Giuseppe De Thomasis, da Pietro Colletta ai D'Ambrosio, ai Carrascosa, ai Pepe, tutti lavorarono, meravigliosi servitori dello stato, con un pari ardore entusiastico sia che si trattasse di migliorare le istituzioni all'interno, sia di ridestare sui campi di battaglia d'Europa lo spirito militare della nazione e renderla gloriosa agli occhi dei popoli. (cap. 6, p. 93)
- Egli[1] ha tutte le caratteristiche degli Asburgo minori, senza il lampo di genio o la vena di pazzia che a tratti illumina i maggiori della casa: e dalla madre Maria Carolina che non l'ha mai amato, ha ereditato quanto meno l'esasperante grafomania, quella grafomania che lo porta ad annotare ogni pratica, a prenderne atto, o a restarne inteso come egli scrive e redigere riassunti meticolosi di documenti a trascriverli addirittura a centinaia, a compilare memorie diari e simili. (cap. 7, p. 113)
- Si aggiunga che egli[2] comprendeva l'urgenza di porre riparo ai mali più grandi che affliggevano l'organismo statale e la necessità di attrarre verso il trono gli elementi più responsabili del regno, da tempo sfiduciati e in disparte. Sia pure con dieci anni di ritardo, si tentava così quell'opera di riconciliazione, per la ricostruzione del paese, che sarebbe stato necessario affrontare dopo la restaurazione del '21. Ma quali forme assunse quel tentativo? Parve che in un primo momento esso riuscisse pienamente. Si determinò negli anni dopo il '30 un'atmosfera di idilliaca fiducia intorno al giovane sovrano, che reprime scandali, sradica abusi, richiama in patria gran numero di esuli, fa sentire in tutti i rami dell'amministrazione il peso della sua fattiva volontà di progresso civile, rivolge le sue cure maggiori alla ricostruzione dell'esercito, cura il benessere economico del paese, diminuisce le imposte, promuove le industrie — in modo che la Napoli industriale di allora è stata giudicata, sia pure con qualche amplificazione, dall'Arias o dal Barbagallo per nulla inferiore alle città del settentrione — dà incremento alla marina mercantile, traccia ed apre nuove vie di comunicazione, intraprende opere di bonifica, agevola con un protezionismo moderato e perfino con principi liberistici il commercio, tanto da meritare in pieno parlamento britannico le lodi di Robert Peel. Insomma una linea politica che apparve all'inizio in netto contrasto con quella dei suoi immediati predecessori. Intorno al re una classe di governo che appare sensibile alla necessità di riforme in tutti i campi dell'amministrazione e un notevole fervore di studi che ripropone il problema della revisione degli indirizzi economici dello stato napoletano e rimette sul tappeto, ravvivandoli, molti dei vecchi temi del riformismo settecentesco. (cap. 7, p. 121)
- Si comprende perciò come ad osservatori superficiali ed alle stesse cancellerie sospettose d'Europa quell'evoluzione della monarchia borbonica apparisse quasi un sintomo di liberalismo. Non si capì che Ferdinando intendeva soltanto perfezionare, per consolidarle e conservarle, le istituzioni amministrative del regno trasmessagli dai predecessori e che la trasformazione tentata ad opera del re bisognava considerarla politicamente come uno sforzo di innestare nel tronco della vecchia monarchia sorta dal congresso di Vienna l'ideale amministrativo del regime napoleonico che si richiamava in Napoli alla tradizione murattiana. (cap. 7, p. 122)
- E non fu senza significato che nell'età matura si convertissero al borbonismo proprio alcuni tra i rappresentanti della generazione del '99, non perché fossero divenuti scettici dopo l'esperienza giovanile ma perché, sbollito l'ardore giacobino con le congiunte astrattezze, accentuatasi, dopo quell'esperienza e dopo i contatti con i francesi nel periodo napoleonico, la diffidenza contro l'asservimento allo straniero e creatasi col congresso di Vienna una realtà di pace che essi considerarono stabile, ritennero in buona fede che quello fosse l'unico mezzo di servire concretamente la patria napoletana ed insieme salvare quanto più fosse possibile dei propri ideali riformistici settecenteschi. (cap. 7, p. 122)
- Ideali riformistici che si andranno via via acconciando col programma quietistico e municipale di Ferdinando II, ben noto nelle sue linee caratteristiche: un Regno delle due Sicilie, tranquillo, economicamente fiorente, indipendente dall'estero, chiuso, come argutamente notava egli stesso, tra «l'acqua santa e l'acqua salata». Un paese, tenuto lontano dalle ideologie nuove dall'antemurale dello Stato Pontificio, e in cui tutto dovesse procedere in placida quiete: all'ombra della chiesa, la cui azione peraltro non doveva in nessun caso sconfinare nel terreno politico, con un'aristocrazia senza nessun effettivo potere e addomesticata nelle cariche di corte, una borghesia agraria, lieta di esser la meno tassata d'Europa, un ceto medio pago di avviare alle cariche amministrative i propri figli ed infine una plebe rurale e cittadina a cui fosse garantito il lato materiale dell'esistenza. (cap. 7, p. 122)
Ne nasceva così la questione meridionale: segno del disequilibrio determinato dall'improvvisa annessione e segno ad un tempo della mancanza di una classe dirigente meridionale che sapesse da un lato rapidamente italianizzarsi e dall'altro imporre rispetto per l'indipendenza spirituale, morale ed economica del Mezzogiorno d'Italia. Essa era destinata a divenire, attraverso l'opera di eminenti meridionalisti, un problema tale da investire tutto il paese e non soltanto la classe dirigente meridionale; a divenire, cioè, uno dei più importanti problemi nazionali.
Note
[modifica]Bibliografia
[modifica]- Ruggero Moscati, I Borboni d'Italia, Roma Newton Compton, 1973.
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