Ultime grida dalla savana

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Ultime grida dalla savana

Immagine Ultime grida della savana (1975) - Pit Dernitz 3.png.
Titolo originale

Ultime grida dalla savana

Lingua originale ita
Paese Italia
Anno 1975
Genere Documentario
Regia Antonio Climati, Mario Morra
Soggetto Antonio Climati, Mario Morra
Sceneggiatura Antonio Climati, Mario Morra
Produttore Antonio Climati, Mario Morra
Doppiatori italiani
Note


Ultime grida dalla savana, film del 1975, diretto da Antonio Climati e Mario Morra.

Incipit[modifica]

Mi chiamo Morgan João e sono nato qui come questo varón di cervi, in Patagonia. Il mio lavoro è la caccia. Io mato i cervi per vivere. No, non voglio alterare l'equilibrio della natura. Non voglio la destrucción dell'ambiente. Voglio solo un cervo. Questo. [...] Mi fa pena? Perché? È solo morto un cervo. Come si dice qui, qualcosa muore sempre e sempre qualcosa nasce. (Morgan João)

Citazioni[modifica]

  • Sì, la natura impone la violenza, e chi preferisce vivere senza prevalere e senza uccidere è costretto ad abitare nell'ombra protettiva delle foreste. (Narratore)
  • È un cucciolo di leopardo e gli piace giocare. Ma il suo è il gioco della morte, irrimediabile e senza allegria. (Narratore)
  • Trafiggere un canguro scagliando una lancia col propulsore è già un'impresa straordinaria, ma abbattere un pipistrello gigante con il boomerang rasenta l'impossibile. La volpe volante, quasi un metro d'apertura alare, ha una centrale ultrasonica nelle orecchie che le permette di evitare con l'incalcolabile velocità di otto millesimi di secondo un oggetto che cerchi di colpirla. Eppure, contro un simile bersaglio gli aborigeni di Cape Melville nel Queensland sanno adoperare un arma dalla traiettoria imprevedibile come il boomerang. (Narratore)
  • Le gazzelle di Grant o i bufali australiani sono molto più veloci dell'uomo, ma non riescono ad evitare che il loro persecutore giunga a portata di lancio. Il grande vantaggio dell'uomo sugli animali è che si associa, che caccia in gruppo. In questo caso, gli si alterna nella corsa con i compagni fino a fiaccare la resistenza dei bufali per spingerli terrorizzati verso agguati definitivi. (Narratore)
  • L'uomo ispira spavento negli animali e lo choc spesso li uccide prima della lancia. Questo può venire ai gibbosi cogoni delle pianure etiopiche, ai lanosi waterbuck estafricani, agli oryx dalle corna a spada e perfino ai colossali elefanti del Congo. Ma l'uomo sa di far paura? Be', forse no. Perché, stranamente, l'uomo, mentre stermina gli animali, sogna nel tempo stesso di essere amato come nel vecchio mito dell'Eden. (Narratore)
  • Gli uomini non si contentano di fare le cose. Vogliono che abbiano un significato. Così, non si contentano di succhiare il sangue ancora fluido e tiepido dalle vene di una femmina d'antilope morente. Vogliono che sia una operazione religiosa, rituale. Altrimenti, come si farebbe a distinguersi dagli altri animali che fanno le cose in maniera insensata? (Narratore)
  • Religiosi sono i gesti che accompagnano la cottura della preda, religioso il cacciatore di fronte alla sua vittima. Per gli aborigeni australiani addirittura gli uomini morti si reincarnano negli animali, e far finta di ricoprirli con manciate di polvere vuol dire tornare a seppellirli e placarne l'ira per la morte rinnovata. Insomma, la caccia è sacra. Cioè, significa altra cosa da quello che è. In questa capacità simbolica sta la superiorità degli uomini di fronte agli animali, che cacciano semplicemente per sfamarsi. (Narratore)
  • La caccia beninteso è sacra presso i popoli che ne vivono. Sarebbe strano che non lo fosse, vista la tendenza dell'uomo a rendere sacro tutto quello che lo riguarda. (Narratore)
  • Rambouillet, Francia. Ogni anno, si celebra una caccia che ha l'aria di risalire ai galli, primi abitanti della Francia. È infatti una cerimonia più simile a un rito pagano che ad un avvenimento sportivo. Com'è noto, i galli sacrificavano un cervo alle divinità druidiche affinché durante l'anno favorissero i cacciatori. Ma i galli avevano una giustificazione. Lo facevano per vivere. (Narratore)
  • Sì, i volpofili fanno bene a lottare. Negli ultimi venti anni centinaia di specie animale si sono estinte, ma fanno male a prendersela solo con i cacciatori. Sovrappopolazione e industrializzazione sono i flagelli dell'apocalisse zoologica. I veri cacciatori parlano sempre più di salvare e meno di uccidere. Rimpiangono il passato, commemorano gli adorati assassinati, i cari nemici estinti e perduti per sempre. (Narratore)
  • Eccolo il condor. Anche lui è uno di quelli in via d'estinzione. D'accordo che è solo un avvoltoio, ma sta scomparendo, e gli animali, come i pezzi d'antiquariato, più rari sono e più diventano preziosi. (Narratore)
  • Con un entusiasmo quasi infantile, gli uomini si pentono. Ma è tardi. Cercano di salvare gli animali che fino a ieri hanno selvaggiamente perseguitato. Con lo stesso fervore con cui un tempo li massacravano, oggi bandiscono crociate scientifiche a favore degli abitanti della savana e della foresta. Si tratta di rimontare un processo forse irreversibile, di far di nuovo moltiplicare bestie rarissime come l'orso dell'Alaska, il rinoceronte bianco dell'est Africa, l'elefante dell'Alto Volta. È un'impresa patetica e disperata. (Narratore)
  • La sostituzione dei proiettili letali con i sonniferi venefici sembra significare che l'uomo è incapace di avere, almeno oggi, un rapporto giusto con gli animali. Forse non l'ha mai avuto. (Narratore)
  • La vecchia biocenosi, cioè l'antico modo di manipolare gli elementi della natura e di stabilire un equilibrio col mondo circostante, è finita in malora, e ci troviamo di fronte a problemi nuovi e non sempre piacevoli. I costumi si trasformano ma il ricordo atavico rimane. Il contrasto tra quello che siamo stati e quello che siamo suscita nevrosi angosciose e il conseguente bisogno di sfuggire la realtà. (Narratore)
  • Le prime società umane erano piccole comunità di cacciatori, e furono loro a stabilire le leggi della convivenza, la pulizia degli accampamenti, la recinzione dell'abitato, la divisione dei sessi, l'astinenza sessuale per periodi o per età, le regole di comportamento per i giovani, la riservatezza nel modo e nel luogo dove accoppiarsi o dove svolgere le più intime attività fisiologiche, sono tutte cose che risalgono a quelle prime comunità di cacciatori. Se questo è vero come sembra che sia vero, allora si spiega che con la fine della caccia, siano finiti anche tanti costumi e usi legati alla caccia. (Narratore)
  • D'accordo, il tempo in cui si andava a caccia per sopravvivere è finito. Ma, per esempio, per nutrire i ragazzi del Wight si uccidono giornalmente novecento manzi, duecentomila porci, seimila pecore, trentottomila polli. D'altra parte, ogni secondo nel mondo si abbattono milioni di animali, ma nessuno oggi ha mai visto morire la preda di cui si nutre. Il cacciatore inconscio, che è l'uomo delle grandi città, non concede alle sue vittime nemmeno la possibilità di tentare la fuga, di morire nel sole. Egli alleva per uccidere. (Narratore)
  • Fino a ieri erano un popolo di cacciatori, poi il petrolio ha travolto le fragili strutture della loro società fondata sulla caccia e la pesca, e l'eschimese si è ammalato di malinconia. L'uomo di Point Barrow muore di nevrosi e di alcolismo. Come salvarlo? Ma è semplice: tornando a farlo cacciare. Così almeno hanno sentenziato gli psicanalisti americani. Si sentono depressi? Sparino qualche colpo prima di cena. Sono afflitti dalla noia? Facciano esplodere mezza dozzina di cartucce dopo i pasti. La caccia sarebbe dunque una terapia. Uccidere un animale potrebbe riequilibrare lo stato mentale dell'uccisore. Ma questo genere di cura, come tante medicine, serve più a coloro che la prescrivono, se non altro come alibi per coloro che la seguono. Così, gli eschimesi, docili e pazienti, sollevano gli occhi nel cielo di cristallo e attendono l'arrivo delle anatre dalle piume di seta, gli edredoni, e sparano, ma senza uccidere la loro malinconia. (Narratore)
  • Si calcola che in Africa vengono abbattuti seimila elefanti, un milionequattrocentomila zebre, un milioneseicentomila bufali, seimilionecinquecentomila antilopi e così via. Il continente nero sta diventando un ossario, ma i lobi, anche conosciuti come "uomini scheletro" a causa delle pitture rituali, si illudono di aver trovato un rimedio al depauperamento del patrimonio faunistico del quale vivono. Più o meno, all'epoca del cambio di stagione, questi cacciatori scendono nelle acque del Volta Nero e celebrano il banguelà, la cerimonia di vita. Dopo essersi eccitati con la danza, i guerrieri chiudono il pene nel neamaburu, astuccio magico che simboleggia le specie animali alle quali si intende donare nuova linfa di vita. Il significato è semplice come l'atto: alla fine della cerimonia, il seme ottenuto mediante la masturbazione rituale verrà gettato nel fiume. Gli animali lo berranno e si moltiplicheranno sulle piste dell'Alto Volta. (Narratore)
  • Si direbbe che gli orsi [mentre pescano per salmoni] si divertono e noi sorridiamo, non facendo caso alla crudeltà della scena. In realtà siamo condizionati dal modo con cui un certo cinema ci ha abituato a guardare la natura, e queste immagini ne sono un esempio. Esse rappresentano il tipo di documentario convenzionale girato secondo le regole del manuale del perfetto documentarista alla Walt Disney, regole che possono essere riassunte così: accentuare gli aspetti romantici della natura, umanizzare gli animali rendendoli rassicuranti e simpatici, creare un paradiso consumista da cui sia bandita ogni scena di sangue. "Ma... e i pesci?". Il bambino è intervenuto come il suo coetaneo della favola di Andersen a smascherare un'ipocrisia. Infatti, per i pesci non c'è scritto nulla nel manuale. Eppure i pesci hanno diritto alla vita. Questo è ancora un effetto del condizionamento cinematografico, la discriminazione razziale delle specie animali: certi animali, per esempio i pesci, possono essere straziati e uccisi, certi altri no. (Narratore)
  • Il cinghiale è pur sempre selvaggina. Il puma delle Ande invece è un nemico. Il cane lo odia. Quel gatto troppo cresciuto assale le greggi, osa persino attaccare il suo padrone. Tale è la rabbia che il dogo, il veltro peruviano, dimentica di non sapersi arrampicare sugli alberi. (Narratore)
  • I campesinos delle Ande credono che il puma non può essere abbattuto a colpi di fucile. La sua anima trasmigrerebbe in un nuovo corpo. Il puma tornerebbe per vendicarsi. L'arma sarà dunque il coltello, con la lama debitamente bagnata dal sangue di una delle vittime della belva, e bisogna piantarlo nel cuore con un colpo solo. Quante precauzioni metafisiche per ammazzare un puma! (Narratore)
  • L'arma è il curaro. Bastano poche gocce per paralizzare i centri motori di un aglass. Brutta morte, ma perché provare tanta pietà per una scimmia? Cos'è un aglass? dicono i guarnachi, se non una bestia che solo per caso somiglia ad un uomo con pelliccia e coda? Che cos'è un indio? dicono i cacciatori d'uomini, se non una scimmia senza pelo e senza coda? Perché anche gli indios vengono cacciati. Ogni anno circa settemilacinquecento. Sono le cifre di un genocidio che padre Alfonso Ximenes ha denunciato all'Onu. La ragione? Perché gli indios impediscono il progresso, perché con le cerbottane al curaro uccidono piantatori, tecnici o missionari. Occorre dunque stanarli e ammazzarli come bestie nocive. Anche questa è caccia, o perlomeno una estensione dei metodi della caccia nel campo dei rapporti umani. Questa estensione normalmente si chiama guerra. (Narratore)
  • Uccidere il proprio simile è molto umano. Seviziarlo, torturarlo, sfregiarlo e oltraggiarlo? Soltanto umano. Ridere e rallegrarsi della sofferenza e della sua morte? Umanissimo. (Narratore)
  • L'orango è pur sempre qui, né in cielo né in terra, nel limbo formato dai rami della foresta. Timido vegetariano, vive la giornata pensando solo a mangiare e evitare di essere mangiato. E tutto andrebbe relativamente bene per lui se purtroppo non ci fossero gli zoo, ansiosi di mettere in mostra il cosiddetto esemplare di una specie che si va estinguendo. (Narratore)
  • Forse non c'è mai stata pacifica convivenza tra gli uomini e gli animali. Resta il fatto che l'uomo sente il bisogno di convivere con l'animale, addomesticato o no. Perché questo? Perché l'animale tiene compagnia. Sembra poco, ed è invece tutto. (Narratore)

Explicit[modifica]

  • Si chiama Erik Zimen. Appartiene a quella non folta schiera di naturalisti, di ecologi o uomini semplici che tentono di salvare il salvabile. Zimen ha scelto i lupi come disereditati da proteggere. Ha imparato i loro modi di esprimersi, si è trasferito nel loro territorio e ha ottenuto dal governo della Baviera l'autorizzazione a convivere con loro, a giovarsi della loro compagnia. Forse la leggenda antropocentrica di San Francesco andrebbe oggi modificata, nel senso che l'uomo ha più bisogno degli animali di quanto gli animali hanno bisogno dell'uomo. (Narratore)

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