Vittorio Cian

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Vittorio Cian

Vittorio Cian (1862 – 1951), critico letterario e politico italiano.

Come leggo?[modifica]

  • Anzitutto, una dichiarazione. Credo d'essere un lettore piuttosto irregolare, cioè, non troppo metodico e tutt'altro che schiavo di abitudini rigorose; ma nella mia irregolarità, abbastanza normale, perché punto diverso, se non m'inganno, dalla quasi totalità degli studiosi. Comunque, ecco le mie confessioni. Leggo nei modi più svariati, a seconda dei momenti e delle occasioni, dello stato d'animo e dei nervi e quindi dell'umore; a seconda delle stagioni, nonché delle condizioni contingenti della vita, per le quali mi trovo ora in città, ora in campagna, oggi in treno e domani nel mio studio, oppure in una sala più o meno riservata d'una biblioteca pubblica. Svariati, infine, a seconda della materia leggibile, quella appunto che più di ogni altra cosa forse decide del modo e, direi, del ritmo della lettura, determinando il grado della tensione intellettuale, cioè dell'attenzione e del raccoglimento adeguato, segnandone ancora l'andatura, che può essere un passo lentissimo, come una corsa od un volo. Ma tutto questo penso che càpiti, press'a poco, ad ogni studioso. (p. 74)
  • [...] durante i mesi dell'anno scolastico le mie letture hanno un carattere che direi essenzialmente «professionale», il quale m'impone un certo modo di leggere, in quanto si tratta di libri attinenti o al corso universitario o alle tesi da esaminare, agli articoli da stendere o ai lavori sul telaio, al materiale librario indispensabile ad assolvere quell'altro dovere di «tenersi al corrente». In questi casi leggo come può leggere uno studioso incalzato dalla necessità tirannica di saggiare alla lesta, con uno sforzo non piacevole dei nervi e del cervello, la carta stampata che la posta gli rovescia ogni giorno sul tavolo di direttore del Giornale storico, d'insegnante e un po', anche, di uomo politico: libri, opuscoli, riviste, giornali, che reclamano il loro diritto ad una lettura, e sia pure che questa spesso si riduca ad un'occhiata furtiva e fuggitiva, oppure ad un melanconico rinvio a tempi migliori. (p. 75)
  • I tempi migliori, quelli della vera lettura, serena e raccolta, disinteressata e, quasi direi, spensierata, [sono] i mesi delle vacanze, quando mi è dato di leggere dinnanzi ad una finestra spalancata, che mi concede, in un silenzio delizioso, la vista incantevole di uno sfondo verde in basso e d'uno azzurro in alto, e, fra i due, la linea ondulata della montagna selvosa. Ancora più gradita assaporo in quei giorni la lettura, se fatta con voluttuosa lentezza, all'aperto, sull'erba e all'ombra amica dei castagni o dei due vecchi pini domestici. Ricordi e speranze... (pp. 75-76)

La coltura e l'italianità di Venezia nel Rinascimento[modifica]

  • Non so in quale altra città d'Italia fosse, come nella Venezia del Rinascimento, curata l' istruzione popolare anche obbligatoria – qui prima forse che altrove divenuta laica – e istituti svariati di beneficenza e di previdenza provvedessero al benessere ed all'elevamento della cittadinanza tutta. Qui una scuola particolare veniva istituita a formare i giovani destinati alla Cancelleria ducale; qui frequenti i lasciti per l' istituzione di borse di studio, a cura di nobili veneziani. (p. 24)
  • L'accusa che non a torto si suol movere alla coltura umanistica italiana, di avere straniato le lettere dalla realtà, di averne sminuita la potenza originale, di avere sottratto tante forze alla vita anche politica, stremandole in vani conati di estetismo e di mimetismo letterario, quest'accusa non tocca Venezia che in minima parte. Quello che altrove fu regola, qui fu eccezione. I nuovi studi che in altre regioni destarono fanatismi e feticismi esiziali, qui erano apprezzati solo in misura dei benefìci che potevano arrecare alla patria. L'umanismo professionale, che era fine a se stesso o mezzo di lucro, qui non esisteva od era un caso eccezionalissimo. (p. 27)
  • Girolamo Donato, ritornando da Roma, dov'era stato ambasciatore a Giulio II, s'indugia per via a trascrivere antiche epigrafi romane; ma allorquando un pontefice, forse Alessandro VI, si permette di chiedergli in tono ironico, donde i Veneziani avessero ricevuto il privilegio dell'impero sul mare Adriatico, egli, l'umanista profondo, l'oratore eloquente, non esiterà a rimbeccare con veneziana arguzia: "Mi mostri la Santità vostra lo strumento del patrimonio di S. Pietro, e a tergo ci vedrà registrata la concessione fatta ai Veneziani del dominio loro sull'Adriatico". (p. 30)

Voci del Risorgimento[modifica]

  • [...] il Cavour fu ben diverso da quello che piacque di dipingerselo ad alcuni, come il Brofferio, il quale osò affermare che «di lettere non aveva traccia». Infatti quanta larghezza fosse in quella mente poderosa, aperta ad ogni senso di modernità e di coltura, basterebbe ad attestarci un aneddoto che rammento qui perché pochissimo noto. Nell'aprile del '60, recatosi a visitare la biblioteca Mediceo-Laurenziana di Firenze, dinanzi a tante meraviglie del nostro classicismo, così dell'antico, come del Rinascimento, il grande ministro uscì in questa sentenza che dedicò ai novissimi riformatori degli studî: «Il latino è come il pane che dà consistenza ad ogni alimento di dignità nazionale, se dobbiamo essere razza latina». (p. 4)
  • La veste o il carattere sacerdotale, l'aureola dell'esilio, la fama dell'eloquenza, della dottrina, della virtù austera, gli echi risorgenti del Primato, tutto conferiva a far di lui [Vincenzo Gioberti], in quel suo pellegrinaggio [per le città della penisola], come un missus dominicus, un apostolo della più santa delle cause, il predicatore della più benedetta fra le crociate, il pacificatore per la più nobile delle guerre. (p. 8)
  • Le qualità straordinarie, che possedette [Vincenzo Gioberti], spiegano la gloria non caduca che circondò e circonda il suo nome; i difetti gravi che rivelò, spiegano quella severità, grande sino all'ingiustizia, onde taluno giudica ancor oggi, come dissi più addietro, la sua opera d'uomo politico. Certo, questo possente apostolo della causa italiana alla gagliardia dell'ingegno, della fantasia, dell'eloquenza, dell'astrazione filosofica non ebbe – né poteva avere – pari le qualità pratiche, dell'uomo d'azione e di stato, il senso della realtà che culminarono invece, insuperabilmente, in Camillo Cavour. Si lasciò guidare o fuorviare, talvolta, dal sentimento, dalla stessa sua fantasia e dall'orgoglio, che lo rendeva allora rigido e intollerante, quasi per un abito teologico della sua mente. Ma di contro a questi difetti, sta, oltre il resto, una passione che lo dominò tutto quanto, che fu la sua forza e la sua vita, che lo purifica e innalza ai nostri occhi, la passione della patria. (p. 10)

Bibliografia[modifica]

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