Alessandro Duran

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Alessandro Duran (1965 - vivente), ex pugile ed allenatore di pugilato italiano.

Citazioni di Alessandro Duran[modifica]

  • Avevo 18 anni, appena 8 incontri da dilettante alle spalle, e non potevo combattere da pro. Siamo andati contro tutto e tutti. Io e papà abbiamo preso l'areo per l'America. Abbiamo passato 40 giorni a Chicago a casa dei nonni di mamma. Mi allenavo in una palestra che si trovava nella zona più brutta della città. Cinquanta pugili che si picchiavano sognando il successo. La fame la toccavi con mano, quando vedevi sparring che appena presi i 5 dollari per due riprese scappavano a comprarsi qualcosa da mangiare. C'era l'anima della boxe lì dentro.[1]
  • I giorni che seguono una sconfitta sono un tormento. Nella boxe non sai mai quando avrai la prossima occasione. Non c'è un calendario a garantire le tue ambizioni. Per uscire da questa situazione devi fare appello a tutto il tuo orgoglio, alla forza morale. L'intelligenza deve aiutarti a capire dove hai sbagliato o ad ammettere che chi ti ha battuto è stato migliore di te.[1]
  • Da papà ho imparato il significato della parola lealtà, a non avere paura di dire sempre quello che penso. Mi ha lasciato un grande rispetto per questo sport. È stato un atleta serio: in attività non l'ho mai visto andare a letto dopo le 22.30, entrare in un bar, saltare un allenamento.[1]
  • Quando combatteva papà era molto più difficile arrivare al mondiale: c'erano solo otto categorie e le sigle non erano così tante come oggi. Ma allora si guadagnavano anche molti più soldi. Papà, anche senza conquistare il titolo, ha incassato in carriera dieci volte più di noi.[1]
  • [Sulle qualità necessarie ad un pugilatore] Il coraggio. Ci sono bulletti che vengono in palestra e sul ring scappano come autentici fifoni. Ma attenzione: il coraggio deve sempre essere accompagnato dalla ragione. Altrimenti diventa stupidità.
  • La boxe è uno sport per uomini duri, dall'altra parte c'è un tizio che ti vuole picchiare e tu non devi permetterglielo. Chi non ha paura, diciamo meglio: rispetto per quello che fa e per il rivale che affronta, vuole dire che è arrivato al capolinea. Devi avere rispetto per il tuo avversario, così lo avrai anche per te stesso.[1]
  • Il ring è come la vita: alla fine devi rendere conto di quello che hai fatto. Solo che nella vita non sai quando dovrai farlo, nel pugilato dopo 36 minuti c'è un giudizio a cui non puoi sfuggire.[1]
  • Io ho sempre pensato che il successo di uno sport dipenda molto dal traino di un campione. Tomba lo è stato per lo sci, Valentino Rossi per il motociclismo. Insomma, a mio avviso, lasciare i professionisti è stata una scelta discutibile.[2]
  • [A proposito di Simona Galassi] Ecco, per tornare alle considerazioni di prima, mi chiedo perché un personaggio del genere non sia stato valorizzato a livello mediatico al pari di altre sportive ben più note quali la Vezzali o la Cagnotto.[2]
  • Quando combattevo io le palestre di pugilato erano frequentate solo da pugili professionisti. [...] In questi anni abbiamo assistito ad una vera e propria esplosione a livello amatoriale della boxe che non si è tradotta però in un miglioramento della situazione a livello professionistico. Questo vuol dire che non si è lavorato al meglio sul piano della comunicazione.[2]
  • Una volta si poteva vivere, anche bene, di sola boxe. Ora no e questo non è giusto. In Italia il pugile è costretto a fare un altro lavoro per mangiare e troppo spesso deve fare il manager di se stesso, trovando gli sponsor e occupandosi della vendita dei biglietti. Mi sembra francamente troppo. Per non parlare delle borse che guadagnano. [2]
  • Oggi si guarda troppo solo al proprio orticello, senza considerare che una volta questo orticello era ricco ed appetibile, ora è solo un piccolo campo di sopravvivenza.[2]
  • Mio padre mi aveva insegnato a vivere fuori dal ring e mi ha sempre detto che nel momento in cui si diventa campioni si vince un assegno in bianco. Sei tu con la tua bravura, con la tua serietà e con le tue vittorie a decidere la cifra di quell'assegno.[3]
  • In seconda elementare la maestra ci diede un tema: cosa vorresti fare da grande? Io risposi il pugile. E raccontai del mio sogno di diventare campione del mondo dei pesi medi. Lo sono diventato dei pesi welter, con qualche chilo in meno, ma sono riuscito a diventarlo. Sono un uomo fortunato: ho fatto il lavoro che volevo fare. [3]
  • Dubbi sull'interrompere la carriera non li ho mai avuti, ma è stata dura la squalifica di 18 mesi. Il motivo? In Italia l'età per diventare professionisti era 21 anni, io, invece, ne avevo 18 e andai a combattere negli Stati Uniti. È stato uno stimolo in più: dimostrare a una federazione e uno Stato che quel regolamento era assurdo.[3]
  • Il pugilato è uno sport per pochi. Può essere per tutti l'allenamento, quando picchi un sacco o sulle mani. Picchiare un avversario che a sua volta vuole picchiarti è un'altra cosa. Diventa tutto un altro sport.[3]
  • [A proposito del verdetto dell'incontro Joshua-Cammarelle, Olimpiadi di Londra 2012] Ho visto furti peggiori. La questione è un'altra però. Perché Joshua porta novantamila persone a Wembley muovendo milioni di dollari e Cammarelle continua a fare il poliziotto? Questa è la domanda che faccio al pugilato italiano. [...] Cammarelle poteva diventare campione del mondo, ma si è accontentato. Abbiamo una mentalità diversa.[3]

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