Carlo Formichi

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Carlo Formichi

Carlo Formichi (1871 – 1943), orientalista italiano.

Citazioni di Carlo Formichi[modifica]

  • [Su Gandhi] Audace idealista, che ci trova consenzienti fino a un certo punto, ma ci obbliga poi a lasciarlo solo nel suo troppo sperare e volere.[1]
  • Noi Italiani meno degli altri possiamo aprir l'animo ai facili entusiasmi quando si tratti di pronunciare un giudizio sulla letteratura d'un altro popolo. Noi che abbiamo dato al mondo poeti come Dante, Petrarca, Ariosto, Tasso, Parini, Alfieri, Monti, Foscolo e Leopardi e prosatori dell'altezza di Boccaccio, Macchiavelli, Guicciardini, Sarpi, Gozzi e Manzoni, noi che abbiamo in Firenze quel tempio sacrato alla gloria imperitura dell'arte e del pensiero italiano: Santa Croce, noi non possiamo eccedere nella ammirazione e siamo di diritto giudici severi e competenti quando un'altra nazione ne chieda il nostro parere sul valore dei suoi letterati e sulla parte che rappresenta nella storia della civiltà la sua letteratura.[2]

Apologia del Buddhismo[modifica]

Incipit[modifica]

Un grande poeta inglese ha detto: «tutte le religioni sono buone le quali fanno buoni gli uomini; ed il modo in cui un individuo dovrebbe provare che il suo metodo di venerare Dio è il migliore, è di essere lui stesso migliore di tutti gli altri uomini».
Questa sentenza dello Shelley è inoppugnabile. A che valgono codici di sublimi precetti, templi sontuosi; ed eletti riti, se lasciano cattivo l'uomo come lo trovano? In tanto un cristiano è superiore ad un maomettano in quanto, venuti entrambi alla resa dei conti morali, il primo può vantare di faccia al secondo, tante più opere buone, tanta più umanità e carità, maggiore sentimento del dovere e spirito d'abnegazione, e via dicendo. Per la bontà d'una religione altra pietra di paragone non c'è.

Citazioni[modifica]

  • L'elemento morale [di una religione] è certamente il più importante, ma non è il solo. In questo doloroso passaggio transitorio che è la vita, benemerita indubbiamente quella religione che offre all'uomo una speranza, un conforto, un sostegno! Tanto più che l'uomo non sa, non può esser buono, se non vede la luce d'un faro, la promessa d'un guiderdone, una meta radiosa. Una religione pessimistica, sconsolata, non è una religione. (cap. I, p. 10)
  • [...] tutti coloro che credono il Buddhismo inconciliabile con le necessità sociali, ignorano i dati di fatto allegati, e soprattutto non sanno che uno degli imperi più prosperi e felici della terra, e forse il più prospero e felice, scelse il Buddhismo come religione dello Stato e cercò di propagarlo fra le lontane genti. L'impero di Açoka che durò dal 273 al 232 av. C. è una delle meraviglie della storia mondiale. (cap. V, p. 82)
  • L'India ha pure avuto il suo grande genio politico nella persona di Candragupta il quale, morto Alessandro in Babilonia nel 323 av. C., cacciò via i Macedoni dal suolo indiano e riuscì a fondare un formidabile impero sulla base d'ingenti forze militari e d'una perfetta amministrazione. (cap. V, p. 84)

Il pensiero religioso nell'India prima del Bhudda[modifica]

  • Il Rigveda è il documento letterario più antico dell'India, anzi secondo Max Müller, gl'inni sacri che esso contiene non hanno rivale nella letteratura mondiale, e la loro conservazione ben può chiamarsi miracolosa. In altri termini, il Rigveda è il libro più vetusto non soltanto dell'India, ma del mondo ariano, e, in un certo senso, di tutta quanta l'umanità. (cap. I, p. 1)
  • Il più popolare degli dei vedici, il dio, diremo cosi, nazionale, è certamente Indra. Dai numerosi inni che lo magnificano egli appare il largitore dei beni più ambiti: dell'acqua fecondatrice, della luce, della vittoria sui nemici. Armato di folgore, inebriato di Soma[3], egli ripetutamente sconfigge un maligno drago, Vritra, simbolo evidente della siccità. Luce, sole, aurora sono la conquista d'Indra, e così pure gli si attribuisce d'avere liberato dal nascondiglio certe vacche che i Pani, demoni personificanti l'avarizia, tenevano prigioniere. Della gente aria che lotta contro i Dasyu, o aborigeni dalla pelle nera, dal naso camuso, dalla favella incomprensibile e dall'empio culto, Indra è l'alleato più saldo e fedele. (cap. I, p. 37)
  • [...] Indra non è ammirabile per altezza morale: dona solo a chi gli dona ed è un incorreggibile bevitor di Soma[3] in quanto che ne bevve fin dal primo giorno della sua nascita e se ne empie a volte l'epa in modo da trasformarla in un lago e da dare a sé stesso le sensazioni dello studente tedesco della ben nota canzonetta: «Gerade aus dem Wirtshaus komm'ich heraus...[4]» (cap. I, pp. 37-38)
  • Per quanto antropomorfizzato e imbarbarito, Indra resta sempre per eccellenza il dio armato di folgore che costringe un malefico drago a lasciar libera l'acqua fecondatrice della terra assetata. Si alluda all'acqua piovana o a quella delle fiumane irrigatrici, poco importa. (cap. I, p. 38)
  • Un'ara vedica senza fuoco è inconcepibile; anzi, una religione vedica senza Agni è inconcepibile. (cap. I, p. 40)
  • Agni, il dio che gli uomini hanno a portata di mano, che suscitano, sempre che vogliono, dalla selce e più frequentemente dall'attrito di due pezzi di legno, fa da messaggiero fra la terra ed il cielo, e, consumando con le sue fiamme l'offerta, la trasporta in su nel suo fumo che si inalza a raggiungere la sede dei celesti. Ecco perché Agni è chiamato il messaggiero, il portatore delle oblazioni, il sacerdote; ecco perché di lui si dice che appena nato divora i suoi genitori ossia i due pezzi di legno dall'attrito dei quali si è sprigionato; ecco perché lo si chiama giovane e vecchio ad un tempo, il rinascente ogni mattina per la pratica sacrificale. (cap. I, pp. 40-41)
  • Dove non è Agni? Egli s'annida dappertutto, sotto forma di calore animale, nell'uomo e nelle bestie; sotto forma di folgore, nella nuvola; sotto forma di luce, nel sole. Agni è bensì un dio terrestre, ma anche atmosferico e celeste, e questa sua qualità di prendere le più diverse forme rimanendo sostanzialmente lo stesso, sarà, come vedremo, una spinta al pensiero vedico per passare dalla concezione politeistica a quella panteistica. (cap. I, p. 41)

Il Sanscrito considerato dal punto di vista della lingua e della letteratura[modifica]

  • [...] il Sanscrito, vuoi lo si consideri come lingua, vuoi come letteratura, si appresenta ai nostri Umanisti come il miglior complemento degli studi del Greco e del Latino, però più che lingua orientale il Sanscrito dovrebbe chiamarsi la lingua classica per eccellenza. (p. 3)
  • Dal Bopp fino al Curtius il codice più attendibile ed autorevole fu il Sanscrito come quello che aveva dato la prima scintilla, il primo impulso alla nuova scienza [della ricostruzione critica del testo di uno scrittore del quale si abbiano parecchi codici manoscritti]. Il Sanscrito quindi venne messo a base di ogni indagine glottologica e morfologica e fu chiamato la sorella maggiore delle lingue indo-europee, quella che più di ogni altra aveva conservato puro il tipo di famiglia. E in massima non si aveva torto. La trasparenza di una lingua, abbiam detto, è prova della sua antichità, e non v'è dubbio che tra gl'idiomi indo-europei il Sanscrito è quello che meglio di ogni altro si lascia analizzare e, per cosi dire, anatomizzare. (p. 6)
  • È stato osservato che vi è sempre un'armonica rispondenza tra l'indole, i pensieri, la religione d'un popolo e la natura in mezzo alla quale esso vive. Nell'Iran quel brusco passaggio dai calori tropicali al freddo più intenso, quell'avvicendarsi quasi repentino di rigogliosa vegetazione e di squallida aridità, trova il suo riscontro in quella fede cosi spiccata in un dio tutto bontà e in uno tutto malizia, in quella lotta accanita, incessante tra il principio del Bene e quello del Male. Il carattere cupo e malinconico dei popoli semitici, le loro divinità terribili ed implacabili, i loro affetti eccessivi e violenti, richiamano alla mente quei loro vastissimi deserti arsi dal sole, spaventevolmente silenziosi e solo echeggianti del ruggito dei leoni. E chi non scorge una mirabile armonia tra le perfette produzioni dell'ingegno greco e quelle vaghe e gioconde colline dell'Ellade, quelle insenature di mare, quel clima mite, quel cielo purissimo? Del pari, nei pensieri del popolo indiano e nelle sue aspirazioni, troviamo una sublimità che ben si accorda con le vette dello Himâlaya, le più alte del globo; e l'esuberanza e fecondità di fantasia dei poeti indiani sembrano il riflesso di quel suolo ridondante di germi, fertilizzato da violente piogge e dall'ardore di un sole equatoriale. (pp. 9-10)

Note[modifica]

  1. Citato in Gianni Sofri, Gandhi in Italia, Il Mulino, Bologna, 1988, p. 129. ISBN 88-15-01768-2
  2. Da II. Il popolo inglese, la sua lingua, la sua letteratura, Prolusioni lette nella Regia Università di Pisa, Enrico Spoerri Editore, Pisa, 1904, p. 33.
  3. a b Succo ricavato da una pianta oggetto di offerta sacrificale nella cultura vedica.
  4. Sono appena uscito dalla locanda...

Bibliografia[modifica]

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