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Ray Bradbury

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Ray Bradbury nel 1975

Ray Douglas Bradbury (1920 – 2012), scrittore e sceneggiatore statunitense.

Citazioni di Ray Bradbury

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  • Vivere nel rischio significa saltare da uno strapiombo e costruirsi le ali mentre si precipita. (da The Brown Daily Herald, Providence, 24 marzo 1995)
  • Fai doppia fatica a essere un agricoltore che a essere il suo maiale. (da Il popolo dell'autunno)
  • Ho imparato, nei miei viaggi, che se resto un giorno senza scrivere comincio ad agitarmi. Due giorni e mi vengono dei tremiti. Tre giorni e do segni di pazzia. Quattro e potrei benissimo essere un maiale che si rotola nel fango. (da Lo zen e l'arte della scrittura, traduzione di Paolo Nori e Salim Catrina, DeriveApprodi)

Da The Harryhausen Chronicles

Lorac Productions, Inc. & Julian Seddon Films, 1997; sottotitolaggio italiano in materiale bonus, 20 Million Miles to Earth, regia di Nathan Juran, 1957, DVD, Columbia Tristar Home Entertainment, 2002.

  • [Su Ray Harryhausen] Era pazzo di The Lost World e King Kong, tanto quanto me. Stringemmo un patto: diventeremo vecchi, ma non cresceremo mai. Rimarremo diciottenni, e ameremo per sempre i dinosauri.
  • [Su Ray Harryhausen] Imparammo entrambi presto a non dar retta agli altri, a concentrarsi sulla passione, a bruciare con lo sguardo, a diventare il dinosauro.
  • [Su Il risveglio del dinosauro] Il produttore mi diede la sceneggiatura e disse: "Ci serve il tuo aiuto. Magari a riscriverla. Vuoi leggerla?" La lessi. E loro dissero: "Credi di poterci aiutare?" Dissi di sì, ma che, incidentalmente, questa storia era molto simile a un mio raccontino nel Saturday Evening Post, "The Beast from 20,000 Fathoms". Il produttore restò a bocca aperta, e io realizzai che era il mio racconto e che mi stavano chiedendo di riscriverlo. Non dissi nulla. Non feci discussioni.
  • [Su La sirena da nebbia] Camminando in spiaggia, un giorno, giunsi alle rovine del molo di Venice e alla spina dorsale dell'otto volante. Dissi a mia moglie: "Chissà perché il dinosauro è sdraiato in spiaggia". E la notte dopo sentii la sirena della nebbia, mi tirai su, nel letto e pensai, "Il dinosauro in spiaggia sente la sirena, crede sia un altro dinosauro, si getta a nuoto, scopre che è la sirena del faro, la distrugge e poi muore".
  • [Su Scontro di titani] La scena con Medusa è assolutamente incredibile. È la cosa migliore che [Ray Harryhausen] abbia mai fatto. È un capolavoro di illuminazione, di animazione e di drammaturgia.
  • Tutti vogliamo avere potere. Noi, da bambini e da uomini, vogliamo controllare il mondo a modo nostro. Un modo di farlo è di scrivere storie con personaggi in vari ruoli, che vengono distrutti, o crescono. Un altro è di fare come ha fatto Ray.

Cronache Marziane

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Fino a un istante prima era ancora l'inverno dell'Ohio, le porte chiuse, i vetri alle finestre ricoperti di brina, stalattiti di ghiaccio a frangia d'ogni tetto, bimbi che sciavano sui pendii, massaie dondolanti come grandi orsi neri nelle loro pellicce sulle vie gelate.

Citazioni

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  • Le stalattiti di ghiaccio si distaccavano, rovinose, e, in frantumi, si scioglievano rapidamente. Le porte si spalancavano. I vetri delle finestre si alzavano impetuosi. [...] La neve si scioglieva a mostrare la verde antica prateria dell'ultima estate.
  • Da per tutto, come una corrente viva, un fiume della montagna, scendeva l'aria nuova, l'ossigeno esalava dalle piante verdi. Lo potevi vedere fremere in un'alta marea di cristallo. L'ossigeno puro, vergine, verde, freddo ossigeno, trasformava la valle in un delta di fiume.
  • C'era un gran silenzio nella notte fonda di Marte, il silenzio che regna in un pozzo freddo e buio, con le stelle che scintillavano nelle acque dei canali e, respirando in ogni stanza, i bambini si rannicchiavano coi ragni d'oro stretti fra le dita, gli amanti mano nella mano, tramontate le due lune, fredde le torce, deserti gli anfiteatri marmorei.
  • C'era come un odore di Tempo, Nell'aria della notte. Tomàs sorrise all'idea, continuando a rimuginarla. Era una strana idea. E che odore aveva il Tempo, poi? Odorava di polvere, di orologi e di gente. E che suono aveva il Tempo? Faceva un rumore di acque correnti nei recessi bui d'una grotta, di voci querule, di terra che risuonava con un tonfo cavo sui coperchi delle casse, e battere di pioggia. E, per arrivare alle estreme conseguenze: che aspetto aveva il Tempo? Era come neve che cade senza rumore in una camera buia, o come un film muto in un'antica sala cinematografica, cento miliardi di facce cadenti come palloncini di capodanno, giù, sempre più giù, nel nulla. Così il tempo odorava, questo era il rumore che faceva, era così che appariva. E quella notte – Tomàs immerse una mano nel vento fuori della vettura – quella notte tu quasi lo potevi toccare, il Tempo.
  • La pioggia. Intatta, soave, piana, cadeva dall'alto del cielo, elisir preziosissimo, con un sapore di incantesimi, di stelle e d'aria, portando con sé una polvere sottile e pepata che si volatilizzava sulla lingua come uno sherry raro. La pioggia.
  • Erano ingenui soltanto se conveniva esserlo. Smisero di cercare di distruggere tutto, di umiliare tutto. Fusero religione, arte e scienza, perché alla base, la scienza non è che la spiegazione di un miracolo che non riusciamo mai a spiegare e l'arte è un'interpretazione di quel miracolo.

[Ray Bradbury, Cronache Marziane, traduzione di Giorgio Monicelli, Mondadori]

Fahrenheit 451

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Era una gioia appiccare il fuoco.
Era una gioia speciale vedere le cose divorate, vederle annerite, diverse. Con la punta di rame del tubo fra le mani, con quel grosso pitone che sputava il suo cherosene venefico sul mondo, il sangue gli martellava contro le tempie, e le sue mani diventavano le mani di non si sa quale direttore d'orchestra che suonasse tutte le sinfonie fiammeggianti, incendiarie, per far cadere tutti i cenci e le rovine carbonizzate della storia. Col suo elmetto simbolicamente numerato 451 sulla solida testa, con gli occhi tutta una fiamma arancione al pensiero di quanto sarebbe accaduto la prossima volta, l'uomo premette il bottone dell'accensione, e la casa sussultò in una fiammata divorante che prese ad arroventare il cielo vespertino, poi a ingiallirlo e infine ad annerirlo.

Citazioni

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  • È un bel lavoro, sapete. Il lunedì bruciare i luminari della poesia, il mercoledì Melville, il venerdì Whitman, ridurli in cenere e poi bruciare la cenere. È il nostro motto ufficiale. (1966, p. 9)
  • Ritornò a fissare la parete. E come, la faccia di lei, assomigliava inoltre a uno specchio! Impossibile; perché,quante persone hai mai conosciuto che riflettessero la propria luce verso di te? Le persone erano più spesso -cercò un paragone, ne trovò uno nel campo della sua attività professionale- come torce, che si consumavano fiammeggiando fino a spegnersi con un sibilio. (1966, p. 12)
  • No, non era felice. Non era felice. Si ripeté le parole mentalmente. Riconobbe che questa era veramente la situazione. Egli portava la sua felicità come una maschera e quella ragazza se n'era andata per il prato con la maschera e non c'era modo di andare a battere alla sua porta per riaverla. (1966, pp. 13-14)
  • Insomma, il fatto è che questa è l'epoca della carta igienica. Ti soffi il naso su una persona, la appallottoli, la getti via, tiri la catena e lo sciacquone se la porta via, allunghi la mano per un'altra persona, ti soffi, l'appallottoli, tiri la catena. Tutti si soffiano nella giubba del vicino (p. 20)
  • Sono un temperamento asociale, dicono. Non mi mescolo con gli altri. Ed è strano, perché io sono piena di senso sociale, invece. Tutto dipende da che cosa s'intenda per senso sociale, non vi sembra? (Clarisse; p. 33)
  • Dalla nursery all'Università e da questa di nuovo alla nursery. Questo l'andamento intellettuale degli ultimi secoli. (1966, p. 65)
  • Più sport per ognuno, spirito di gruppo, divertimento, svago, distrazioni, e tu così non pensi, no? Organizzare, riorganizzare, superorganizzare super-super-sport! Più vignette umoristiche, più fumetti nei libri! Più illustrazioni, ovunque! La gente assimila sempre meno. Tutti sono sempre più impazienti, più agitati e irrequieti. Le autostrade e le altre strade d'ogni genere sono affollate di gente che va un po' da per tutto, ovunque, ed è come se non andasse in nessun posto. I profughi della benzina, gli erranti del motore a scoppio. (1966, pp. 67-68)
  • Non voleva sapere, per esempio, come una cosa fosse fatta, ma perché la si facesse. Cosa che può essere imbarazzante. Ci si domanda il perché di tante cose, ma guai a continuare: si rischia di condannarsi all'infelicità permanente. (1966, p. 72)
  • Se non vuoi un uomo infelice per motivi politici, non presentargli mai i due aspetti di un problema, o lo tormenterai; dagliene uno solo; meglio ancora, non proporgliene nessuno. (1966, p. 72)
  • Riempi loro i crani di dati non combustibili, imbottiscili di "fatti" al punto che non si possano più muovere tanto son pieni, ma sicuri d'essere "veramente bene informati". Dopo di che avranno la certezza di pensare, la sensazione del movimento, quando in realtà sono fermi come un macigno. E saranno felici, perché fatti di questo genere sono sempre gli stessi. Non dar loro niente di scivoloso e ambiguo come la filosofia o la sociologia affinché possano pescare con questi ami fatti ch'è meglio restino dove si trovano. Con ami simili, pescheranno la malinconia e la tristezza. (1966, p. 73)
  • Compatisci, Montag, compatisci. Non inveire, non insultare; così di recente eri ancora dei loro. Sono tanto sicuri di poter continuare così per un pezzo! Ma non continueranno. Ignorano che tutto ciò è soltanto un'unica immensa meteora, che fa una bella scia fiammeggiante nello spazio, ma prima o poi dovrà colpire il suolo. Vedono soltanto la scia di fiamma, il bagliore, come lo vedevi tu. (1966, p. 123)
  • Capite ora perché i libri sono odiati e temuti? Perché rivelano i pori sulla faccia della vita. La gente comoda vuole soltanto facce di luna piena, di cera, facce senza pori, senza peli, inespressive.
  • Ho diciassette anni e sono pazza. Mio zio dice che queste due cose vanno sempre insieme.
  • «Come si spiega», le disse una volta, presso l'ingresso della sotterranea, «che mi sembra di conoscervi da tanti anni?»
    «Perché io vi voglio bene», ella disse, «e non voglio nulla da voi. E poiché ci conosciamo bene tutt'e due.»
  • Ci deve essere qualcosa di speciale nei libri, delle cose che non possiamo immaginare, per convincere una donna a restare in una casa che brucia. È evidente!
  • Ebbene, non c'era forse come una parete fra lui e Mildred a pensarci bene? Letteralmente, non una parete soltanto, finora, ma tre! E piuttosto costose, anche! E gli zii, le zie, i cugini, i nipoti, maschi e femmine, che vivevano in quelle pareti, il cicalante squadrone di scimmie che non dicevano nulla, nulla, nulla, ma lo dicevano forte, forte, forte!
  • A noi occorre non essere lasciati in pace! Abbiamo bisogno di essere veramente tormentati una volta ogni tanto!
  • Ecco perché un libro è un fucile carico, nella casa del tuo vicino. Diamolo alle fiamme! Rendiamo inutile l'arma. Castriamo la mente dell'uomo.
  • Il televisore è "reale", è immediato, ha dimensioni. Vi dice lui quello che dovete pensare, e ve lo dice con voce di tuono. Deve avere ragione, vi dite: sembra talmente che l'abbia!
  • La chiusura lampo ha spodestato i bottoni e un uomo ha perduto quel po' di tempo che aveva per pensare, al mattino, vestendosi per andare al lavoro, ha perso un'ora meditativa, filosofica, perciò malinconica.
  • Ero bambino, quando mi morì il nonno, che era uno scultore di valore. Era anche un uomo d'animo gentile che aveva molto amore da dare al mondo e aveva contribuito grandemente ad alleviare la miseria nel quartiere povero della nostra città. Costruiva giocattoli per noi e aveva fatto un milione di cose buone in vita sua. Era un uomo che aveva sempre le mani in moto per fare qualche cosa. Ora, quando morì, io mi accorsi ad un tratto che non piangevo per lui, ma per tutte le cose che aveva fatto. Piangevo perché non le avrebbe fatte mai più, non avrebbe mai più scolpito o intagliato un pezzo di legno, mai più ci avrebbe aiutato ad allevare colombe e piccioni nel giardino di casa, né avrebbe suonato più il violino come lui solo sapeva fare, né ci avrebbe più raccontato le cose buffe che ci raccontava.
  • Ognuno deve lasciarsi qualche cosa dietro quando muore, diceva sempre mio nonno: un bimbo o un libro o un quadro o una casa o un muro eretto con le proprie mani o un paio di scarpe cucite da noi. O un giardino piantato col nostro sudore. Qualche cosa insomma che la nostra mano abbia toccato in modo che la nostra anima abbia dove andare quando moriamo, e quando la gente guarderà l'albero o il fiore che abbiamo piantato, noi saremo là. Non ha importanza quello che si fa, diceva mio nonno, purché si cambi qualche cosa da ciò che era prima in qualcos'altro che porti poi la nostra impronta. La differenza tra l'uomo che si limita a tosare un prato e un vero giardiniere sta nel tocco, diceva. Quello che sega il fieno poteva anche non esserci stato, su quel prato; ma il vero giardiniere vi resterà per tutta una vita.
  • Noi non siamo che copertine di libri, il cui solo significato è proteggerli dalla polvere.
  • Montag guardò il fiume. Noi andremo sul fiume. Guardò le antiche rotaie della ferrovia. Oppure andremo in quella direzione. O percorreremo le grandi autostrade ora, e avremo tempo di mettere tante cose dentro di noi. E un giorno, dopo che la sapienza sarà stata a lungo in noi comparirà sulle nostre mani e sulle nostre bocche. E gran parte di essa sarà errata, ma una parte sufficiente sarà giusta. Cominceremo a camminare oggi e a vedere il mondo come il mondo cammina e parla, come realmente appare. Voglio vedere ogni cosa, ormai. E anche se niente di esso sarà e quando entrerà in me, dopo qualche tempo si raccoglierà tutto insieme dentro di me e sarà me stesso. Guarda il mondo qua intorno, Signore, Signore, guardalo, qua intorno a me, al di là della mia faccia, e il solo modo di toccarlo veramente è di metterlo dove sia finalmente me stesso, dove è nel sangue, dove è spinto a correre in circolo mille volte per diecimila ogni giorno. Ho già un dito sul mondo, adesso; questo è un principio.
  • I buoni scrittori toccano spesso la vita. I mediocri la sfiorano con una mano fuggevole. I cattivi scrittori la sforzano e l'abbandonano.
  • C'era un buffissimo uccello, chiamato Fenice, nel più remoto passato, prima di Cristo, e questo uccello ogni quattro o cinquecento anni si costruiva una pira e ci si immolava sopra. Ma ogni volta che vi si bruciava, rinasceva subito poi dalle sue stesse ceneri, per ricominciare. E a quanto sembra, noi esseri umani non sappiamo fare altro che la stessa cosa, infinite volte, ma abbiamo una cosa che la Fenice non ebbe mai. Sappiamo la colossale sciocchezza che abbiamo appena fatta, conosciamo bene tutte le innumerevoli assurdità commesse in migliaia di anni e finché sapremo di averle commesse e ci sforzeremo di saperlo, un giorno o l'altro la smetteremo di accendere i nostri fetenti roghi e di saltarci sopra. Ad ogni generazione, raccogliamo un numero sempre maggiore di gente che si ricorda.
  • «...sapete cosa ho scoperto?»
    «Che cosa?»
    «Che la gente non dice nulla»
    «Oh, parlerà pure di qualche cosa, la gente!»
    «No, vi assicuro. Parla di una gran quantità di automobili, parla di vestiti e di piscine e dice che sono una meraviglia! Ma non fanno tutti che dire le stesse cose e nessuno dice qualcosa di diverso dagli  altri...»
  • Non sono i libri che vi mancano, ma alcune delle cose che un tempo erano nei libri. Le stesse cose potrebbero essere diffuse e proiettate da radio e televisori. Ma ciò non avviene. No, no, non sono affatto i libri le cose che andate cercando. Prendetele dove ancora potete trovarle, in vecchi dischi, in vecchi film e nei vecchi amici; cercatele nella natura e cercatele soprattutto in voi stesso.

E quando fosse venuta la sua volta, che cosa avrebbe potuto dire, che cosa avrebbe potuto offrire in un giorno come quello, per rendere il viaggio un po' più agevole? Per ogni cosa c'è una stagione. Sì. Il tempo della demolizione, il tempo della costruzione. Sì. Il tempo del silenzio e il tempo della parola. Sì, tutto questo. Ma che altro? Che altro ancora? Qualcosa, qualcosa...

E sull'una e sull'altra riva del fiume v'era l'albero della vita che dava dodici specie di frutti, rendendo il suo frutto per ciascun mese; e le fronde dell'albero erano per la guarigione delle genti.

Sì, pensò Montag, ecco ciò che voglio mettere da parte per mezzodì. Per mezzogiorno...
Quando saremo giunti alla Città.

[Ray Bradbury, Fahrenheit 451, traduzione di Giorgio Monicelli, Mondadori]

L'estate incantata

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Era una mattina tranquilla e la città era ancora avvolta nel buio, infilata a letto. Il tempo diceva che era estate: il vento aveva quel certo tocco e il respiro del mondo era lungo, caldo e lento. Bastava alzarsi e sporgersi dalla finestra per sapere che questo era il primo giorno di libertà e di vita, il primo giorno d'estate.
Douglas Spaulding, dodici anni, appena sveglio, lasciò che l'estate lo cullasse nel flusso pigro dell'alba. Coricato nella stanzetta del terzo piano, col tetto della torre sopra di lui, Douglas si sentiva forte in quella stanza alta che cavalcava il vento di giugno, nella torre più imponente della città. Di sera, quando gli alberi si mescolavano in un'unica ombra, lui scoccava le sue occhiate in tutte le direzioni, come dall'alto di un faro, sull'oceano di olmi, querce e aceri mossi dal vento. E ora...
«Ragazzi!» sussurrò Douglas.
Aveva un'intera estate davanti a lui, un'intera estate da cancellare dal calendario, giorno per giorno. Gli sembrava di essere come la dea Siva che aveva visto nei libri di viaggio, gli sembrava di avere anche lui cento mani con cui avrebbe raccolto mele acerbe e pesche, e naturalmente uva passa. Per vestiti avrebbe avuto gli alberi, i cespugli e i fiumi. Avrebbe gelato, volentieri, davanti alla porta del magazzino del ghiaccio, spiando la brina all'interno; e si sarebbe arrostito, con gioia, insieme ai diecimila polli della cucina della nonna.

Citazioni

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  • Piangendo, Douglas si era rifugiato nella toilette degli uomini che profumava di limone, e lì aveva vomitato tre volte, come se avesse il fuoco nello stomaco.
    Mentre aspettava che il malore passasse, aveva pensato: quante persone sono morte quest'estate! Il colonnello Freeleigh, morto, e chi se lo immaginava? La bisnonna morta, morta per davvero. E non soltanto loro, ma... Me! No, non possono uccidere me! Sì, gli aveva sussurrato una voce maligna, sì, lo possono ogni volta che vogliono, non importa che gridi e scalci. Ti metteranno una grande mano sulla bocca e non ti muoverai più... Io non voglio morire! aveva gridato Douglas mentalmente. Dovrai, aveva risposto la voce, dovrai...
    Fuori del cinema il sole brillava su strade irreali, edifici irreali e persone che si muovevano lentamente, come immerse in un oceano di puro gas ardente, mentre Douglas pensava che era ora di tornare a casa a completare la frase sul quaderno: UN GIORNO ANCH'IO, DOUGLAS SPAULDING, DOVRÒ MORIRE... (p. 176)

Douglas chiuse gli occhi.
Albe di giugno, mezzogiorni di luglio, sere di agosto: tutto finito, chiuso, cessato. Gliene restava solo il ricordo, la sensazione, mentre l'autunno e l'inverno si schiudevano davanti a lui, e dopo l'inverno la primavera fresca e verde; l'estate era molto, molto lontana. Ma se avesse dimenticato, il vino di dente di leone era in cantina per ricordargli ogni giorno e ogni mese della stagione calda. Ci sarebbe andato spesso, avrebbe guardato il sole che brillava nel vino dorato fino a non poterlo sopportare, poi avrebbe chiuso gli occhi e si sarebbe concentrato sulle macchie vivide e colorate che gli danzavano sulla retina. E ogni chiazza, ogni fuoco, ogni riflesso andava sistemato al suo posto finché il quadro diventasse chiaro di nuovo...
Pensando a questo, si addormentò.
E nel sonno mise fine all'estate 1928.

Incipit di alcune opere

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Il cimitero dei folli

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C'erano una volta due città dentro una città. Una era luminosa e l'altra era tenebrosa. Una si agitava irrequieta durante tutto il giorno, mentre l'altra restava immobile, sempre. Una era calda, piena di luci in continuo alternarsi. L'altra era fredda, fissata al suolo da lapidi. E quando il sole ogni pomeriggio tramontava sulla Maximus Film, la città vivente, questa cominciava ad assomigliare al cimitero di Green Glades, dall'altro lato della strada, che era la città della morte.

La folla

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Il signor Spallner si copri il viso con le mani.
C'era la sensazione di muoversi nello spazio, l'urlo incredibile della tortura, l'impatto e il rotolare dell'auto sul muro, attraverso il muro, oltre e di sotto come un giocattolo e lui che veniva lanciato fuori. Poi... silenzio.
La folla arrivò correndo. Là dove giaceva, lui la sentì venire. Avrebbe potuto dire le loro età e le dimensioni dal rumore dei numerosi passi sull'erba estiva, sul terreno e sull'asfalto della strada; dal calpestio sui mattoni sparsi fino al punto in cui l'auto era mezzo sospesa nel cielo della notte, le ruote che continuavano a girare con un'assurda forza centrifuga.

L'uomo illustrato

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In un caldo pomeriggio di inizio settembre vidi per la prima volta l'Uomo illustrato. Camminavo lungo una strada asfaltata, ero alla fine di un giro a piedi di due settimane attraverso il Wisconsin. Nel tardo pomeriggio mi fermai, mangiai maiale e fagioli, una ciambella e mi preparavo a sdraiarmi per leggere un po', quando l'Uomo illustrato scese dalla collina e si fermò, stagliato contro il cielo.

Molto dopo mezzanotte

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La bottiglia azzurra

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Le aste delle meridiane erano pietrificate e frantumate in ciottoli bianchi. Gli uccelli dell'aria ora volavano in antichi cieli di pietra e sabbia, sepolti, il loro canto muto per sempre. I fondali morti del mare erano percorsi da correnti di polvere che inondava la terra ogni volta che il vento recitava la sua antica storia di distruzione. Le città erano granai di silenzio, dove il tempo si conservava immutabile, laghi e fontane di placidità e di ricordi.
Marte era morto.

In trappola

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Quella settimana, tanti anni fa, pensavo che mia madre e mio padre mi stessero avvelenando. Oggi, vent'anni dopo, non sono certo che non lo abbiano fatto davvero. Impossibile dirlo.

Il pappagallo che conobbe papà

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La notizia del rapimento fu pubblicata dai giornali di tutto il mondo. Ci vollero alcuni giorni perché il pieno significato dell'avvenimento si spargesse da Cuba agli Stati Uniti, dalla Riva Sinistra a Parigi fino ai piccoli caffè di Pamplona dove le bevande erano ottime e il tempo, chissà come, sempre perfetto.

L'uomo che bruciava

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La traballante Ford correva lungo la strada sollevando pennacchi di polvere gialla svettanti per un'ora prima di tornare a posarsi e non muoversi più in quella particolare atmosfera sospesa che ottunde il mondo a metà luglio. Lontano, in attesa, il lago: una fredda gemma azzurra incastonata in un mare d'erba d'un verde acceso. Ma esso era ancora molto lontano e Neva e Doug sobbalzavano in quel barile di lamiere infuocate, con il termos della limonata che rotolava sul sedile posteriore sciacquettando e i sandwich di prosciutto alle spezie che fermentavano sulle ginocchia di Doug. Zia e nipote boccheggiavano nell'aria rovente e ancor più si scaldavano nella discussione.

Un pezzo di legno

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«Si segga, giovanotto» disse l'ufficiale.
«Grazie» rispose l'altro, e si sedette.
«Ho sentito voci sul suo conto» esordì l'ufficiale in tono di simpatia.
«Oh, niente d'importante. Nervosismo. Un certo senso di disagio. Sono mesi ormai che sento parlare di lei, e così ho pensato di chiamarla. Magari le piacerebbe cambiare lavoro. All'estero, forse, o in una zona di guerra? Se stare dietro una scrivania l'annoia, vorrebbe tornare alle vecchie battaglie?»

Il Messia

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«Tutti noi l'abbiamo sognato da giovani» disse il vescovo Kelly.
Gli altri seduti intorno al tavolo mormorarono qualcosa e annuirono.
«Non c'è ragazzo cristiano» continuò il vescovo «che una notte non si domandi: sono io, Lui? È questa la sua Seconda Venuta finalmente, e sono io, Lui? Oh mio caro Signore sarebbe grandioso se fossi io Gesù!»

Conversazioni nello spazio

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«Charlie! Dove stai andando?»
Chiedevano i membri dell'equipaggio della navicella spaziale passando. Charles Willis non rispondeva.
Salì sul veicolo che attraversava il ventre familiare dell'astronave e scese pensando: "Questo è il grande momento".

Delitto senza castigo

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Era un'idea così perfetta, così sublime, così incredibile e così eccitante per un delitto che quasi mi pareva di impazzire.
Mi era venuta alla mente, chissà perché, il giorno del mio quarantottesimo compleanno. Perché non l'avessi pensata quando avevo trenta o quarant'anni, non saprei dire. Forse quelli erano gli anni migliori e io li vivevo senza avere coscienza del trascorrere del tempo, dell'addensarsi dell'argento sulle tempie, delle rughe che mi si formavano intorno agli occhi...

Castigo senza delitto

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«Desidera uccidere sua moglie?» domandò l'uomo dal colorito scuro seduto alla scrivania.
«Sì. No... non proprio. Vorrei..»
«Nome?»
«Di mia moglie o il mio?»
«Il suo.»
«George Hill.»

Una domenica a Dublino

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Domenica a Dublino.
La frase di per sé è già una condanna.
Domenica a Dublino.
Lascia cadere queste parole da una rupe ed esse non toccheranno mai il fondo, ma continueranno a precipitare nel vuoto fino alle cinque del grigio pomeriggio.

Un'insolita proposta

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Era una di quelle notti maledettamente calde durante le quali te ne stai inutilmente sdraiato fino alle due del mattino, poi ti riscuoti, ti alzi dal letto, ti spruzzi sul viso dell'acqua fredda, e ti trascini fino a quell'enorme forno che è la sotterranea mentre, passano sferragliando gli ultimi treni.

Viaggio in Messico

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Scesero all'Hotel de Las Floras in un caldo pomeriggio di fine ottobre. Il patio interno traboccava di fiori rossi, gialli e bianchi che illuminavano la piccola stanza. Il marito era un uomo alto, scuro di capelli e pallido che sembrava avesse guidato per diecimila miglia dormendo; attraversò il patio, portando sulle braccia un paio di coperte e si gettò sul lettino della piccola stanza sospirando esausto. Mentre teneva gli occhi chiusi, sua moglie, sui ventiquattro anni, bionda, con gli occhiali cerchiati di tartaruga, sorridendo al direttore, il signor Gonzales, andava e veniva rapidamente dalla stanza alla macchina. Trasportò prima due valigie, quindi una macchina per scrivere, ringraziando il signor Gonzales, ma rifiutando recisamente il suo aiuto.

Tempo fermo

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Fu in quella settimana che Ann Taylor venne a tenere i corsi estivi alla scuola centrale di Green Town. Era l'estate del suo ventiquattresimo compleanno, l'estate in cui Bob Spaulding compì quattordici anni.
Ann Taylor era l'insegnante a cui tutti i ragazzi volevano portare cesti d'arance e mazzi di fiori rosa, per cui srotolavano le grandi mappe verdi e gialle della Terra senza che gli fosse richiesto. Era quel tipo di donna che sembrava sempre passare per strada nei giorni in cui l'ombra era verde sotto il tunnel di querce e olmi nella vecchia città. E Bob Spaulding era il ragazzo che passeggiava da solo nelle sere di ottobre inseguito da una scia di foglie morte che sembravano un'orda di topi incantati dal flauto magico, o che si poteva vedere in primavera nuotare come un pesce nelle acque frizzanti del ruscello di Fox Hill e arrostirsi al sole fino ad assumere, alla fine dell'estate, il colore lucido delle castagne.

Il desiderio

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Un fiocco di neve colpì la finestra gelida.
La grande casa cigolò come per una folata di vento.
«Come?» domandai.
«Non ho detto nulla.» Charlie Simmons, dietro di me presso il caminetto stava preparando popcorn, con un grande setaccio di metallo. «Nemmeno una parola.»

Angelo, guarda il futuro

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Dopo aver scritto per settant'anni racconti e novelle mai pubblicati, Henry William Field si alzò una sera alle undici e trenta e bruciò dieci milioni di parole. Portò i manoscritti in cantina scendendo le scale della sua vecchia casa buia e li gettò nella fornace.
«È fatta» disse, e ripensando alla sua arte perduta e alla sua vita sprecata si rimise a letto nella stanza piena di preziosi oggetti di antiquariato. «Il mio errore è stato quello di cercare di descrivere questo folle mondo del duemiladuecentocinquantasette. I razzi, le meraviglie dell'atomo, i viaggi su pianeti e doppi soli. Tutti hanno tentato. Nessuno è capace di farlo. I nostri autori moderni hanno tutti fallito.»

La vera saggezza

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La stanza era calda, comoda, accogliente. Nel caminetto, una piccola fiammella lottava per mantenersi in vita sui pochi ciocchi di legna umida, di torba, andata ormai quasi tutta in fumo, e alcuni pezzi di carbone incandescente. La stanza era piena di musica, anche se tenuta in sordina. Una sola lampada era accesa in un angolo e illuminava le pareti dipinte di un bel giallo solare. Il pavimento di legno era così lucido che brillava come un fiume scuro sopra il quale i tappeti, dai colori vivaci degli uccelli sudamericani: azzurri brillanti, bianchi e verdi intensi, sembravano galleggiare.

Breve storia del Quarto Reich

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Aspettavano che uscisse. Lui era seduto a un tavolo del piccolo caffè bavarese con vista sulle montagne, a bere birra, era lì da mezzogiorno ed erano ormai le due e mezza, una lunga colazione con molta birra, e loro capivano dal modo in cui muoveva la testa, rideva e alzava un altro boccale con la schiuma soffiata via dalla brezza di primavera che era ormai in uno stato di grande euforia mentre gli altri due uomini seduti al tavolo con lui, pur facendo del loro meglio per stare alla sua altezza, erano rimasti molto indietro.

I miracoli di Jamie

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Jamie Winters compiva il suo primo miracolo il mattino. Il secondo, il terzo e vari altri miracoli venivano nel corso della giornata. Ma era sempre. il primo il più importante.
Succedeva così ogni giorno. «Fai che la mamma stia bene. Falle tornare il colore sulle guance. Non permettere che la mamma continui a essere ammalata.»

Gioco d'ottobre

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Paola Campioli
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Egli rimise la pistola nel cassetto del comò e chiuse il cassetto.
No, non così. Louise così non avrebbe sofferto. Sarebbe morta e tutto sarebbe finito e lei non avrebbe sofferto. Era molto importante che la cosa avesse, soprattutto, una durata. Una durata attraverso l'immaginazione. Come prolungare la sofferenza? Come, innanzi tutto, provocarla? Ecco.
[Ray Bradbury, Gioco d'ottobre, in "La notte di Halloween", traduzione di Paola Campioli, Editori Riuniti, 1984]

Antonangelo Pinna
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Ripose la pistola nel cassetto della scrivania e chiuse il cassetto.
No, non così. Così Louise non avrebbe sofferto. Sarebbe morta senza soffrire e sarebbe tutto finito. Era invece importante che questa cosa, soprattutto, durasse. Occorreva fantasia per farla durare. Come prolungare la sofferenza? E, prima di tutto, come crearla?
[Ray Bradbury, Molto dopo mezzanotte, traduzione di Antonangelo Pinna, Mondadori, 1977]

Il pan di segala

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Il signore e la signora Welles uscirono a notte alta dal cinema ed entrarono nel quieto localino per metà rosticceria e metà tavola calda. Presero posto in un séparé e la signora Welles ordinò: «Prosciutto affumicato su crostoni di pan di segala». Il signor Welles volse lo sguardo verso il bancone ed eccola, poggiata lì sopra, una forma di pan di segala.

Molto dopo mezzanotte

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L'ambulanza della polizia salì in cima alla scogliera all'ora sbagliata. È sempre l'ora sbagliata quando si muove l'ambulanza della polizia, dovunque vada, ma in questo caso era particolarmente sbagliata perché era molto dopo mezzanotte e nessuno riusciva a immaginare che sarebbe tornato il giorno, perché così diceva il mare che si infrangeva sulla spiaggia senza luce sotto la scogliera, e così confermava il vento che soffiava gelido e salato dal Pacifico, mentre la nebbia che oscurava il cielo e spegneva le stelle dava l'annuncio finale, muto ma devastante. Gli elementi dicevano che erano lì da sempre, mentre l'uomo, che era appena comparso, presto se ne sarebbe andato. In quelle circostanze, per gli uomini radunati sulla scogliera accanto alle loro automobili con i fari accesi o impugnando torce elettriche era difficile sentirsi veri, intrappolati com'erano fra un tramonto che ricordavano appena e un'alba che non si potevano immaginare.

Una tavoletta di cioccolato per te!

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Tutto ebbe inizio con l'aroma di cioccolato. In un tardo pomeriggio fumigante di vapore per la pioggia di giugno, padre Malley sonnecchiava nel confessionale in attesa di penitenti.
Dove mai s'erano cacciati? si chiedeva. Un gran traffico di peccati si celava oltre il riparo delle calde piogge. E allora, perché non c'era un gran traffico di confessioni?
Padre Malley si scosse, battendo le palpebre.

Non ci vedremo più

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Vi fu un lieve colpo alla porta della cucina, e quando la signora O'Brian l'aprì, là, sul portico, c'era il suo migliore inquilino, il signor Ramirez, e due agenti di polizia, uno da ogni parte. Il signor Ramirez stava là ritto, chiuso fra i due e minuscolo. — Come, signor Ramirez! — disse allora la signora O'Brian.
Il signor Ramirez era sopraffatto. Sembrava non avere parole per spiegare.
Era arrivato nella casa della signora O'Brian più di due anni prima ed era vissuto lì, da allora. Era venuto in autobus da Città del Messico a San Diego e poi era arrivato fino a Los Angeles. Là aveva trovato la stanzetta pulita, con il lucido lineoleum azzurro, e quadri e calendari appesi alle pareti fiorite, e la signora O'Brian come severa ma amichevole padrona di casa.

Citazioni su Ray Bradbury

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  • Ha il merito di avere portato la fantascienza a un livello estrosamente artistico e poetico, a dignità quindi di genere letterario. La materia tradizionale si trasfigura sotto la sua penna, sfumando in una atmosfera trasognata, fiabesca, elegiaca, e nello stesso tempo satirica. (Dizionario universale della letteratura contemporanea)

Bibliografia

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  • Ray Bradbury, Fahrenheit 451 (1953), collana Oscar Mondadori, traduzione di Giorgio Monicelli, A. Mondadori, Milano, 1966. ISBN 88-0432-025-7
  • Ray Bradbury, Gioco d'ottobre, in La notte di Halloween, traduzione di Paola Campioli, Editori Riuniti, Roma, 1984. ISBN 88-3592-754-4
  • Ray Bradbury, L'estate incantata, traduzione di Giuseppe Lippi, Mondadori, Milano, 1985.
  • Ray Bradbury, Il cimitero dei folli (1990), collana Piccola Biblioteca Oscar Mondadori, traduzione di Andrea Terzi, Oscar Mondadori, Milano 2003. ISBN 978-88-0451-759-7
  • Ray Bradbury, La folla, traduzione di Grazia Alineri, in "Il colore del male. I capolavori dei maestri dell'horror", a cura di David G. Hartwell, Armenia, Milano, 1989. ISBN 88-3440-406-8
  • Ray Bradbury, L'Uomo illustrato, traduzione di Giuseppe Lippi, Mondadori, Milano, 2017. ISBN 978-88-0467-881-6
  • Ray Bradbury, Molto dopo mezzanotte, traduzione di Antonangelo Pinna, A. Mondadori, Milano, 1977.
  • Ray Bradbury, Non ci vedremo più, traduzione di Roberta Rambelli, CELT, 1965.

Film

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Altri progetti

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Opere

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