Eduardo Boutet

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Eduardo o Edoardo Boutet (1856 – 1915), giornalista, insegnante, critico e impresario teatrale italiano.

Cronache teatrali[modifica]

  • Non ho più dimenticato Primavera di Ciccillo Tosti, cantata da de Lucia, Non odi tu nell'aere... Nell'accento delle ultime note fioriva primavera, e nell'anima cantava giocondamente. Tra gli amici, nei simpatici ritrovi, il futuro tenore illustre non sdegnava di intonare le più soavi canzone napolitane, e l'allegra comitiva di amici si trasfigurava per l'incanto dell'artista nel pubblico entusiasta. (L'O di Giotto, n. 32, anno III, 31 luglio 1892, p. 26)
  • [...] il manifesto del San Carlo annunziava un Faust, e Faust sarebbe stato un giovane esordiente. L'esordiente era precisamente Fernando De Lucia.
    Ricordo l'interesse del più eletto pubblico napoletano, per l'artista giovanotto che si lanciava alla prima battaglia. E la trepidazione dell'esordiente e degli amici: cantare per essere giudicato, in uno spettacolo o in un momento d'importanza, per un maestro o per un artista, dinanzi alle poltrone del San Carlo, è solenne: il cuore batte nella gola. Quando De Lucia uscì sulle scene era pallidissimo, e mai, con più tenerezza d'emozione, a quella Margherita che le prime donne si ostinano a rappresentare, sparente, colle trecce bionde, e la veste bianca orlata d'azzurra come Ofelia, mai Faust mormorò, permettereste a me... (L'O di Giotto, n. 32, anno III, 31 luglio 1892, p. 27-28)
  • Poi de Lucia lasciò l'Italia: cantò in Ispagna, in America con la Patti; si rinvigori nel giro trionfale la fibra e la fama dell'artista. E ritornato, precisamente su quella scena della emozione prima, che non si scorda più, mai, il successo di Fernando de Lucia fu quello che accompagna la celebrità: divi e stelle. Avrei voluto rivedere l'antico convittore di San Pietro a Majella e l'antico suonatore di grancassa volontario, avanzarsi su quel teatro, dalla storia che è un'epopea del palcoscenico lirico, e non più col primo passo incerto e la voce tremante di commozione intuonare la passione della Mia diletta il bacio aspetta..., sicuro, sereno, soddisfatto, come l'artista che tocca, tra il plauso, l'ardua meta vagheggiata e combattuta. Nel vasto ambiente avrebbero aleggiato, dolce visione, le ténerezze delle romanze d'una volta, all'aria aperta, tra' campi in fiori, le buie viuzze, e l'onda azzurra del mio bel golfo. Come un soave richiamo della giovanezza sarebbe risuonato alla mente e al cuore il Non odi tu nell'aere... e nella festa per l'amico vittorioso, avrebbe tremato il simpatico affettuoso accoramento della ricordanza, – il più gentile omaggio, l'applauso più gentile... (L'O di Giotto, n. 32, anno III, 31 luglio 1892, p. 28)

Rassegna drammatica[modifica]

  • Illica ha cominciato la sua vita di autore drammatico con successi clamorosi che mi hanno sempre però riempito l'animo di melanconia profonda. Egli mandava sul palcoscenico quattro e cinque atti, nei quali si appalesavano qualità di sceneggiatura certamente, ma si rivelava anche persistentemente il malo indirizzo. Pareva che un fascino invincibile incatenasse l'Illica al carro d'un trionfatore della platea, un trionfatore che cominciò aquila ed è finito passerotto, un trionfatore che dagli sconfinati orizzonti dell'arte è disceso alla ditta e alla bottega del commerciante. (p. 144)
  • Illica nel suo entusiasmo non si è mai invaghito della industria di Sardou, ma della forma teatrale sì; e scelse proprio quella che rappresentò il primo scalino della discesa del drammaturgo francese: la forma che si avvolge in tutte le prammatiche e le ricette del macchinismo teatrale, sorprendente a volte per le platee, sventura dell'arte. E combinò parecchie di quelle carcasse che avevano, oltre il peccato originale, anche il danno dell'imitazione. Le scrisse ma certamente non le amava, poiché le ha abbandonate disdegnoso, come si fugge da una passione che ci ha travolti, e che non meritava il sacrificio dell'ingegno e dell'anima. (pp. 144-145)
  • [...] doppia è la parte di merito che all'Illica spetta di diritto. Egli ha dovuto lottare per togliersi ai roveti del malo indirizzo, e rifarsi per affrontare la via nuova. Ma giunto alla via buona vi si è abbandonato con una fede che suscita quella di chi lo segue nelle sue manifestazioni sulla scena. Non più combinazioni e non più meccanismi, così chiaramente palesano quelle nuove prove, non più falsità e non più convenzionalismo, ma la faccia umana, nell'ambiente, nelle creature, nell'andamento delle esistenze e dei fatti riprodotti. La visione chiara dell'ideale della scena nel sentimento e nel metodo. L'uomo non il personaggio. L'aborrimento d'ogni triste combinazione che alimenterà forse il botteghino d'un teatro, ma che certamente oltraggia l'arte e l'uccide. (p. 145)

Sua eccellenza San Carlino[modifica]

  • I maggiori trionfi Achille Majeroni li ebbe in Napoli. Giunto laggiù, non se ne seppe più allontanare: e forse nella mollezza di quell'azzurro, nella visione dello infinito mare, nella carezza dei colli in fiore, sempiterna incantatrice primavera, la sua anima fantasiosa si adagiava e trovava il suo ambiente. (p. 71)
  • Majeroni dettava la voga. Era l'idolo delle platee e dei saloni aristocratici. Venne la marsina alla Majeroni, di velluto azzurro, foderata di raso bianco; il cappello di paglia alla Majeroni dalle enormi falde; i pantaloni alla Majeroni larghissimi alla cintola e stretti gradualmente fin giù sul piede. La calda natura meridionale in preda alla frenesia giunse al delirio. La bellezza dell'artista operava come una malìa. E in quest'onda di simpatia gli fu possibile di realizzare le fantasie della sua mente di sognatore. (p. 71)
  • Majeroni anelava magnificenze e splendori novi: si vedeva tra sale marmoree e tappeti siriaci sdraiato mollemente nei fascini musulmani di bellezze e di ricchezze. Egli si sentiva d'un'altra terra, lontana, lontana, terra da mille e una notte, dove sorgono al tocco della magica bacchetta i palazzi d'avorio, e vergini a schiere danzano voluttuosamente sui pavimenti di gemme e d'oro, mentre il signore nel paludamento di stoffa preziosa aspira dal narghilè sogni di fate e misteri di nani. (p. 72)

Citazioni su Eduardo Boutet[modifica]

  • A tutte le «prime» dei teatri romani, e particolarmente a tutte le «prime» della scena di prosa accade di notare ad ogni men che mediocre osservatore un uomo ancor freschissimo e vivace non ostante la copiosa barba più grigiastra che bionda, il quale è fatto segno, così nel suo palchetto di primo ordine come nel foyer e nei corridoi, alla premurosa attenzione di moltissima parte dell'uditorio. La cortesia naturale dei modi impedisce che quest'uomo si salvi dai continui assalti di tutti coloro che attendono una sua parola per sapere se sia più «intellettuale», quella sera, battere le mani o zittire, che vengono «a prendere il la» da lui per formarsi un giudizio sopra il valore della commedia nuova o dell'attore esordiente. Si sa che il suo parere è rigidamente e severamente onesto, profondamente illuminato: onde esso può servire anche ai mestieranti del ricatto e ai dilettanti della diffamazione come base di verità per i loro edifici di insidiosa menzogna.
    Quest'uomo è il principe della critica teatrale della capitale d'Italia, è Caramba, al secolo Edoardo Boutet. (Luigi Federzoni)
  • Gentilezza e coraggio gallico, impeto e genialità napoletana si fondono nell'intelletto di Edoardo Boutet, nato sul golfo partenopeo di genitori oriundi, come indica il cognome, di terra francese. La commistione etnica si fa singolarmente palese quando la figura pallidamente signorile si agita in una frequenza di gesti accompagnanti e surroganti la parlata dei protetti di S. Gennaro.
    Del francese non ha la spavalderia posatrice ne la tendenza atavica alla «cantonata»: dei nostri meridionali non ha gli entusiasmi fittizi alternantisi con le infeconde negazioni scettiche: è insomma un lucido esempio delle buone qualità di due stirpi affini e diverse. (Luigi Federzoni)

Silvio D'Amico[modifica]

Citazioni in ordine temporale.

  • Questo senso «religioso» del teatro fu la personale, essenziale caratteristica di Eduardo Boutet; che distingue nettamente, senza possibilità di confusione, la fisionomia di lui da quella di tutti gli altri critici nostri.
  • Boutet arrivò a' suoi cinquantanove anni, attraverso le delusioni più sfibranti che uomo fidente in un'idea abbia mai sopportato, con le convinzioni de' suoi diciotto, e con la serietà e la preoccupazione del suo apostolato, immutabili. «Fede, mistero, religioso, santo, sacro», sono appunto le parole che s'incontrano più frequenti ne' suoi scritti. Poteva accadere che scherzasse, forse nello stesso numero del giornale in cui Boutet scriveva, l'autore dell'articolo dove si trattava di politica, di pace, di guerra, o che so io: ma non scherzava lui, Boutet. Perché potevano essere mestieranti gli altri: lui si sentiva sacerdote.
  • Che sappiamo noi delle famose critiche giornalistiche, che Eduardo Boutet sparse ne' quotidiani in voga durante la sua giovinezza, ora introvabili sin nelle biblioteche, introvabili a lui stesso che in questi ultimi tempi non ne serbava più se non il ricordo?
    Una fama le ha accompagnate nell'ambiente teatrale: la fama d'una grande severità. Per lo meno, chi le rammenta, ebbe questa impressione: che Boutet «stroncasse».

Bibliografia[modifica]

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