John Gardner
John Champlin Gardner Jr. (1933 – 1982), scrittore e insegnante statunitense.
L'orco
[modifica]Il vecchio ariete in cima alla rupe mi osserva dall'alto, stupidamente trionfante. Ammicco. Lo fisso inorridito. – Va' via! – sibilo. – Tornatene alla tua grotta, alla tua stalla (tornatene a casa, insomma) -. Drizza la testa come un re attempato e un po' tardo, considera i vari punti di vista, decide d'ignorarmi. Batto i piedi. Martello il suolo di pugni. Gli scaglio contro una pietra grossa quanto un teschio. Non si muove. Levo i pugni pelosi al cielo e lancio un urlo indescrivibile tanto che l'acqua ai miei piedi si trasforma d'improvviso in ghiaccio e io stesso ne resto un po' scosso. Ma l'ariete non se ne va; è stagione ormai. E comincia così il dodicesimo anno della mia guerra idiota.
Citazioni
[modifica]- Per la verità non ho mai ammazzato un cervo in vita mia e mai lo farò. Le vacche hanno più carne addosso e chiuse nei recinti sono più facili da prendere. È vero, forse, che provo un certo disgusto per il cervo, lo stesso disgusto, però, che provo per altre cose naturali – senza contare gli uomini. Ma per la mia razza, i cervi, come i conigli e gli orsi e perfino gli uomini, non fanno raffinate distinzioni. È questa la loro felicità: vedono la vita senza osservarla. Vi sono immersi come granchi nel fango. Eccetto gli uomini, naturalmente. Ma non sono in vena di parlare di uomini. (p. 7)
- Anche l'infanzia è bella, prima di scoprire la terribile monotonia, anno dopo anno. (p. 9)
- – Buie voragini! – grido dalla cima della rupe, – Prendetemi! Trascinatemi nei maleodoranti e neri vostri intestini e polverizzate le mie ossa! – Mi terrorizza il suono della mia voce immensa nell'oscurità. Tremo da capo a piedi, trasportato nelle profondità abissali del mio essere, come una creatura costretta a un'udienza col tuono.
Allo stesso tempo in segreto non mi lascio ingannare. Il tumulto è frutto soltanto del mio grido, e le voragini, come tutto ciò che è vasto, sono inanimate. Non mi carpiranno mai, a meno che, in uno slancio di fanatismo religioso, mi butti. (p. 9) - Alle mie spalle, ai confini del mondo, la mia grassa madre, pallida che pare emani una luminescenza, continua a dormire, vecchia, amareggiata, nella tetra stanza sotterranea. Megera gonfia d'anni, confusa, stremata dalla sofferenza. Colpevole, così immagina, di qualche crimine ormai scordato, forse ancestrale. (Dev'esserci qualcosa d'umano in lei). Non che pensi. Non che analizzi e ponderi i polverosi meccanismi della sua miserevole e sciagurata vita. Nel sonno s'aggrappa a me come per schiacciarmi. Mi libero. – Perché siamo qui? – le domandavo un tempo. – Perché restiamo in questa tana putrida e maleodorante? – Trema alle mie parole. Le labbra spesse fremono. – Non domandare! – implorano gli artigli agitati. (Non parla mai). – Non domandare! – Una volta pensavo si trattasse di un terribile segreto. Le lanciavo un'occhiata scaltra. Me lo dirà al momento giusto, pensavo. Non mi diceva nulla, però. Io continuavo ad aspettare. Questo accadeva prima che il vecchio drago, calmo come l'inverno, svelasse la verità. Non era un amico lui. (pp. 10-11)
- Compresi che il mondo era il nulla: un caos meccanico, ostilità bruta su cui stupidamente imponiamo speranze e paure. Compresi in modo definitivo e assoluto che io solo esisto. Tutto il resto è semplicemente ciò che mi spinge o contro cui io spingo, ciecamente – come ciecamente mi respinge tutto ciò che non sono io. Io creo l'intero universo, attimo per attimo. (pp. 19-20)
- Se i canti erano veri, e suppongo che almeno un paio lo fossero, c'erano sempre state guerre e quello che avevo visto era stato solo un periodo di mutuo sfinimento. (p. 30)
- [Sul Poeta] Chi era? Quell'uomo aveva mutato il mondo, aveva divelto il passato strappandone le radici spesse e nodose, l'aveva tramutato e quelli, che conoscevano la verità, lo ricordarono come voleva lui, e io con loro. (p. 38)
- [Sul Poeta] Cantava dietro compenso, per le lodi delle donne – una in particolare – e per l'onore della mano d'un re famoso sul suo braccio. Se le idee dell'arte erano belle, era per colpe dell'arte, non del Poeta. Un selettore cieco, quasi ottuso: un uccello. Forse la gente si uccideva più dolcemente perché nei boschi gli uccelli cantavano? (p. 44)
- L'arpa sospirava, il vecchio cantava con voce di bimbo.
Raccontava l'origine del mondo nel tempo remoto: disse che l'Onnipotente fabbricò la terra, la distesa dal chiaro volto, recinta d'acqua. Pose il sole e la luna, certo della vittoria, lumi per fare luce a chi abita il mondo e ornò i rami e foglie la veste della terra. Fabbricò l'esistenza di ognuna delle specie che vivono e si muovono.
L'arpa si fece solenne. Raccontò di una faida tra due fratelli che divise il mondo tra luce e oscurità. E io, Grendel, ero il lato oscuro. La razza nefasta che Dio aveva proscritto.
Gli credetti. Tanto era il potere dell'arpa del Poeta! Mi si contorse la faccia, le lacrime scendevano lungo il naso e sfregavo gli occhi piangenti coi pugni, anche se per farlo dovevo strizzare con il gomito il cadavere, la prova che entrambi eravamo proscritti, oppure nessuno dei due, che i fratelli non erano mai vissuti, né il dio che li aveva giudicati. – Uaaa! – strillai.
Che conversione! (pp. 45-46) - – Perché non posso avere qualcuno con cui parlare? – chiesi. Le stelle non risposero, ma finsi di ignorare la scortesia. – Il Poeta ha con chi parlare, – dissi. Mi torsi le dita. – Hrōðgār ha con chi parlare.
Ci pensai su.
Forse non era vero.
Infatti, se la visione di bontà e di pace del Poeta era parte di lui, non rime vacue, allora nessuno lo comprendeva, neppure Hrōðgār. E per quanto riguardava Hrōðgār, se credeva davvero nella sua idea di gloria – i figli e i figli dei figli che avrebbero diviso con gli altri ogni cosa – avevo brutte notizie per lui. Avrebbero pesato mentalmente il suo oro e l'argento. Avevo osservato le generazioni. Avevo visto i loro occhi di donnola.
Combattei il sorriso che mi saliva alle labbra.
– Potrebbero cambiare, – dissi levando un dito come davanti a un pubblico. – Il Poeta potrebbe ancora migliorare le menti degli uomini, portar pace agli infelici Danesi.
Ma erano dannati, lo sapevo e ne ero felice. Non potevo negarlo. Che vagassero dunque per i sentieri nebbiosi dell'Inferno. (p. 47) - Era una menzogna spudorata che un dio avesse amorevolmente fabbricato la terra ponendo il sole e la luna per far luce a chi abita il mondo, che i fratelli avessero lottatto, che una razza fosse stata salvata e l'altra proscritta. Eppure il vecchio Poeta poteva renderelo vero con la dolcezza della sua arpa, l'abile frode. E con una scossa violenta mi resi conto che volevo che fosse vero, e anche loro, per quanto fossero animali perversi, astuti, pieni di teorie. Volevo che fosse vero, sì! Anche se dovevo essere io il reietto, bandito dalle regole di quella favola ripugnante. (p. 49)
- Lo so che ti dispiace. Per adesso, almeno. In quest'istante fugace e fuggente nel lungo e tedioso declivio dell'eternità. Non m'impressioni. (Il drago, p. 54)
- Vuoi la parola. È per questo che sei venuto. Il mio consiglio è: non domandare! Fai come me! Cerca l'oro (non il mio, però) e custodiscilo! (Il drago, p. 55)
- Conosco ogni cosa, sai, [...] Il principio, il presente, la fine. Tutto. Ora tu vedi il passato e il presente, come le altre creature inferiori: non hai facoltà più elevate della memoria e della percezione. Ma i draghi, ragazzo mio, hanno una mente assai diversa. [...] Vediamo come se ci trovassimo in vetta a una montagna: tutto il tempo, tutto lo spazio. In un istante scorgiamo la visione appassionata e il tumulto. Non che le cose falliscano per colpa nostra, intendimi. [...] I draghi non s'immischiano nel vostro insignificante libero arbitrio. Puah! Dammi retta, ragazzo, [...] Se tu, con la tua conoscenza del presente e del passato, ricordi che un certo uomo scivolò, mettiamo su una buccia di banana, o giù da una sedia, o affogò in un fiume, il ricordo non significa che sia scivolato per colpa tua, o caduto o annegato. Esatto? Certo che è esatto! È successo e tu lo sai, ma il saperlo non né è la causa. È ovvio! Bene, lo stesso vale per me. La mia conoscenza del futuro non causa il futuro. Si limita a vederlo, esattamente come le creature al tuo infimo livello ricordano le cose passate. E anche se interferisco (bruciando la villa dell'idromele di qualcuno, ad esempio, sia perché ne avevo voglia, sia perché me l'aveva chiesto qualche supplice) anche allora non altero il futuro, mi limito a fare ciò che ho visto sin dal principio. È ovvio, sicuramente. Diciamo allora che la questione è risolta. E basta con la storia del libero arbitrio e l'intercessione! (Il drago, pp. 55-56)
- [Sugli umani] Credono di pensare. Non hanno una visione globale, un sistema totale, solo schemi vagamente somiglianti, non hanno più identità di un ponte o di una ragnatela. Ma si lanciano sugli abissi attaccandosi a una tela di ragno, e a volte ce la fanno, e con quello sono convinti d'aver risolto la questione! Potrei raccontarti mille tediosissime storie della loro assurdità. (Il drago, p. 57)
- È estremamente difficile, spero tu comprenda, esprimermi nei concetti limitati familiari a una creatura medievale, l'era oscura. Non che vi siano ere più oscure di altre. È un gergo tecnico d'un altro periodo d'oscurantismo. (Il drago, p. 60)
- Le cose vanno e vengono, [...] È questo il succo. Fra miliardi e miliardi di anni ogni cosa sarà andata e venute molte volte, in varie forme. Perfino io me ne sarò andato. Un certo uomo mi ucciderà assurdamente. Un vero peccato (la perdita di una rimarchevole forma di vita. I conservazionisti protesteranno). [...] Insignificante, però. Questi bricchi e questi sassi, tutto passerà. Puf! Bolle, emorroidi, foruncoli, bava... (Il drago, p. 62)
- Deve essere davvero frustrante essere ingabbiato come un grillo in una mente limitata. (Il drago, p. 64)
- Ah, Grendel! [...] Tu li migliori, ragazzo mio! Non te ne rendi conto? Li stimoli! Li costringi a pensare e pianificare. Ispiri in loro poesia, scienza, religione, tutto ciò che li rende ciò che sono, finché dureranno. Tu sei, per così dire, il presente bruto attraverso cui imparano a definirsi. L'esilio, la cattività, la morte da cui rifuggono (la prova lampante della loro mortalità, del loro abbandono) e tu fai in modo che lo riconoscono, che l'abbraccino! Tu sei l'umanità, o la condizione umana: inseparabile come lo scalatore e la montagna. Se ti allontani verrai immediatamente sostituito. Di presenti bruti ce ne sono fin che vogliono. Bando ai sentimentalismi, dunque. Se l'uomo è l'irrelevanza che t'interessa, non'abbandonare! Spaventalo finché non non raggiungerà la gloria! Non c'è differenza alla fin fine: materia e movimento, semplice e complesso. Non fa alcuna differenza. Morte, trasfigurazione. Cenere in cenere, e bava in bava, amen. (Il drago, p. 65)
- «Conosci te stesso» è il mio motto. Conosci quanto possiedi e sta' attento agli estranei! (Il drago, p. 65)
- Il mio consiglio, mio violento amico, è: cerca l'oro e custodiscilo. (Il drago, p. 66)
- Nulla e tutto era cambiato dal mio incontro col drago. Una cosa è ascoltare, pieno di sprezzo e dubbi, le poetiche versioni del tempo passato e le visioni del tempo a venire; un'altra cosa è conoscere, con freddezza e semplicità come mia madre conosce il suo mucchio d'ossa, ciò che è. Indipendentemente da ciò che avevo o non avevo compreso nei discorsi del drago, mi era rimasto qualcosa di molto più profondo che divenne la mia aura. La futilità, il fato, diventò un profumo nell'aria, pervasivo e acre come l'odore mortale che segue un incendio nella foresta – il mio effluvio e quello del mondo, l'aroma degli alberi, delle rocce, dei fiumi ovunque andassi.
Ma c'era di peggio. Scoprii che il drago m'aveva fatto un incantesimo: nessuna arma mi poteva ferire. Potevo entrare a mio piacere nella casa dell'idromele e gli occupanti erano inermi. Il mio cuore si fece più scuro in seguito a questa scoperta. Per quanto li disprezzassi e a volte li odiassi, c'era qualcosa fra me e gli uomini quando potevamo combattere. Ora, invulnerabile, ero solo come un albero vivo in una distesa di carbone.
Inutile dire che all'inizio non compresi la situazione e pensai che si trattasse di un vantaggio. (p. 67) - Sono davvero colpito. Non avevo mai visto un eroe vivo prima d'oggi, [...] Credevo esistessero solo in poesia. Ah, ah, deve essere un peso terribile, però, essere un eroe (mietitore di gloria, falciatore di mostri! Tutti che ti tengono continuamente d'occhio per controllare se ti comporti ancora in modo eroico. Senz'altro sai di ce cosa parlo) eh eh! Prima o poi la vergine del raccolto commetterà un errore sul mucchio di fieno. [...] E che scomodità. Dover stare eretto tutto il tempo, usare sempre un nobile linguaggio! Dev'essere logorante a lungo andare. [...] Ma senza dubbio dà anche delle soddisfazioni. La piacevole sensazione d'immensa superiorità, i facili successi con le donne... [...] E la gioia che proviene dal conoscersi a fondo, quella sì che è una grande compensazione. La certezza assoluta che in qualsiasi pericolo, davanti a qualsivoglia avversità, non cederai, ti comporterai con la dignità dell'eroe, fino alla tomba! (pp. 74-75)
- – Solo nella vita dell'eroe il mondo assume significato. L'eroe percepisce i valori al di là del possibile. Tale è la natura dell'eroe. Che finisce, ovviamente, per ucciderlo. Ma dà valore alla lotta dell'umanità.
Assentii nel buio. – E spezza la noia, – dissi. (p. 79) - L'equilibrio è tutto, quando si tiene il mare come una barca priva di timone, la chiglia che pesca all'inferno, l'albero che si erge a cavare gli occhi al paradiso. Eh eh! (Sospiro). I miei nemici si definiscono (come disse il drago) attraverso di me. Quanto a me, potrei sterminarli in una notte sola, tirar giù le grandi travi intagliate e seppellirli tutti nella casa dell'idromele, insieme ai loro topi, boccali e patate – tuttavia mi trattengo. Non sono cieco all'assurdità. La forma è funzione. Come potremo chiamare il Flagello di Hrōðgār una volta che Hrōðgār sia stato flagellato? (p. 81)
- Vecchiaia, antica catena di vittorie, dov'è il tuo conforto? (p. 100)
- Per scostarsi dal territorio della legalità è necessaria una forte spinta delle circostanze, [...] L'incitamento alla violenza dipende dalla completa rivalutazione dei valori comuni. D'un sol colpo le azioni più criminali devono diventare atti eroici e meritori. Se la Rivoluzione non avrà successo, sarà perché tu e i tuoi seguaci vi sarete spaventati della vostra stessa brutalità. (Cavallo Rosso, p. 105)
- La rovina totale delle istituzioni e della morale è un atto creativo. Un atto religioso. L'assassinio e l'offesa gratuita sono la vita e l'anima della rivoluzione. (Cavallo Rosso, p. 105)
- Che cosa pretende di fare un regno? Di salvare i valori della comunità (regolare il compromesso) migliorare la qualità del bene comune! In altre parole, proteggere il potere della gente al potere e schiacciare gli altri. Per comune accordo è ovvio, così dice la leggenda. E ci riescono alquanto bene. [...] Ricompensano la gente che meglio si adatta al sistema. I vassalli del re, i servi dei vassalli, e così via finché non si arriva alla gente che non si adatta affatto. Ma non è un problema. Basta relegarli negli angoli più oscuri del regno, farli morire di fame, gettarli in galera o mandarli alla guerra. [...] Se si soddisfa l'avidità della maggioranza, il resto non creerà problemi. (Cavallo Rosso) (pp. 105-106)
- La forza pubblica è la vita e l'anima di ogni stato: non solo l'esercito e la polizia ma le prigioni, i giudici, gli esattori delle tasse, ogni immaginabile artificio di repressione coercitiva. Lo stato è un'organizzazione di violenza, un monopolio di ciò che piace chiamare violenza legittima. (Cavallo Rosso, p. 106)
- Tutti i sistemi sono malvagi. Tutti i governi sono malvagi. E non vagamente malvagi. Sono mostruosamente malvagi, [...] Se vuoi che ti aiuti a distruggere un governo, sono al tuo servizio. Ma in quanto alla Giustizia Universale... (Cavallo Rosso, p. 107)
- [Su Hrōðgār] Da giovane aveva la forza di sette uomini. Ora non più. Non gli resta che il potere della mente – e non ne prova alcun piacere: un astuccio di coltelli. La civiltà che intendeva costruire si è trasformata d'incanto in una foresta densa di trappole. [...] Un uomo saccheggia per metter insieme una fortuna che gli consenta di pagare i sudditi e portare pace nel regno, ma il tesoro che ammassa per la sua sicurezza diventa l'esca per ogni predone che ne sente parlare. Hrōðgār, lesto di mente, è a corto di piani. Non è colpa sua. Non ce ne sono altri. E così attende come un uomo incatenato in una grotta, fissando l'ingresso e guardando talvolta distrattamente Wealhþēow, incatenata al suo fianco. Che è un'ulteriore trappola, la peggiore. È giovane, avrebbe potuto servire un uomo più vigoroso. E bella: non dovrebbe veder sfiorire le proprie notti e il proprio corpo vicino a un vecchio ossuto e tremante. E lei lo sa, e ciò accresce il dolore e la colpa di Hrōðgār. Comprende il timore per il suo popolo che fa di lui un codardo, sicché la notte in cui l'aggredii non mosse un dito per salvarla. E quel timore non è neppure garanzia di generosità; forse è solo desiderio che il suo nome e la fama vivano in eterno. Wealhþēow comprende anche l'amarezza della vecchiaia. Capisce perfino – e ciò e più terribile d'ogni altra cosa – la consapevolezza del vecchio Hrōðgār che la pace deve essere ricercata prova dopo prova, senza altra prospettiva fuorché la sconfitta finale. Hanno sofferto lezione su lezione riconoscendo ogni volta più profondamente la loro umiliazione, la vergogna, la futilità. E continuerà così. (pp. 108-109)
- Non c'è convinzione nei canti dei vecchi preti: è solo messinscena. Nessuno nel regno crede che gli dei abbiano in sé la vita. I deboli osservano i rituali – si tolgono il cappello, se lo rimettono, alzano le braccia, le abbassano, gemono, intonano canti, congiungono le mani – ma nessuno nutre aspettative irragionevoli. I forti – il vecchio Hrōðgār, Unferð – ignorano le effigi. La volontà di potere risiede tra le stalattiti del cuore. (p. 114)
- Il Re degli Dei è la limitazione estrema, [...] e la Sua esistenza è l'estrema irrazionalità. [...] Poiché non si può addurre alcuna ragione alla limitazione che è nella Sua natura d'imporre. Il Re degli Dei non è concreto, ma è la base della concreta realtà. Non si possono addurre ragioni alla natura di Dio, perché quella natura è la base della razionalità. [...] Il Re degli Dei è l'entità in virtù della quale l'intera molteplicità degli oggetti eterni ottiene la sua pertinenza ad ogni stadio di concrescenza. Con la sola eccezione di Dio non può esistere attualità rilevante. [...] Lo scopo di Dio nel progredire creativo è l'evocazione di nuove intensità. Egli è il polo d'attrazione dei nostri sentimenti. [...] Egli è la spinta eterna del desiderio che stabilisce i fini di tutte le creature. Egli è pazienza infinita, ha tenera cura che nell'universo nulla sia vano. [...] Oh, il male estremo nel mondo temporale è più profondo di ogni male specifico quale l'odio, la sofferenza, o la morte! Il male estremo è che il Tempo perisce perpetuamente e la presenza implica l'eliminazione. La natura del male può essere riassunta, perciò, in due proposizioni semplici ma orribili e sacre: «Le cose svaniscono» e «Le alternative escludono». Tale è il Suo mistero: che la bellezza richiede il contrasto e che la discordia è fondamentale alla creazione di nuove intensità di sentimento. Sono giunto a comprendere che la saggezza estrema sta nella percezione che la solennità e la grandezza dell'universo sorgono dal lento processo di unificazione in cui vengono utilizzate le diversità dell'esistenza e nulla, nulla va mai perduto. (Ork, pp. 117-118)
- [Su Beowulf] La voce, benché potente, era mite. La voce d'una cosa morta, calma come i rami secchi e il ghiaccio quando il vento ci soffia sopra. Aveva un viso strano che, a poco a poco, mi appariva sempre più sconvolgente: l'avevo già visto, o così mi parve per un istante, in un sogno quasi dimenticato. Gli occhi avevano un taglio all'ingiù, e non ammiccavano mai, spietati come gli occhi di un serpente. Non aveva più barba d'un pesce. Sorrideva mentre parlava, ma era come se la voce gentile, il sorriso infantile anche se leggermente ironico, nascondessero qualcosa, il potere magico di ridurre scogliere di pietra in cenere, come il fulmine incenerisce gli alberi. (p. 136)
- [Su Beowulf] Mentre parlava, la sua mente pareva assai lontana come se, per quanto cortese, fosse del tutto indifferente – un estraneo non solo tra i Danesi, ma ovunque. (p. 136)
- [Su Beowulf] Mi sorpresi a non ascoltarlo, ne fissavo solo la bocca che si muoveva – o così mi pareva – indipendentemente dalle parole, come se il corpo dello straniero fosse un artificio, un travestimento per qualcosa di infinitamente più terribile. (p. 137)
- Il tedio è il male maggiore. La mente compone il mondo in blocchi e il sangue zittito attende l'ora della vendetta. Sono arrivato a comprendere che qualsiasi ordine è teorico, irreale – una maschera innocua, ragionevole e sorridente che gli uomini indossano tra le due grandi, oscure realtà, l'io e il mondo – due fosse dei serpenti. L'intelletto vigile mente, astuto e pronto, sulla nera lussuria del sangue, mente, mente e mente finché, stanca delle chiacchiere, la sentinella dorme. Allora, improvviso e lesto, dal nulla colpisce il nemico, il cuore cavernoso. (p. 139)
- Io ho visto – io incarno – la visione del drago: il vuoto assoluto, definitivo. Molto tempo prima avevo concepito l'universo come ciò-che-non-è-mia-madre, e vi avevo scorto il mio posto: un buco. Eppure esisto, ne ero certo. Allora solo io esisto, dissi. O io o lui. Che allegria, che splendida agnizione! (La grotta, la mia grotta è una grotta gelosa). Poiché perfino la mamma non mi ama per me stesso, la mia sacra specificità (eh eh oh ah), ma per la mia natura di figlio, il fatto che le appartengo, per lo spazio che occupo nell'aria come prova tangibile del suo potere. L'ho messa da parte – con dolcezza, sollevandola per le ascelle come una bambina – dimostrando che non ha potere fuorché quello che le concedo per capriccio momentaneo. Altresì potrei mettere da parte il regno di Hrōðgār e tutti i suoi vassalli se, per amor del desiderio, non ponessi limiti ai miei desideri. Se uccidessi l'ultimo Scyldingas, per che cosa vivrei? Dovrei trasferirmi. (p. 140)
- Un turbine insensato nel flusso del tempo, un'accozzaglia temporanea di brandelli, qualche frammento accidentale, una nube... Complessità: polvere verde. polvere purpurea, oro. Ulteriori ricercatezze: polvere sensibile, polvere copulante... (Beowulf)
- È il momento, fratello. Che tu ci creda o no. Puoi uccidere il mondo, mutar pianure in pietre, trasformare d'incanto la vita in Io ed essa, ugualmente le forti radici fenderanno la tua caverna e la pioggia la purificherà: il mondo esploderà di verde, lo sperma sgorgherà nuovamente. È una promessa. Il tempo è la mente, la mano che fa (dita sulle corde dell'arpa, spade d'eroi, gli atti, gli occhi delle regine). E con essa ti uccido. (Beowulf, pp. 149-150)
- Grendel, Grendel! Tu crei il mondo sussurrando attimo per attimo. Non te ne avvedi? E non importa se ne fai una tomba o un giardino di rose. (Beowulf, p. 150)
La vista torna a farsi chiara. Sono viscido di sangue. Scopro di non sentire più dolore. Gli animali si radunano intorno a me, i vecchi nemici, per vedermi morire. Rivolgo loro quello che spero sembrerà un timido sorriso. Il mio cuore rimbomba terrore. Se espiro svanirà col fiato quel barlume di vita che mi resta? Mi guardano con occhi vacui, indifferenti, calmi e neri come il baratro sotto di me.
È gioia quella che provo?
Continuano a guardare, malvagi, incredibilmente stupidi, godendosi lo spettacolo della mia distruzione.
– Il povero Grendel ha avuto un incidente, – sussurro. – Auguro altrettanto a tutti voi.
Bibliografia
[modifica]- John Gardner, L'orco (Grendel), traduzione di Rossella Bernascone, Einaudi, Torino, 1991. ISBN 88-06-12522-2
Voci correlate
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