Raimon Panikkar

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Raimon Panikkar (2007)

Raimon Panikkar Alemany (1918 – 2010), filosofo, teologo, sacerdote e scrittore spagnolo.

Citazioni di Raimon Panikkar[modifica]

  • Così come l'intero universo procede lungo il proprio percorso, anche tutta la nostra esistenza segue il suo corso e descrive un ciclo che corrisponde a quelli divini e cosmici. (da Gli Inni Cosmici dei Veda, a cura di Milena Carrara Pavan, BUR, Milano 2004, p. 1)
  • [...] "purificazione del cuore": non avere paura né di sé né degli altri. In questo sta la nuova innocenza. Questo è ciò che conta: non perdiamo tempo in teorie. Pensare di poter sistemare e risolvere tutto è un errore. Il mistero della vita è che il male esiste, che le tensioni non possono essere soppresse e che noi ci siamo dentro; che si deve fare il possibile, senza lasciarsi dominare e senza mai ritenere di possedere la verità assoluta. Bisogna accettare la condizione umana, sapere che un certo dubitare non si oppone alla fede; sapere che il senso di contingenza è necessario alla nostra vita. Devo rendermi conto che sono una parte di questa realtà e che non spetta a me controllarla; scoprire il senso della vita nella gioia, nella sofferenza, nelle passioni; invece di lamentare la difficoltà del vivere, rimandando ad un giorno che non arriva mai il momento di godere profondamente di questa vita, trovare questo senso in ogni istante. (da La nuova innocenza)
  • Io parlerei di colonialismo teologico, qualora si volesse ancora oggi presentare il messaggio cristiano con categorie estranee all'Africa e all'Asia. (da Ecosofia: la nuova saggezza. Per una spiritualità della terra, Cittadella Editrice, Assisi 1993)
  • La modernità si esaurisce in se stessa, e noi non possiamo continuare per questa strada che porta alla morte. (da Ecosofia: la nuova saggezza. Per una spiritualità della terra, Cittadella Editrice, Assisi 1993)
  • Nel momento in cui si esplicita [il mito] cessa immediatamente di essere mito. In questo senso la mitologia, se la si intende come il logos del mythos, è una contraddizione in termini. (citato in Marcello Veneziani, Alla luce del mito, Marsilio editori, 2017, pp. 61-62, ISBN 978-88-317-2639-9)

I Veda. Mantramañjarī[modifica]

  • È un dato di fatto che i Veda siano soltanto parzialmente integrati nelle tradizioni indiche successive, eppure proprio questo fatto conferisce loro una certa universalità, che va ben oltre le frontiere della cultura indica. Essi sono di origine aria, ma includono elementi innegabilmente non-arii; fatto, questo, controverso, che fa di questo sconcertante documento umano un imponente monumento di interazione interculturale, oltre che una manifestazione specifica della creatività umana. (p. 19-20)
  • L'uomo moderno è un uomo secolare, il che non vuol dire che non sia religioso o che abbia perduto il senso del sacro. Questa affermazione significa solo che la sua religiosità, e perfino il senso di sacralità che egli possiede, sono entrambi improntati a un atteggiamento secolare. (p. 24)
  • L'uomo vedico è essenzialmente un uomo che celebra; egli però non celebra le proprie vittorie, e neppure una festa della natura in compagnia dei suoi simili; piuttosto concelebra con l'intero universo, assumendo il suo posto nel sacrificio cosmico in cui tutti gli Dei sono impegnati. (p. 39)
  • [I Veda] sono cantati, parlati e anche scritti nell'antica lingua indoaria conosciuta come vedico, un linguaggio anteriore al sanscrito letterario che venne formalizzato dal grammatico Pāṇini intorno alla metà del primo millennio a.C. (p. 42)
  • Le Saṃhitā o mantra, sono gli inni che appartengono alla fase più antica. Come implica la parola Saṃhitā, essi rappresentano la collezione base di inni e come tali sono il corpo più antico di ogni scuola. Il più antico e importante è la Ṛg-veda-saṃhitā, che contiene oltre 10.000 versi nella forma di poco più di 1000 inni, scritti in vari metri. (p. 42)
  • I Brāhmaṇa formano la seconda fase, unita alle diverse ramificazioni delle Saṃhitā, Chiaramente appartenenti a un periodo successivo, come rivela il loro linguaggio, sono scritti per la maggior parte in prosa e danno spiegazioni esaurienti e descrizioni dei rituali e delle preghiere relativi al sacrificio. Contengono qualcosa di più che semplici istruzioni per i rituali e molto del materiale esplicativo ha un carattere simbolico. (p. 43)
  • Gli Āraṇyaka, o "trattati della foresta", sono in un certo senso una continuazione dei Brāhmaṇa perché trattano delle speculazioni e della spiritualità degli abitatori della foresta (vānaprastha), coloro che hanno rinunciato al mondo. Essi rappresentano un passo verso l'interiorizzazione, poiché l'eremita nella foresta non potrebbe realizzare il complesso rituale richiesto al padrone di casa. (p. 43)
  • Le Upaniṣad sono la fase quarta o finale del processo e sono note quindi come Vedānta o "fine dei Veda". Rappresentano il culmine mistico e filosofico dei Veda. Contengono gli insegnamenti dei grandi maestri che indicano il cammino della liberazione (mokṣa). (p. 43)
  • L'Uno rappresenta la vetta della coscienza mistica, che l'India ha sviluppato in seguito nella filosofia dell'advaita (non-dualità) e l'occidente nella teologia della Trinità. (p. 74)
  • Nei Brāhmaṇa troviamo, nel complesso, le stesse idee base dei Veda relative alle origini, ma qui il preludio dell'Essere viene sviluppato ed evidenziato dal punto di vista del sacrificio cosmico e del suo significato liturgico. Prajāpati procrea facendo appello alla sua energia creativa, attuando quella concentrazione ardente nota come tapas. Non avendo nulla da cui creare il mondo, egli deve ricorrere a se stesso, smembrandosi, offrendo se stesso come sacrificio, dividendosi in pezzi in modo che da lui defluisca la vita. Le creature che egli ha generato sono non solo la sua interezza, così che quando le creature sono, non c'è più spazio per lui, anzi esse lo abbandonano – perché egli non è più! (p. 104)
  • Le Upaniṣad narrano dell'alba della coscienza umana. L'uomo prende coscienza di se stesso e tramite questo atto diventa cosciente della sua solitudine e del modo di superarla. Il suo non è semplicemente il desiderio dell'altro, nemmeno di un altro simile a sé o a una parte di sé, ma un dinamismo verso la pienezza del Sé, l'integrazione del Sé con l'intero universo. (pp. 108-109)
  • L'avventura del vivere comincia, secondo le Upaniṣad, con una duplice scoperta, cioè che l'interiorizzazione è il mezzo per afferrare la realtà e che la realtà atemporale consiste di pura trascendenza. (p. 297)
  • Brahman nel primo periodo vedico significa preghiera e persino sacrificio; nel periodo delle Upaniṣad significa Essere e Fondamento assoluto, proprio perché il sacrificio era considerato essere tale Fondamento. Il significato formale di Brahman non è cambiato; solo il contenuto materiale del concetto è stato "riempito" diversamente; in un caso Brahman era "sacrificio"; nell'altro "essere".
    Inutile dire che il processo è stato lungo e continuo, e le parole "essere" e "sacrificio" non rendono con precisione la nozione di Brahman in nessuno dei due casi. (p. 564)
  • Un genere di riflessione è sostanzialmente assente dall'intera esperienza vedica: è la domanda, in seguito così tormentosa, del perché. Il fatto di soffrire, la realtà dell'angoscia umana, viene accettato semplicemente, come un dato di fatto, come qualcosa con cui bisogna aver a che fare, sia riguadagnando la felicità e l'equilibrio perduti, sia trascendendo totalmente la dolorosa condizione umana. La speculazione vedica, tuttavia, non se ne chiede il perché. (p. 638)
  • Questo Brahman, sorgente e fine di ogni cosa, non è un "essere" separato, non è solo all'inizio e alla fine del pellegrinaggio ontico: Brahman è coscienza. Tutti gli esseri non sono altro che riflessi, ombre, pensieri, oggetti, creature di questa coscienza pura. Noi siamo solo in quanto siamo in Brahman e veniamo da Brahman. Egli è l'Unità ultima della realtà. (p. 918)
  • Il conoscitore non è i miei sensi, né la mia ragione, perché anche tu hai una ragione e noi osserviamo che ambedue sembriamo obbedire a certe leggi dialettiche, cosicché né la mia né la tua ragione possono essere il soggetto ultimo, il vero conoscitore. Questo fa emergere il concetto di ātman come soggetto ultimo, come il conoscitore ultimo. (p. 957)
  • Oṁ è la prima Parola, il primo simbolo di tutto l'universo, la prima manifestazione, la realtà concentrata fatta parola, cioè suono, concetto, forma, materia, spirito. È la Parola che precede il mondo, è la Parola in conformità alla quale il mondo si è formato. (pp. 1059-1060)

Bibliografia[modifica]

  • Raimon Panikkar, I Veda. Mantramañjarī, a cura di Milena Carrara Pavan, traduzioni di Alessandra Consolaro, Jolanda Guardi, Milena Carrara Pavan, BUR, Milano, 2001.

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