Sebastiano Vassalli

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Sebastiano Vassalli (1941 – 2015), scrittore italiano.

Citazioni di Sebastiano Vassalli[modifica]

  • Abbiamo perso il futuro. Gli scenari della "fine del mondo" cambiano, ma la perdita del futuro è dentro di noi e noi ne siamo i portatori, anche se non condividiamo le ragioni di chi immagina un avvenire di catastrofi e magari non le conosciamo nemmeno. Viviamo in un mondo che fa sempre più fatica a guardare oltre il proprio presente: perfino in quelle attività umane, come la letteratura e le arti, di cui in passato si pensava che dovessero tendere al sublime, cioè a qualcosa di eterno. (da Il futuro fa paura? Utopie e antiutopie della fantascienza[1])
  • Ci sono dei periodi, nella nostra storia, in cui per guardare avanti bisogna voltarsi. Come ai tempi di Omero e come oggi. Achille, Ettore e Ulisse avevano qualcosa da dire a chi viveva mille anni dopo di loro e hanno qualcosa da dire ancora a noi, dopo che sono passati altri tremila anni. Qualcosa che né la televisione né il web né i vicini di casa saprebbero dirci. (da Terre selvagge, Rizzoli, 2014)
  • Cosa dovrebbe regalarci il robot di Natale? La risposta è semplice: dovrebbe regalarci un nemico [...]. Come possiamo volerci bene tra noi se non abbiamo un nemico?[2]
  • Guerra di popolo è una guerra non di soldati, ma di uomini. Che combattono per se stessi, anzitutto: per motivi chiari, evidenti, per ideali in cui credono; e non perché ne hanno ricevuto l'ordine o perché son pagati per questo.[3]
  • Il mestiere dello scrittore consiste nel raccontare storie. Così era ai tempi di Omero e così è ancora oggi. È un mestiere antico come il mondo, che risponde ad una necessità degli esseri umani, ad un loro bisogno fondamentale: quello di raccontarsi. Finché ci saranno nel mondo due persone, ci sarà chi racconta una storia e ci sarà chi ascolta una storia. Quante cose si fanno, o si sono fatte, che non si sarebbero mai fatte se non ci fosse stata la possibilità di raccontarle! Senza la memoria del passato che è all'origine di ogni racconto, il nostro percorso di civiltà sarebbe ancora fermo da qualche parte nella notte dei tempi. Le grandi conquiste e le grandi imprese di ogni genere non avrebbero avuto lo stimolo per compiersi, e anche gli atti di eroismo sarebbero stati rari, e sarebbero stati scambiati per follia….. (da Un nulla pieno di storie. Ricordi e considerazioni di un viaggiatore nel tempo, Interlinea 2010).
  • La poesia è vita che rimane impigliata in una trama di parole. (da Amore lontano, Einaudi)
  • La Resistenza non è soltanto un episodio militare della storia recente d'Italia, anche se ormai questa interpretazione restrittiva farebbe comodo a molti. La Resistenza non è soltanto un episodio politico, un momento di transizione tra la caduta della monarchia e del fascismo e l'avvento di uno Stato democratico e repubblicano. E neppure la si può considerare alla stregua di un «bel gesto», di un fatto di redenzione culturale e civile necessario per far uscire l'Italia dalla barbarie e rimetterla in linea con i paesi progrediti. La Resistenza fu tutte queste cose e altre ancora. Ma fu anzitutto, come già s'è detto, guerra di popolo.[3]
  • La storia del Pulcinoelefante è la storia di Alberto Casiraghi (in arte: Casiraghy), nato a Osnago nel ‘52, tipografo, artista, poeta ma soprattutto editore. «Il panettiere degli editori: l’unico che stampi in giornata», come disse di lui Vanni Scheiwiller. Ancora ragazzo, Casiraghi viene assunto come apprendista compositore dalla tipografia Same di piazza Cavour a Milano, dove si stampano alcuni tra i più importanti quotidiani di quegli anni: Il Giornale di Indro Montanelli, La Notte, il Corriere d’Informazione e l’Avanti!. Sveglio e attento, viene notato da Montanelli che spesso si rivolge a lui per la composizione della prima pagina (suscitando le gelosie dei colleghi più anziani). Negli anni Ottanta i giornali devono adeguarsi alle nuove tecniche di stampa e i caratteri in piombo vengono abbandonati. Casiraghi lascia la Same nell’85 e compera, a prezzi di liquidazione, due delle macchine su cui lavorava: una delle due macchine è l’Audax Nebiolo che ancora oggi troneggia al centro della sua casa e che serve a stampare le edizioni del Pulcinoelefante.[4]
  • Le edizioni Pulcinoelefante di Osnago, in provincia di Lecco, compiono 25 anni. Venticinque anni di poesia, di sogni e di immagini strappate alla tirannia del tempo autorizzano un primo bilancio, con i numeri del pulcino e con quelli dell’elefante. I numeri dell’elefante sono: 7 mila titoli pubblicati dal 1982 a oggi, con più di 5 mila autori tra poeti e illustratori. I numeri del pulcino sono: 13 centimetri e mezzo per 19 e mezzo, che è il formato dei libri. Otto che è il numero delle pagine di ogni libro, contate a partire dal frontespizio. Venticinque, 30 o, al massimo, 35, che è la tiratura di ogni singolo volume. [...] Un libro della Merini, del ‘96, s’intitola Breve storia del Pulcinoelefante. Contiene questa poesia: «Notte tempo / il vecchio portò suo figlio / sul monte dell’elefante, / ma lo salvò il pulcino / perché dovevano nascere / i librini di Alberto».[5]
  • […] una guerra di popolo, non può iniziare per scopi aggressivi. Non viene decisa a tavolino, tra mestieranti di strategia e di politica. Una guerra di questo genere inizia sempre molto tardi, perché le masse contadine e operaie sono abituate da secoli a sopportare l'oppressione e non sanno esprimersi con la violenza (che è prerogativa storica dei ceti parassitari); ma, una volta iniziata, è tale che gli stessi mestieranti di strategia e politica e i potenti della terra ne hanno paura, giustamente.[3]
  • Una guerra di popolo non si ferma a comando, non ha frontiere e regole del gioco, non ha eroici protagonisti e sterminati greggi di comparse disposte a morir tacendo, come le guerre «normali», le guerre dei padroni.[3]

L'oro del mondo[modifica]

Incipit[modifica]

Il telegramma da Milano diceva: «Comunicasi at familiari avvenuto decesso Alvaro S. Sentite condoglianze», eccetera. Ci sono andato col treno e c'era sciopero dei mezzi pubblici: tram, metropolitana, tassí. Una baraonda, un caos. Strade rigurgitanti di automobili intrappolate nel traffico, che strombettavano, di motorini come sopra, che scoppiettavano, di automobilisti appiedati che anche cosí sgomitavano per sorpassarsi, di vigili congestionati che cercavano di mettere un po' d'ordine e di sbrogliare l'orribile matassa.

Citazioni[modifica]

  • [Riferendosi all'eccidio di Cefalonia e al comportamento collaborazionista di un migliaio di italiani superstiti] «Tutti quei morti, — disse ancora lo zio Alvaro, — sono morti per niente, e il resto è merda: la guerra, il seguito, tutto». Rimase a lungo in silenzio. «Se ti dicessi, — riprese, — che tra i sopravvissuti c'è stato anche chi ci ha fatto la carriera, su quella strage, tu forse non mi crederesti. Invece il carrierista c'è stato. Così come ci sono stati quelli che all'indomani della strage si sono offerti di passare coi tedeschi, senza che nessuno ce li costringesse, bada bene! Di loro scelta. Volontariamente. Quasi mille italiani, a Cefalonia, sono poi diventati collaborazionisti, subito dopo il massacro; hanno aiutato gli assassini a liberarsi dei cadaveri, a rimettere in sesto le difese costiere, a falsare le carte dell'eccidio e, infine, il tocco d'artista: quando i tedeschi si sono ritirati, loro si sono finti partigiani e sono rientrati in Italia con gli onori delle armi... Non mi vuoi credere? Ti dà nausea? E allora, se sei debole di stomaco, devi lasciar perdere quel tuo romanzo. La storia è merda, Sebastiano. Secolo dopo secolo. Tonnellata dopo tonnellata. Un immenso letamaio e basta». (p. 150)
  • [Sull'eccidio di Cefalonia] La presunta «resistenza» dei mille italiani rimasti a Cefalonia, armati al servizio dei tedeschi fino al settembre del'44, è una favola (avallata probabilmente dagli stessi tedeschi) con cui si è tentato di coprire una pagina ingloriosa del costume nazionale di sempre. (nota n. 6 al testo, p. 174)

La chimera[modifica]

Incipit[modifica]

Nella notte tra il 16 e il 17 gennaio 1590, giorno di sant'Antonio abate, mani ignote deposero sul torno cioè sulla grande ruota in legno che si trovava all'ingresso della Casa di Carità di San Michele fuori le mura, a Novara, un neonato di sesso femminile, scuro d'occhi, di pelle e di capelli: per i gusti dell'epoca, quasi un mostro.

Citazioni[modifica]

  • Era una precisa tecnica di governo al tempo della dominazione spagnola in Italia, questa di costringere i sudditi a convivere con leggi inapplicabili e di fatto inapplicate, restando sempre un poco fuori della legge: per poterli poi cogliere in fallo ogni volta che si voleva riscuotere da loro un contributo straordinario, o intimidirli, o trovare una giustificazione per nuove e più gravi irregolarità. (cap. 4, p. 44)
  • Ognuno badava a sé stesso e alle sue cose, nel Seicento, e per badare a tutti c'era solo Dio; avevano ben altre faccende a cui pensare, i Tribunali dell'epoca! (cap. 7, p. 68)
  • È qui infatti, nelle liti di cortile, che l'odio umano si raffina e si esalta fino a raggiungere vette insuperabili, diventa un assoluto. È l'odio puro: astratto, disincantato, disinteressato; quello che muove l'universo, e che sopravvive a tutto. (cap. 7, p. 73)
  • Le sembrò un'assurdità che la tigre esistesse davvero, e che fosse stata viva, e che poi fosse finita proprio lì, in quel granaio e in mezzo a quella gente, per opera di quei preti dalle grandi barbe... Sentì di odiarli. Che diritto avevano, quei preti, di rimescolare a quel modo le cose del mondo? (cap. 9, p. 93)
  • I contadini ascoltavano sbalorditi. Perché mai – si chiedevano – questo nuovo cappellano non si limita a minacciarci l'Inferno nell'altra vita, come tutti i preti, lasciandoci poi liberi di fare in questo mondo quello che vogliamo? (cap. 10, p. 100)
  • Soldi di rame, d'argento, soldi cosiddetti «di lega», soldi d'oro: da quando era arrivato a Zardino quel nuovo prete – pensavano i villani – era come se al centro del paese fosse stato aperto un ufficio del buon Dio per riscuotere soldi su tutto: sulle nascite, sulle morti, sulla pioggia, sul sole, sul grano, sui fagioli, sulla méliga... (cap. 12, p. 116)
  • Quelle [altre] Reliquie invece si conservavano religiosamente nelle chiese, si esponevano ai fedeli e a nessuno mai era passato per la testa di metterle in discussione: vere o false che fossero, autentico era il culto che gli veniva dedicato. Perché allora – si chiesero molti abitanti di Novara – soltanto a loro doveva essere proibito di venerare le Reliquie del Cavagna, accolte a furor di popolo nella loro città, per quel solo motivo, che non erano autentiche? Perché la loro credulità, davanti a Dio, valeva meno di altre credulità? Perché li avevano imbrogliati? (cap. 12, p. 122)
  • Soltanto in quel luogo consacrato dai millennio [Roma] tutto ciò che c'è stato e ci sarà può convivere con tutto: l'alto e il basso, il vecchio e il nuovo, la religione e l'empietà, il fasto e la miseria, persino Dio e il Diavolo sembravano aver trovato un equilibrio stabile e duraturo in quella città, dove tutto è già accaduto, e mica una sola volta! Mille volte. (cap. 13, p. 130)
  • Il lavoro è l'ultima risorsa dei coglioni! È l'ultima speranza dei falliti, ricordatene! Tieni la fronte alta e la schiena dritta e non lavorare mai, per nessun motivo e nemmeno per fame. (cap. 22, p. 213)
  • C'è sempre, arriva sempre nella vita di un uomo che abbia avuto in gioventù un forte stimolo ideale, il momento in cui si prende atto definitivamente, senza più speranze né illusioni né sogni, dell'inerzia delle cose e del mondo. Il momento in cui si capisce che la fede non smuove le montagne; che le tenebre prevarranno sempre sulla luce, l'inerzia soffocherà il moto e così via. (cap. 27, p. 260)
  • Vide i busti e i profili dei soldati che cavalcavano di fianco alla carrozza, e la folla lungo il percorso: i pugni alzati, e facce stravolte con le bocche spalancate a insultare e a maledire e a invocare una morte, la sua morte! Proseguendo verso Porta San Gaudenzio, s'accorse che per non sentire quelle grida bastava non ascoltarle. Guardava i volti e i corpi degli uomini là fuori come avrebbe guardato dei pesci in una boccia divetro; li vedeva lontani ed anche strani, anzi si meravigliava di non aver mai fatto caso a quei dettagli che ora le sembravano così assurdi; di non essersi mai stupita in precedenza di quelle forme, considerandole – come tutti – inevitabili, e assolutamente sensate! Di averle sempre credute... normali! Quei cosiddetti nasi, quelle orecchie.... Perché eran fatte così? Quelle bocche aperte con dentro quei pezzi di carne che si muovevano. Che insensatezza! Che schifo! E quell'esplosione incontenibile di odio, da parte di individui che fino a pochi giorni prima non sapevano nemmmeno che lei esistesse e ora volevano il suo sangue, le sue viscere, reclamavano d'ammazzarla loro stessi, lì sul momento e con le loro mani... C'era forse un senso, una ragione in tutto questo? E se non c'era, perché accadeva? Ecco, pensava: io sto qui, e non si perché sto qui; loro gridano, e non sanno perché gridano. Le sembrava di capire, finalmente!, qualcosa della vita: un'energia insensata, una mostruosa malattia che scuote il mondo e la sostanza stessa di cui sono fatte le cose, come il mal caduco scuoteva il povero Biagio quando lo coglieva per strada. Anche la tanto celebrata intelligenza dell'uomo non era altro che un vedere e non vedere, un raccontarsi vane storie più fragili d'un sogno: la giustizia, la legge, Dio, l'inferno... (cap. 30, p. 291)
  • Arrivavano da ogni parte della bassa e anche dalle città: da Novara, da Vercelli, da Gattinara; con le famiglie, con gli amici, con i vecchi di casa, con i bambini, con i carri carichi di vino e di cibarie per far baldoria, e stare in allegria, e festeggiare la fine dell'estate. Non erano gente sanguinaria, né malvagia. Al contrario, erano tutti brava gente: la stessa brava gente laboriosa che nel nostro secolo ventesimo affolla gli stadi, guarda la televisione, va a votare quando ci sono le elezioni, e, se c'è da fare giustizia sommaria di qualcuno, la fa senza bruciarlo, ma la fa; perché quel rito è antico come il mondo e durerà finché ci sarà il mondo. (Finché continueranno ad esserci degli uomini ci saranno i Gesucristi e le Gesucriste, come disse Antonia). (cap. 30, p. 294)

Il cigno[modifica]

Incipit[modifica]

Un breve fischio, uno strappo, un cigolio lungo di ferraglia sotto i piedi dei viaggiatori e l'accelerato per Palermo si rimise in moto, stridendo e scricchiolando in tutte le connessioni delle sue carrozze vetuste, mentre dalla locomotiva lontana giungeva l'ànsito del vapore imprigionato nella caldaia e mentre il tonfo dei pistoni si faceva sempre più rapido e convulso, a mano a mano che il treno acquistava velocità.

Citazioni[modifica]

  • Giuseppina Crispi guardava quella Sicilia di cui, da quando era al mondo, non aveva sentito raccontare che meraviglie; tutti [...] ne parlavano come di una terra meravigliosa e fantastica, dove tutti gli estremi si toccano e riescono a convivere, tutte le bellezze del creato si manifestano davanti agli occhi increduli del viaggiatore... Ciò che invece lei stava vedendo, da parecchi giorni, era il paesaggio più desolato e monotono che si potesse immaginare, per lo meno in Italia; una campagna affogata nella polvere e già brulla prima ancora che l'estate fosse iniziata: in primavera nella stagione più bella dell'anno! Dappertutto si vedevano colline grige o gialle di tufo, senza nemmeno un albero, e inerpicati a mezza costa o sul cocuzzolo di quelle colline c'erano certi paesi assurdi ed evanescenti dove nessuna persona sana di mente- pensava la ragazza – sarebbe mai venuta a viverci per una scelta... (p. 49)

Cuore di pietra[modifica]

Prologo – Gli Dei[modifica]

In principio di questa storia c'è la città. La città è una città piuttosto piccola che grande, piuttosto brutta che bella, piuttosto sfortunata che fortunata e però e nonostante tutto questo che s'è appena detto, piuttosto felice che infelice. Era – ed è – collocata in una grande pianura, su una sorta di dosso formato, qualche milione di anni fa, dal moto delle maree o dai sedimenti dei fiumi di un mondo ancora inconsapevole delle nostre vicende, ancora beato dei suoi dinosauri e delle sue felci grandi come alberi; e si affaccia su un orizzonte di montagne cariche di neve come sulle quinte di un immenso palcoscenico, in un paesaggio che gli Dei hanno voluto sistemare in questo modo, perché fosse il loro teatro. Lassù sopra le nostre teste, infatti, negli spazi senza tempo che noi chiamiamo universo, di tanto in tanto gli Dei – quelli di Omero – vengono ad assistere allo spettacolo delle nostre passioni e delle nostre lotte; e un'eco delle loro risate è forse percepibile nello scroscio delle acque che in primavera straripano tutt'attorno alla città, allagando i terreni coltivati, e nel rumore del vento che, d' autunno, fa turbinare le foglie sui viali, spingendo le nuvole verso le montagne lontane. Gli Dei – già il vecchio Omero ne era consapevole – non hanno alcuna pietà delle sciagure degli uomini e hanno un senso dell' umorismo piuttosto bizzarro, perché conoscono l'esito delle nostre vicende prima ancora che siano incominciate; sanno il giorno e l'ora in cui moriremo, e in quali circostanze; e ridono fino alle lacrime vedendoci lottare per cose che non ci apparterranno, e che saranno comunque diverse da come le abbiamo immaginate. Ciò che soprattutto li diverte, però, sono i nostri progetti e i nostri sforzi per dare un senso al futuro; e la storia che si racconta in queste pagine, di una casa e degli uomini e delle donne che ci abitarono, e del sogno di un mondo più libero e più giusto che si sognò nella città di fronte alle montagne e nella grande pianura, li avrebbe forse fatti morire dal ridere, se gli Dei potessero morire. Era dai tempi di Omero, e della guerra di Troia, che i nostri vicini del piano di sopra non spalancavano così larghe le loro bocche e non facevano risuonare così forte le loro voci, da un capo al!'altro dell'universo. Chi leggerà questa storia, se tenderà l'orecchio, potrà sentire quasi in ogni pagina un'eco affievolita di quel lontano clamore; e, ancora dopo avere chiuso il libro, di tanto in tanto gli sembrerà di riascoltare le risate degli Dei, lassù oltre l'azzurro del cielo dove loro vivono...

Citazioni[modifica]

  • Sette giorni di febbre e due giorni di agonia, e la signorina Orsola se ne andò da questa affollata anticamera che è il mondo dei vivi, per trasferirsi nell'unico mondo durevole e reale: quello dei personaggi di romanzo. (p. 32)
  • I sordi hanno il privilegio di capire sempre ciò che vogliono loro. (p. 56)
  • Forse è un bene – si disse il nostro personaggio – che la vita umana abbia un termine, e che, quando abbiamo inio di sognar tutti i nostri sogni, arrivi una mano pietosa a toglierci da un'epoca che non è più la nostra epoca. (p. 103)
  • Nella città di fronte alle montagne, infatti, le grandi passioni sono rare, durano poco e vengono tenute nascoste dagli interessati; che – quasi sempre a ragione – ne provano vergogna. (p. 136)
  • Le grandi opere sono prodotte dal talento, quelle grandissime dal talento e dai tempi. (p. 186)
  • Ma i giovani – è risaputo – per loro e per nostra fortuna, non sempre si comportano come vorrebbe la logica; e gli artisti in particolare riescono a volte a lasciare una traccia di sé nella memoria degli altri, perché si avventurano su certe strade che nessuno aveva seguito prima di loro, e fanno cose che le persone considerate sagge di solito non fanno. (p. 199)
  • Ma la pace, come la calma e come il sonno, si nomina soltanto quando è lontana. (p. 227)
  • Ora, l'Uomo della Provvidenza non c'era più e gli scienziati della rivoluzione erano ritornati, assolutamente simili a quelli di un tempo. Avevano più o meno la stessa età, le stesse certezze, la stessa superbia che li portava a guardare con commiserazione chiunque non parlasse e non ragionasse come loro, con le stesse frasi fatte e le stesse parole d'ordine. (p. 254)
  • Perché le ragioni della vita sono più forti di quelle della memoria, e perché gli Dei che stanno sopra le nostre teste vogliono che lo spettacolo continui, in ogni caso e qualunque cosa accada! (p. 257)
  • Nella città di fronte alle montagne, e in tutta Italia, il sistema delle Usl aveva e ha tuttora un solo merito, quello di essere riuscito a creare una popolazione di ammalati così resistenti e coriacei da poter sopravvivere a ogni genere di disagi e da poter superare prove tali, che in un paese meglio organizzzato e meglio amministrato riuscirebbero a far schiattare anche le persone più sane. (p. 276)

Gli scienziati della rivoluzione[modifica]

Di notte la pianura era punteggiata di fuochi, di pagliai e di interi cascinali che bruciavano; di giorno arrivavano in città i lavoratori delle campagne, in bicicletta o sui carri tirati da quegli enormi cavalli che erano le macchine agricole dell'epoca, e si riunivano in piazza Municipio o in piazza Castello con gli operai delle fabbriche, gridavano tutti insieme «evviva la rivoluzione bolscevica», «evviva il popolo sovrano», «a morte i padroni»! Un deputato socialista locale, un tale Frasca, cercava di mettere un po' d'ordine in quell'accavallarsi di rivendicazioni, in quell'urlio indistinto e confuso, ma la folla non lo ascoltava e lo fischiava; voleva sentir parlare gli altri, quelli che Alessandro Annovazzi chiamava «gli scienziati della rivoluzione», perché, ogni volta che avevano sprecato un poco del loro prezioso tempo per rispondere a una sua domanda, gli avevano detto con sussiego che la storia umana è mossa dalle leggi dell'economia, cioè della scienza: chi governa l'economia, governa la storia! Gli scienziati portavano occhialini cerchiati d'oro, venivano dalle grandi città e, quando salivano sul palco in mezzo alle bandiere rosse, gridavano che il sistema capitalistico stava per crollare sotto i colpi del movimento operaio internazionale che l'avevano già messo in ginocchio; entro pochi mesi – garantivano – l'infame borghesia sarebbe scomparsa, e sarebbe iniziata una nuova epoca di pace, di progresso e di straordinario benessere, portata dai lavoratori! Gli operai sarebbero diventati i padroni del mondo: delle case, delle scuole, delle fabbriche, dei campi, delle nuvole... Alessandro trasecolava. «Ma, – cercava di obiettare ai giovani con gli occhialini, – siete proprio sicuri che la caduta della borghesia sia un fatto cosi meccanico e cosi certo, come la caduta dei gravi o quella delle foglie d'autunno? E poi, via, siamo seri: gli operai padroni del mondo è una bella frase, ma i problemi di chi lavora sono di tutt'altro genere! Se si continua a gridare alla rivoluzione e non la si fa, si ottiene soltanto di far crescere l'odio... Non ci avete pensato?»

Epilogo – Gli Dei[modifica]

Ogni tanto gli Dei tornano ad affacciarsi sul golfo della pianura delimitato dalle montagne lontane, e applaudono e gridano stando sospesi lassù sopra le nostre teste, mentre assistono alle rappresentazioni di un autore che sa mescolare come nessun altro la tragedia e la farsa, e che si esprime con le vicende degli uomini pur restandone assolutamente estraneo: il tempo! Se gli uomini non esistessero sulla terra, lo spettacolo del tempo si ridurrebbe a ben poca cosa; ed è per questo motivo che gli Dei li hanno fatti esistere. Gli Dei di Omero – è risaputo – sono degli eterni bambini, e tutto li diverte: anche l'aggregarsi e il dissolversi delle nuvole, anche il cadere delle foglie in autunno e lo sciogliersi delle nevi in primavera hanno il potere di fargli schiudere le labbra, e di far scintillare i loro denti immortali; ma perché l'universo intero rimbombi delle loro risate bisogna mettere in scena ciò che il tempo sa fare con gli uomini, dappertutto e in quella pianura circondata dalle montagne che è, appunto, il loro teatro. Bisogna mostrargli la nostra protagonista com' è adesso, vuota e buia e con i suoi saloni ingombri di calcinacci, di siringhe, di sterchi, di coperte insanguinate, di frammenti di vetro... Oppure, bisogna fargli vedere l'immensa pianura percorsa in ogni direzione da milioni di quei contenitori di metallo che noi chiamiamo automobili, e le piazze e le strade della città di fronte alle montagne, dove passarono cantando e schiamazzando i cortei delle bandiere rosse e quelli delle camicie nere, divenute percorsi obbligati per i nuovi mostri meccanici. Tutto sembra reale, adesso come allora e come sempre, ma è uno spettacolo del tempo: un'illusione, che di qui a poco svanirà per lasciare il posto a un'altra illusione. È perciò che le risate degli Dei rimbombano e rotolano da una parte all'altra del cielo con i temporali d'aprile, e che le loro grida d'incitamento spazzano la pianura con i venti d'ottobre. I personaggi di questa storia che è finita, e gli altri delle infinite storie che ancora devono incominciare, le loro futili imprese, le loro tragicomiche morti non sono altro che alcune invenzioni tra le tante di quell'eterno, meraviglioso, inarrivabile artista che è il tempo. È lui che ci parla con la nostra voce, che ci guida, che manipola i nostri desideri e i nostri sogni e alla fine cancella le nostre vite per sostituirle con altre vite, di altri uomini che noi non conosceremo mai. È lui che ci fa credere di essere il centro e la ragione di tutto, mentre ci ispira comportamenti e pensieri così stupidi che gli Dei ne ridono ancora quando ritornano lassù nel loro eterno presente, abbandonandoci agli sbalzi d'umore e ai capricci del nostro autore e padrone. Un suo battito di ciglia, e l'uomo che ha scritto questa storia non esisterà più; un altro battito di ciglia, e al posto della grande casa sui bastioni ci sarà un edificio di cristallo in cui si rifletteranno le nuvole e le montagne lontane; un terzo battito di ciglia, e i contenitori chiamati automobili saranno a loro volta scomparsi... Perché no? Soltanto gli Dei sono immortali, mentre tutto ciò che esiste nel tempo è destinato a perire. Homo humus, fama fumus, finis cinis.

Un infinito numero[modifica]

  • Con la lettura ci si abitua a guardare il mondo con cento occhi, anziché con due soli, e a sentire nella propria testa cento pensieri diversi, anziché uno solo. Si diventa consapevoli di se stessi e degli altri. Gli uomini senza la lettura non conoscono che una piccolissima parte delle cose che potrebbero conoscere. La lettura può dare cento, mille vite diverse ed una sapienza ed un dominio sulle cose del mondo che appartengono solo agli dei. (Timodemo di Nauplia)
  • La Fama di cui Virgilio, nell'Eneide, celebrò lo smisurato potere è anche la più inaffidabile ed iniqua delle dee, più della stessa fortuna; gli uomini che godono dei suoi favori sono come gli insetti, che volano di notte intorno ad una lanterna, inebriandosi della sua luce. Si sentono splendidi, e in quel momento effettivamente lo sono, ma il loro trionfo dura pochissimo e non lascia tracce. Che memoria può avere la notte dei suoi insetti? E che memoria può avere il tempo degli uomini che lo fanno esistere senza la scrittura? (Timodemo di Nauplia)
  • A volte mi soffermo a spiare un fiore mentre sboccia, o a seguire i movimenti di un ragno che sta tessendo la sua rete. Penso a quella sostanza impalpabile che chiamiamo tempo, e che esiste solamente per noi. Noi uomini misuriamo il tempo col sole e con i cicli della luna, con i chiodi piantati nel tempio di Northia, con i calcoli dei sacerdoti che stabiliscono la lunghezza esatta di un secolo; ma qual è il tempo dei fiori, e qual è il tempo dei ragni? Esiste un tempo anche per loro, o non dovremmo dire piuttosto che ogni fiore di una determinata specie è sempre lo stesso fiore, e che ogni ragno è sempre lo stesso ragno? Che il fiore e il ragno non muoiono mai, e che gli uomini muoiono soltanto perché vivono nel tempo?

Note[modifica]

  1. Citato in Sulla "Domenica" un inedito di Sebastiano Vassalli, il Sole 24 Ore.com, 31 luglio 2015.
  2. Da Il robot di Natale e altri racconti, Interlinea, 2006, p. 45. ISBN 8882125831
  3. a b c d Citato in Renata Viganò, prefazione a L'Agnese va a morire, Einaudi, 1974.
  4. Da Pulcinoelefante i piccoli libri diventano grandi, La Stampa, 3 giugno 2007.
  5. Da Pulcinoelefante i piccoli libri diventano grandi, La Stampa, 3 giugno 2007.

Bibliografia[modifica]

  • Sebastiano Vassalli, Cuore di pietra, Einaudi, 1996.
  • Sebastiano Vassalli, Il Cigno, Einaudi, Torino, 1993.
  • Sebastiano Vassalli, Il futuro fa paura? Utopie e antiutopie della fantascienza, su Domenica, Il Sole 24 Ore, 2 agosto 2015.
  • Sebastiano Vassalli, L'oro del mondo, Einaudi, Torino, 1987. ISBN 88-06-14956-3
  • Sebastiano Vassalli, La chimera, Einaudi, Torino, 1992. ISBN 8806129376
  • Sebastiano Vassalli, Un infinito numero, Einaudi, aprile 2001.
  • Sebastiano Vassalli con Giovanni Tesio, Un nulla pieno di storie. Ricordi e considerazioni di un viaggiatore nel tempo, Interlinea, 2010. ISBN 978-88-8212-735-0

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