Eneide
Eneide, poema epico scritto da Publio Virgilio Marone tra il 29 a.C. e il 19 a.C.
Annibal Caro
[modifica]L'armi canto e 'l valor del grand'eroe
che pria da Troia, per destino, a i liti
d'Italia e di Lavinio errando venne;
e quanto errò, quanto sofferse, in quanti
e di terra e di mar perigli incorse,
come il traea l'isuperabil forza
del cielo, e di Giunon l'ira tenace;
e con che dura e sanguinosa guerra
fondò la sua cittade, e gli suoi dei
ripose in Lazio: onde cotanto crebbe
il nome de' Latini, il regno d'Alba,
e le mura e l'imperio alto di Roma.
Giuseppe Albini
[modifica]L'armi e l'uom canto che dal suol di Troia
primo in Italia profugo per fato
alle lavinie prode venne, molto
e per terre sbattuto e in mar da forza
ei de' Celesti per la memore ira
de la crudel Giunone, e molto ancora
provato in guerra, fin ch'ebbe fondata
la città e gli Dei posti nel Lazio,
onde il Latino genere e gli Albani
padri e le mura de l'eccelsa Roma.
Rosa Calzecchi Onesti
[modifica]Armi canto e l’uomo che primo dai lidi di Troia
venne in Italia fuggiasco per fato e alle spiagge
lavinie, e molto in terra e sul mare fu preda
di forze divine, per l’ira ostinata della crudele Giunone,
molto sofferse anche in guerra, finch’ebbe fondato
la sua città, portato nel Lazio i suoi dèi, donde il sangue
Latino e i padri Albani e le mura dell’alta Roma.
Musa, tu dimmi le cause, per quale offesa divina,
per qual dolore la regina dei numi a soffrir tante pene,
a incontrar tante angosce condannò l’uomo pio.
Così grandi nell’animo dei celesti le ire?
Mario Ramous
[modifica]Le armi canto e l'uomo che per primo dalla terra di Troia
esule raggiunse l'Italia e i lidi di Lavinio, spinto
dal fato e flagellato in terra e in mare dall'ostilità
degli dei, dall'ira implacabile dell'atroce Giunone,
e dopo aver sofferto a lungo in guerra, per poter fondare
la sua città e introdurre nel Lazio i Penati, dando radici
alla stirpe latina, ai padri albani e alle mura eccelse di Roma.
Musa, dimmi tu le cause: per quali offese al suo onore,
per quale mai rancore la regina degli dei costrinse un uomo
così devoto a dibattersi in tante sventure, a subire
tanti affanni? A tal punto giunge l'ira dei celesti?
M. Scaffidi Abbate
[modifica]Canto le armi e l'uomo che per primo dalle terre di Troia
raggiunse esule l'Italia per volere del fato e le sponde
lavine, molto per forza di dèi travagliato in terra
e in mare, e per la memore ira della crudele Giunone,
e molto avendo sofferto in guerra, pur di fondare
la città, e introdurre nel Lazio i Penati, di dove la stirpe
latina, e i padri albani e le mura dell'alta Roma.
Citazioni
[modifica]Libro I
[modifica]- Ma già [Giunone] contezza avea ch'era di Troia | per uscire una gente, onde vedrebbe | le sue torri superbe a terra sparse, | e de la sua ruina alzarsi in tanto, | tanto avanzar d'orgoglio e di potenza, | che ancor de l'universo imperio avrebbe: | tal de le Parche la volubil rota | girar saldo decreto. Ella, che tema | avea di ciò, non posto anco in oblio | come, a difesa de' suoi cari Argivi, | fosse a Troia acerbissima guerriera: | ripetendone i semi e le cagioni, | se ne sentia nel cor profondamente | or di Pari il giudicio or l'arroganza | d'Antigone, il concubito d'Elettra, | lo scorno d'Ebe, alfin di Ganimede | e la rapina e i non dovuti onori. (I, vv. 29-45)
- Di sì gravoso affar, di sì gran mole | fu, dar principio a la romana gente. (I, vv. 53-54)
- Già per l'ondoso mar disperse e rare | le navi e i naviganti si vedevano;[1] | già per tutto di Troia, a l'onde in preda, | arme, tavole, arnesi a nuoto andavano. (I, vv. 191-5)
- Come adivien sovente in un gran popolo, | allor che per discordia si tumultua, | e 'mperversando va la plebe ignobile, | quando l'aste e le faci e i sassi volano | e l'impeto e 'l furor l'arme ministrano,[2] | se grave personaggio e di gran merito | esce lor contro, rispettosi e timidi, | fatto silenzio, attentamente ascoltano, | ed al detto di lui tutti s'acquetano. (I, vv. 242-250)
- Qui stanchi tutti e maceri, e del mare | ancor paurosi, i liti a pena attinsero, | ch'a a terra avidamente si gittarono. | Acate fece in pria selce e focil | scintillar foco, e dielli esca e fomento. (I, vv. 278-282)
- Fermossi: e pronto a cotal uso avendo | l'arco e 'l turcasso (chè quest'armi appresso | gli portava mai sempre il fido Acate)[3] | diè lor di piglio. (I, vv. 297-301)
- E' verrà tempo | un dì, che tante e così rie venture, | non ch'altro, vi saran dolce ricordo.[4] (Enea: I, vv. 324-6)
- Soffrite, mantenetevi, serbatevi | a questo, che dal ciel si serba a voi, | sì glorïoso e sì felice stato. (Enea: I, vv. 332-4)
- Io sono Enea, quel pio che da' nemici | scampati ho meco i miei patrii Penati, | fino a le stelle omai noto per fama. | Italia vo cercando, che per patria | Giove m'assegna, autor del sangue mio. | Con diece e diece ben guarnite navi | uscii di Frigia, il mio destin seguendo | e lo splendor de la materna stella. (Enea: I, vv. 603-610)
- Ciò detto, nel partir, la neve e l'oro, | e le rose del collo e de le chiome, | come l'aura movea, divina luce | e divino spirâr d'ambrosia odore: | e la veste, che dianzi era succinta, | con tanta maestà le si distese | infino a' piè, ch'a l'andar anco, e Dea | veracemente e Venere mostrossi. (I, vv. 644-651)
- Ecco Priamo, ecco Troia; e qui si pregia | ancor vertù; chè ferità non regna | là 've umana miseria si compiagne. (Enea: I, vv. 742-4) [ad Acate]
- Guarda Priamo! Qui pure la gloria ha il suo premio, | e le pene hanno lagrime, toccan le cose degli uomini l'animo. (1989; 462)
- En Priamus! Sunt hic etiam sua praemia laudi, | Sunt lacrimae rerum et menten mortalia tangunt.
- Omai, signor, che pensi? | Tutto è sicuro, e tutti a salvamento | i nostri legni e i nostri amici avemo. | Sol un ne manca; e questo a noi davanti | il mar sorbissi. Ogni altra cosa al detto | di tua madre risponde. (Acate: I, vv. 945-950)
- Rimase in chiaro Enea, tale ancor egli | di chiarezza e d'aspetto e di statura, | che come un Dio mostrossi: e ben a Dea | era figliuol, che di bellezza è madre. | Ei degli occhi spirava e de le chiome | quei chiari, lieti e giovenili onori | ch'ella stessa di lui madre gl'infuse. (I, vv. 953-9)
- E me fortuna ancora, | a la vostra simile, ha similmente | per molti affanni a questi luoghi addotta, | sì che natura e sofferenza e pruova | de' miei stessi travagli ancor me fanno | pietosa e sovvenevole agli altrui.[5] (Didone: I, vv. 1012-8)
Libro II
[modifica]- Dogliosa istoria | e d'amara e d'orribil rimembranza, | regina eccelsa, a raccontar m'inviti.[6] | Come la già possente e glorïosa | mia patria, or di pietà degna e di pianto, | fosse per man de' Greci arsa e distrutta. | E qual ne vid'io far ruina e scempio: | ch'io stesso il vidi, ed io gran parte fui | del suo caso infelice.[7] (Enea: II, vv. 4-12)
- Ma se tanto d'udire i nostri guai, | se brevemente di saver t'aggrada | l'ultimo eccidio, ond'ella arse e cadéo, | benché lutto e dolor mi rinovelle, | e sol de la memoria mi sgomente;[8] | io lo pur conterò. (Enea: II, vv. 17-22)
- Sbattuti e stanchi | di guerreggiar tant'anni e risospinti | ancor da' fati, i greci condottieri | a l'insidie si diero; e da Minerva | divinamente istrutti, un gran cavallo | di ben contesti e ben confitti abeti | in sembianza d'un monte edificaro.[9] | Poscia finto che ciò fosse per voto | del lor ritorno, di tornar sembiante | fecero tal, che se ne sparse il grido. | Dentro al suo cieco ventre e ne le grotte, | che molte erano e grandi in sì gran mole, | rinchiuser di nascosto arme e guerrieri | a ciò per sorte e per valore eletti. (Enea: II, vv. 22-35)
- O ciechi, o folli, | o sfortunati! Agli nemici, a' Greci | date credenza? A lor credete voi | che sian partiti? E sarà mai che doni | siano i lor doni, e non più tosto inganni? | Così v'è noto Ulisse? O in questo legno | sono i Greci rinchiusi, o questa è macchina | contra alle nostre mura, o spia per entro | ai nostri alberghi, o scala o torre o ponte | per di sopra assalirne. E che che sia, | certo o vi cova o vi si ordisce inganno, | chè de' Pelasgi e de' nemici è 'l dono.[10] (Laocoonte: II, vv. 75-86)
- Or ascoltate | le malizie de' Greci: e da quest'uno | conosceteli tutti.[11] (Enea: II, vv. 113-5)
- Ché allor che questo dono a Palla offerto | per vostra man sia vïolato e guasto, | ruina estrema (la qual sopra lui | caggia più tosto)[12] a voi vuol che ne venga, | ed al gran vostro impero; ed, a rincontro, | quando da voi sia dentro al vostro cerchio | condotto e custodito; allor, che l'Asia | congiurerà con le sue forze tutte | a l'esterminio d'Argo; e che tal fato | sopra a' nostri nepoti in cielo è fisso. (Sinone: II, vv. 320-9)
- [...] m'agghiado | a raccontarlo [...].[13] (Enea: II, vv. 343-344)
- A ciò seguire immantinente accinti, | ruiniamo la porta, apriam le mura, | adattiamo al cavallo ordigni e travi, | e ruote e carri a' piedi, e funi al collo. | Così mossa e tirata agevolmente | la machina fatale il muro ascende, | d'armi pregna e d'armati, a cui d'intorno | di verginelle e di fanciulli un coro, | sacre lodi cantando, con dilétto | porgean mano a la fune. Ella per mezzo | tratta de la città, mentre si scuote, | mentre che ne l'andar cigola e freme, | sembra che la minacci. (Enea: II, vv. 392-404)
- Allor Sinone, | che per nostra ruina era da noi | e dal fato maligno a ciò serbato, | accostossi al cavallo, e 'l chiuso ventre | chetamente gli aperse, e fuor ne trasse | l'occulto agguato. Usciro a l'aura in prima | i primi capi baldanzosi e lieti, | tutti per una fune a terra scesi: | e fur Tisandro e Stènelo ed Ulisse, | Atamante e Toante e Macaone | e Pirro e Menelao con lo scaltrito | fabricator di questo inganno, Epeo. | Assalîr la città, che già ne l'ozio | e nel sonno e nel vino era sepolta; | ancisero le guardie; aprîr le porte; | miser le schiere congiurate insieme: | e dier forma a l'assalto. (Enea: II, vv. 430-446)
- Quand'ecco in sogno (quasi avanti gli occhi | mi fosse veramente) Ettor m'apparve | dolente, lagrimoso, e quale il vidi | già strascinato, sanguinoso e lordo | il corpo tutto, e i piè forato e gonfio. | Lasso me! quale e quanto era mutato[14] | da quell'Ettòr che ritornò vestito | de le spoglie d'Achille, e rilucente | del foco ond'arse il gran navile argolico! | Squallida avea la barba, orrido il crine | e rappreso di sangue; il petto lacero | di quante unqua ferite al patrio muro | ebbe d'intorno. (Enea: II, vv. 450-462)
- E già 'l palagio | era di Deifóbo arso e distrutto; | già 'l suo vicino Ucalegon ardea,[15] | e l'incendio di Troia in ogni lato | rilucea di Sigeo ne la marina; | e s'udian gridar genti e sonar tube. (Enea: II, vv. 511-6)
- [...] ove t'avventi | misero? Tal soccorso a tal difesa | non è d'uopo a tal tempo [...] (Ecuba: II, vv. 521-522)
- Il gran cavallo, | ch'era a Palla devoto, altero in mezzo | stassi de la cittade, e d'ogni lato | arme versa ed armati. Il buon Sinone | gode de la sua frode, e d'ogn'intorno | scorrendo si rimescola, e s'aggira | gran maestro d'incendi e di ruine. (Enea: II, vv. 541-547)
- Un sol rimedio | a chi speme non have è disperarsi.[16] (Enea: II, vv. 584-585)
- Compagni, disse, poi che la fortuna, | con questo sì felice, agli altri incontri | ne porge aita, a nostro scampo usianla. | Mutiam gli scudi, accomodianci gli elmi | e l'insegne de' Greci. O biasmo o lode | che ciò ne sia, chi co' nemici il cerca?[17] | L'arme ne daranno essi. (Corebo: II, vv. 636-642)
- Eterno, onnipotente | Signor, s'umana prece unqua ti mosse, | vèr noi rimira, e ne fia questo assai. | Ma se di merto alcuno in tuo cospetto | è la nostra pietà, padre benigno, | danne anco aita; e con felice segno | questo annunzio ratifica e conferma. (Anchise: II, vv. 1121-8)
Libro III
[modifica]- Era de l'anno | la stagion prima, e i primi giorni a pena, | quando, sciolte le sarte e date a' venti | le vele, come volle il padre Anchise, | piangendo abbandonai le rive e i porti | e i campi ove fu Troia,[18] i miei compagni | meco traendo e 'l mio figlio e i miei numi | a l'onde in preda, e de la patria in bando. (Enea: III, vv. 14-21)
- Ahi! perché sì mi laceri e mi scempi? | Perché, di così pio, così spietato, | Enea, vèr me ti mostri? A che molesti | un ch'è morto e sepolto?[19] A che contamini | col sangue mio le consanguinee mani? | Chè nè di patria nè di gente esterno | son io da te, né questo atro liquore | esce da sterpi, ma da membra umane. | Ah! fuggi, Enea, da questo empio paese, | fuggi da questo abbominevol lito: | chè Polidoro io sono, e qui confitto | m'ha nembo micidiale e ria semenza | di ferri e d'aste che dal corpo mio | umor preso e radici, han fatto selva. (Polidoro: III, vv. 66-79)
- Un de' figliuoli | era questi del re, ch'al tracio rege | fu con molto tesoro occultamente | accomandato allor che da' Troiani | incominciossi a diffidar de l'armi, | e temer de l'assedio. Il rio tiranno, | tosto che a Troia la fortuna vide | volger le spalle, anch'ei si volse, e l'armi | e la sorte seguì de' vincitori; | sì che, de l'amicizia e de l'ospizio | e de l'umanità rotta ogni legge, | tolse al regio fanciul la vita e l'oro. (Enea: III, vv. 82-93) [su Polidoro]
- Ahi de l'oro empia ed essecrabil fame! | E che per te non osa, e che non tenta | quest'umana ingordigia?[20] (Enea: III, vv. 94-6)
- Alto ricetto | tu dunque, e degno de l'altezza loro, | prepara intanto; e i rischi e le fatiche | non rifiutar di più lontano essiglio. (Penati: III, vv. 279-282)
- Oh! sei tu vero, o pur mi sembri Enea? | Sei corpo od ombra? Se da' morti udito | è il mio richiamo, Ettòr perchè te manda? | Perch'ei teco non viene? E sei tu certo | nunzio di lui? (Andromaca: III, vv. 512-7)
- O fortunata lei | sovr'ogni donna, che regina e vergine, | ne la sua patria a sacrificio offerta, | del nimico fu vittima e non preda, | né del suo vincitor serva né donna! | Io dopo Troia incensa, e dopo tanti | e tanti arati mari, a servir nata, | de la stirpe d'Achille il giogo e 'l fasto, | e 'l superbo suo figlio a soffrir ebbi. (Andromaca: III, vv. 529-537)
- Ma te quai venti, o qual nostra ventura | ha qui condotto, fuor d'ogni pensiero | di noi certo, e tuo forse? Ascanio nostro | vive? cresce? che fa? come ha sentito | la morte di Creusa? E qual presagio | ne dà, ch'Enea suo padre, Ettor suo zio | si rinovino in lui? (Andromaca: III, vv. 555-561)
- [...] i fati a ciò daranno | oportuno compenso. (Eleno: III, vv. 638-9)
- Quinci partito allor che da vicino | scorgerai la Sicilia, e di Peloro | ti si discovrerà l'angusta foce, | tienti a sinistra, e del sinistro mare | solca pur via quanto a di lungo intorno | gira l'isola tutta, e da la destra | fuggi la terra e l'onde. È fama antica | che di questi or due disgiunti lochi | erano in prima uno solo, che per forza | di tempo di tempeste e di ruine | (tanto a cangiar queste terrene cose | può de' secoli il corso), un dismembrato | fu poi da l'altro. Il mar fra mezzo entrando | tanto urtò, tanto ròse, che l'esperio | dal sicolo terreno alfin divise: | e i campi e le città, che in su le rive | restaro, angusto freto or bagna e sparte. | Nel destro lato è Scilla; nel sinistro | è l'ingorda Cariddi. (Eleno: III, vv. 658-675)
- Nel destro lato è Scilla; nel sinistro | è l'ingorda Cariddi. Una vorago | d'un gran baratro è questa, che tre volte | i vasti flutti rigirando assorbe, | e tre volte a vicenda li ributta | con immenso bollor fino a le stelle. | Scilla dentro a le sue buie caverne | stassene insidïando; e con le bocche | de' suoi mostri voraci, che distese | tien mai sempre ed aperte, i naviganti | entro al suo speco a sè tragge e trangugia. | Dal mezzo in su la faccia, il collo e 'l petto | ha di donna e di vergine; il restante, | d'una pistrice immane, che simíli | a' delfini ha le code, ai lupi il ventre. | Meglio è con lungo indugio e lunga volta | girar Pachino e la Trinacria tutta, | che, non ch'altro, veder quell'antro orrendo, | sentir quegli urli spaventosi e fieri | di quei cerulei suoi rabbiosi cani. (Eleno: III, vv. 675-694)
- Ma sì d'Etna vicino, che i suoi tuoni | e le sue spaventevoli ruine | lo tempestano ognora. Esce talvolta | da questo monte a l'aura un'atra nube | mista di nero fumo e di roventi | faville, che di cenere e di pece | fan turbi e groppi, ed ondeggiando a scosse | vibrano ad ora ad or lucide fiamme | che van lambendo a scolorir le stelle; | e talvolta, le sue viscere stesse | da sé divelte, immani sassi e scogli | liquefatti e combusti al ciel vomendo | in fin dal fondo romoreggia e bolle. (Enea: III, vv. 897-909)
- Già del giorno seguente era il mattino, | e chiaro albore avea l'umido velo | tolto dal mondo; quando ecco dal bosco | ne si fa 'ncontro un non mai visto altrove [Achemenide] | di strana e miserabile sembianza, | scarno, smunto e distrutto: una figura | più di mummia che d'uomo. Avea la barba | lunga, le chiome incolte, indosso un manto | ricucito di spini: orrido tutto, | e squallido e difforme, con le mani | verso il lito distese, a lento passo | venía mercè chiedendo. (Enea: III, vv. 926-937)
- Oh! se le stelle, | se gli Dei, se quest'aura onde spiriamo, | generosi e magnanimi Troiani, | serbin la vita a voi, quinci mi tolga | la pietà vostra, e vosco m'adducete, | ove che sia; chè mi fia questo assai; | poich'io son greco, e di quei Greci ancora | che venner (lo confesso) a i danni vostri. | Se 'l fallo è tale, e se 'l vostro odio è tanto | ch'io ne deggia morir, morte mi date, | e se così v'aggrada, a brano a brano | mi lanïate, e ne fate esca a' pesci; | ché se per man d'umana gente io pèro, | perir mi giova. (Achemenide: III, vv. 944-957)
- Itaca è patria mia, | Achemenide il nome. Io fui compagno | de l'infelice Ulisse, e venni a Troia, | la povertà del mio padre Adamasto | fuggendo (così povero mai sempre | foss'io stato con lui!): qui capitai | con esso Ulisse; e qui, mentr'ei fuggia | con gli altri suoi questo crudele ospizio, | per téma abbandonommi e per oblio | ne l'antro del ciclopo. È questo un antro | opaco, immenso, che macello è sempre | d'umana carne, onde ancor sempre intriso | è di sanie e di sangue, ed è 'l ciclopo | un mostro spaventoso, un che col capo | tocca le stelle (o Dio, leva di terra | una tal peste), ch'a mirarlo solo, | solo a parlarne orror sento ed angoscia. | Pascesi de le viscere e del sangue | de la misera gente; ed io l'ho visto | con gli occhi miei nel suo speco rovescio | stender le branche, e due presi de' nostri, | rotargli a cerco, e sbattergli, e schizzarne | infra quei tufi le midolle e gli ossi. (Achemenide: III, vv. 963-985)
- Mostro orrendo, difforme e smisurato, [Polifemo] | che avea come una grotta oscura in fronte | in vece d'occhio, e per bastone un pino, | onde i passi fermava. (Enea: III, vv. 1039-1042)
- Giace de la Sicania al golfo avanti | un'isoletta che a Plemmirio ondoso | è posta incontro, e dagli antichi è detta | per nome Ortigia. A quest'isola è fama | che per vie sotto al mare il greco Alfeo | vien da Dòride intatto, infin d'Arcadia | per bocca d'Aretusa a mescolarsi | con l'onde di Sicilia. (Enea: III, vv. 1093-1100)
- [...] e 'n su la punta | giunti di Lilibeo, tosto girammo | le sue cieche seccagne, e 'l porto alfine | del mal veduto Drepano afferrammo. | Qui, lasso me! da tanti affanni oppresso, | a tanti esposto, il mio diletto padre [Anchise], | il mio padre perdei. Qui stanco e mesto, | padre, m'abbandonasti: e pur tu solo | m'eri in tante gravose mie fortune | quanto avea di conforto e di sostegno. | Oimè! che indarno da sì gran perigli | salvo ne ti rendesti. (Enea: III, vv. 1111-1122)
Libro IV
[modifica]- Ch'a dirti 'l vero, | Anna mia, da che morte e l'empio frate | mi privâr di Sichèo, sol questi [Enea] ha mosso | i miei sensi e 'l mio core, e solo in lui | conosco i segni de l'antica fiamma.[21] (Didone: IV, vv. 27-31)
- Nel cor, ne le midolle e ne le vene | è la piaga e la fiamma, ond'arde e père.[22] | Arde Dido infelice, e furïosa | per tutta la città s'aggira e smania: | qual ne' boschi di Creta incauta cerva | d'insidïoso arcier fugge lo strale | che l'ha già colta; e seco, ovunque vada, | lo porta al fianco infisso.[23] (IV, vv. 95-102)
- È questa fama un mal, di cui null'altro | è più veloce; e com' più va, più cresce, | e maggior forza acquista.[24][25] È da principio | picciola e debbil cosa, e non s'arrischia | di palesarsi; poi di mano in mano | si discuopre e s'avanza, e sopra terra | sèn va movendo e sormontando a l'aura, | tanto che 'l capo infra le nubi asconde. (IV, vv. 265-273)
- Era d'Ammone, | e de la Garamantide Napea, | già rapita da lui, questo re nato, | onde a Giove suo padre entro a' suoi regni | cento gran tempii e cento pingui altari | avea sacrati, e di continui fochi | mantenendo agli Dei vigilie eterne, | di vittime, di fiori e di ghirlande | gli tenea sempre riveriti e cólti. (IV, vv. 306-314) [su Iarba]
- Onnipotente | Padre, a cui tanti opimi e sontuosi | conviti, e di Lenèo sì larghi onori | offrisce oggi de' Mauri il gran paese, | vedi tu queste cose? o pure invano | tonando e folgorando ci spaventi? | Una femina errante, una che dianzi | ebbe a prezzo da me nel mio paese, | per fondar la sua terra, un picciol sito; | una ch'arena ha per arare, ha vitto, | loco e leggi da me, me per marito | rifiuta; e di sé donno e del suo regno | ha fatto Enea. Questo or novello Pari | con quei suoi delicati e molli eunuchi, | mitrato il mento e profumato il crine, | va del mio scorno e del suo furto altero: | ed io qui me ne sto vittime e doni | a te porgendo, e sòn tuo figlio indarno. (Iarba: IV, vv. 319-335)
- Va', figliuolo, [...] chiama i venti, e ratto scendi | là 've sì neghittoso il troian duce | bada in Cartago, e 'l destinato impero | non gradisce e non cura; e ciò gli annunzia | da parte mia, che Venere sua madre | non per tal lo mi diede, e ch'a tal fine | non è stato da lei da l'armi greche | già due volte scampato. (Giove: IV, vv. 341-350) [a Mercurio]
- Udito ch'ebbe | Mercurio, ad esseguir tosto s'accinse | i precetti del padre; e prima a' piedi | i talari adattossi. Ali son queste | con penne d'oro, ond'ei l'aria trattando, | sostenuto da' venti, ovunque il corso | volga, o sopra la terra, o sopra al mare, | va per lo ciel rapidamente a volo. (IV, vv. 362-9)
- Almeno avanti | la tua partita avess'io fatto acquisto | d'un pargoletto Enea, che per le sale | mi scherzasse d'intorno, e solo il volto, | e non altro, di te sembianza avesse; | ch'esser non mi parrebbe abbandonata, | né delusa del tutto. (Didone: IV, vv. 493-9)
- Ma ne l'Italia il mio fato mi chiama. | Italia Apollo in Delo, in Licia, ovunque | vado, o mando a spïarne, mi promette. | Quest'è l'amor, quest'è la patria mia. | Se tu, che di Fenicia sei venuta, | siedi in Cartago, e ti diletti e godi | del tuo libico regno, qual divieto, | qual invidia è la tua, ch'i miei Troiani | prendano Ausonia? (Enea: IV, vv. 521-9) [a Didone]
- Iniquo amore, | che non puoi tu ne' petti de' mortali? (IV, vv. 629-630)
- Così da preci, e da querele assidue | battuto duolsi il gran Troiano ed angesi, | e con la mente in sè raccolta e rigida,[26] | gitta indarno per lei sospiri e lagrime. (IV, vv. 690-3)
- Femina è cosa mobil per natura, | e per disdegno impetuosa e fera. (Mercurio: IV, vv. 878-9) [a Enea]
- Se forza, se destino, se decreto | è di Giove e del cielo, e fisso e saldo | è pur che questo iniquo in porto arrivi | e terra acquisti; almen da fiera gente | sia combattuto, e, de' suoi fini in bando, | da suo figlio divelto implori aiuto, | e perir veggia i suoi di morte indegna. | Né leggi che riceva, o pace iniqua | che accetti, anco gli giovi; né del regno, | né de la vita lungamente goda: | ma caggia anzi al suo giorno, e ne l'arena | giaccia insepolto. Questi prieghi estremi | col mio sangue consacro. E voi, miei Tirii, | Coi discesi da voi tenete seco | E co' posteri suoi guerra mai sempre. | Questi doni al mio cenere mandate, | morta ch'io sia. Né mai tra queste genti | amor nasca, né pace; anzi alcun sorga | de l'ossa mie, che di mia morte prenda | alta vendetta,[27] e la dardania gente | con le fiamme e col ferro assalga e spenga | ora, in futuro e sempre; e sian le forze | a quest'animo eguali: i liti ai liti | contrari eternamente, l'onde a l'onde, | e l'armi incontro a l'armi, e i nostri ai loro | in ogni tempo. E ciò detto, imprecando, | schiva di più veder l'eterea luce, | affrettò di morire. (Didone: IV, vv. 941-968) [maledizione]
- [Ultime parole] Adunque | morrò senza vendetta? Eh, che si muoia, | comunque sia. Così, così mi giova | girne tra l'ombre inferne: e poi ch'il crudo, | mentre meco era, il mio foco non vide, | veggalo di lontano; e 'l tristo augurio | de la mia morte almen seco ne porte. (Didone: IV, vv. 1012-1018)
- Morrò invendicata! Ebbene, si muoia, disse. Così, cosi devo scendere fra le ombre.[fonte 1]
- E per questo, dicea, suora, son io | da te così tradita? Io t'ho per questo | la pira e l'are e 'l foco apparecchiato? | Deserta me! Di che dorrommi in prima? | Perché, morir dovendo, una tua suora | per compagna rifiuti? E perché teco, | lassa! non m'invitasti? Ch'un dolore, | un ferro, un'ora stessa ambe n'avrebbe | tolte d'affanno. Oimè! con le mie mani | t'ho posto il rogo. Oimè! con la mia voce | ho gli Dei de la patria a ciò chiamati. | Tutto, folle! ho fatt'io, perchè tu muoia, | perch'io nel tuo morir teco non sia. (Anna: IV, vv. 1032-1045) [alla sorella Didone moribonda]
Libro V
[modifica]- Con questo cielo, | signor, diss'egli, omai più non m'affido | prender Italia, ancor che Giove stesso | nèl promettesse, ed ei nocchier ne fosse. | Vedi il vento mutato, vedi il mare | di vèr ponente, che s'annera e gonfia: | vedi nel ciel qual ne s'accampa stuolo | di folte nubi. Traversia di certo | n'assalirà, sì che né girle incontro | né durar la potremo. (Palinuro: V, vv. 25-34) [a Enea]
- Ben conosch'io che duro | è 'l contrasto de' venti; e 'l nostro è vano. | Volgi le vele. E qual più grata altrove, | o più commoda riva, o più sicura | aver mai ponno le mie stanche navi, | di quella che ne serba il caro Aceste, | e l'ossa accoglie del buon padre mio? (Enea: V, vv. 40-46) [a Palinuro]
- Avea di cima | visto d'un monte il cacciatore Aceste | venir la frigia armata: onde in un tempo | fu con essi a la riva; e rincontrolli | allegramente, sì com'era incólto, | di dardi armato e d'irta pelle cinto | di libic'orso, umano insieme e rozzo, | de la troiana Egesta e di Criniso | fiume onorato figlio. Ei degli antichi | suoi parenti membrando, con gioioso | volto, se ben con rustico apparecchio, | gl'invita, gli riceve e gli consola. (V, vv. 50-61)
- A voi sant'ossa, a voi ceneri amate | e famose e felici, anima ed ombra | del padre mio, torno di nuovo indarno | per onorarvi; poi che Italia e 'l Tebro | (se pur Tebro è per noi) ne si contende. | Or, quel ch'io posso con devoto affetto | v'adoro e 'nchino come cosa santa. (Enea: V, vv. 114-120)
- Attienti al lito e radi il sasso: | vadano gli altri in alto. (Gia: V, vv. 232-3) [a Menete]
- Appresentossi in prima | Eurïalo con Niso. Un giovinetto | di singolar bellezza Eurïalo era; | e Niso un di lui fido e casto amante. (V, vv. 426-9)
- Il primo avanti | si tragge Niso, e di gran lunga avanti; | ché va di vento e di saetta in guisa. | Prossimo a lui, ma prossimo d'un tratto | molto lontano, è Salio.[28] (V, vv. 459-463)
- Ah! [...] Entello, | tu sei pur fra gli eroi de' nostri tempi | il più noto e 'l più forte; e come soffri | ch'un sì gradito pregio or ti si tolga | senza contesa? Adunque è stato invano | fin qui da noi rammemorato e cólto | Èrice, in ciò nostro maestro e dio? | Ov'è la fama tua che ancor si spande | per la Trinacria tutta? Ove son tante | appese a i palchi tue famose spoglie? (Aceste: V, vv. 555-564)
- Né disio d'onore, | né vaghezza di gloria unqua, signore, | mi lasciâr mai nè mai viltà mi prese: | ma l'incarco degli anni, il freddo sangue, | e la scemata mia destrezza e forza | mi ritraggono a dietro. Io quando avessi | o men quei giorni, o non men quel vigore, | onde costui di sé tanto presume, | già per diletto mio seco alle mani | sarei venuto, e non dal premio indotto, | ché premio non ne chero. E pur qui sono. (Entello: V, vv. 565-575)
- Or che diria costui | se visto avesse i cesti e l'armi stesse | d'Ercole invitto, e l'infelice pugna, | onde in su questo lito Èrice cadde? | D'Èrice tuo fratello eran quest'armi: | vedi che son ancor di sangue infette | e d'umane cervella. Il grande Alcide | con queste Èrice assalse: e con quest'io | m'essercitai, mentre le forze e gli anni | eran più verdi e non canuti i crini. (Entello: V, vv. 586-595) [a Enea]
- Onnipotente Giove, se de' Teucri | ancor non t'è, senza riservo, in ira | la gente tutta, e se, qual sei, pietoso | miri agli umani affanni, a tanto incendio | ritogli, padre, i male addotti legni; | ritogli a morte queste poche afflitte | reliquie de' Troiani, o quel che resta | tu col tuo proprio telo, e di tua mano | (se tale è il merto mio) folgora e spegni. (Enea: V, vv. 974-982)
- Aceste è qui, ch'è del dardanio seme | e di stirpe celeste un ramo anch'egli. (Naute: V, vv. 1008-9)
- Sol un convien che pèra | per condur gli altri suoi lieti e sicuri. (Nettuno: V, vv. 1158-9) [riferito a Palinuro]
- Ah! tu non credi adunque | ch'io conosca del mar le perfid'onde, | e 'l falso aspetto? A tale infido mostro | ch'io fidi il mio signore e i legni suoi? | Ch'al fallace sereno, ai venti instabili | presti fede io, che son da lor deluso | già tante volte? E ciò dicendo, avea | le man ferme al timon, gli occhi a le stelle. (Palinuro: V, vv. 1206-1213) [al Dio Sonno]
- Troppo al sereno, e troppo a la bonaccia | credesti, Palinuro. Or ne l'arena | dal mar gittato in qualche strano lito | ignudo e sconosciuto giacerai, | né chi t'onori avrai né chi ti copra. (Enea: V, vv. 1243-7)
Libro VI
[modifica]- Ecco lo dio ch'è già comparso e spira.[29] (Sibilla Cumana: VI, v. 68)
- [...] maggior il tuono | fu che d'umana voce.[30] (VI, vv. 73-4) [in riferimento alla Sibilla Cumana]
- Guerre, guerre orribili | sorger ne veggio, e pien di sangue il Tevere. (Sibilla Cumana: VI, vv. 131-2)
- Ma 'l tuo cor non paventi, anzi con l'animo, | supera le fatiche e gl'infortunii;[31] | ché tua salute ancor da terra argolica | (quel che men credi) avrà lume e principio. (Sibilla Cumana: VI, vv. 141-2)
- Enea, germe del cielo, | lo scender ne l'Averno è cosa agevole,[32] | ché notte e dì ne sta l'entrata aperta; | ma tornar poscia e riveder le stelle, | qui la fatica e qui l'opra consiste.[33] (Sibilla Cumana: VI, vv. 190-4)
- È ne la selva opaca, | tra valli oscure e dense ombre riposto | e ne l'arbore stesso, un lento ramo | con foglie d'oro, il cui tronco è sacrato | a Giuno inferna: e chi seco divelto | questo non porta, ne' secreti regni | penetrar di Plutone unqua non pote. | Ciò la bella Proserpina comanda, | che per suo dono il chiede; e svelto l'uno | tosto l'altro risorge, e parimente | ha la sua verga e le sue chiome d'oro. (Sibilla Cumana: VI, vv. 205-215)
- Evvi la Tema, | evvi la Fame: una ch'è freno al bene, | l'altra stimolo al male: orrendi tutti | e spaventosi aspetti. (VI, vv. 405-8)
- Quinci preser la via là 've si varca | il tartareo Acheronte. Un fiume è questo | fangoso e torbo, e fa gorgo e vorago, | che bolle e frange, e col suo negro loto | si devolve in Cocíto. (VI, vv. 437-441)
- È guardïano | e passeggiero a questa riva imposto | Carón demonio spaventoso e sozzo, | a cui lunga dal mento, incolta ed irta | pende canuta barba. Ha gli occhi accesi | come di bragia. Ha con un groppo al collo | appeso un lordo ammanto, e con un palo, | che gli fa remo, e con la vela regge | l'affumicato legno, onde tragitta | su l'altra riva ognor la gente morta. | Vecchio è d'aspetto e d'anni; ma di forze, | come dio, vigoroso e verde è sempre. (VI, vv. 441-452)
- O Palinuro, | e qual fu de gli Dei ch'a noi ti tolse, | ed a l'onde ti diede? (Enea: VI, vv. 502-4)
- Inclito duce, | né l'oracol d'Apollo ha te deluso, | né l'ira ha me di Dio nel mar sommerso; | ché 'l temone, ond'io mai non mi divelsi | per tua salute, ancor per man ritenni | allor ch'in mare io caddi. Io giuro, Enea, | per l'onde irate, che di me non tanto | quanto del tuo periglio ebbi timore, | che non la nave tua, del mio governo | spogliata e del suo freno, al mar già gonfio | restasse in preda. (Palinuro: VI, vv. 510-520) [a Enea]
- Or lungo ai liti | vassene il corpo mio ludibrio a' venti | e scherzo ai flutti. Ed io, signore invitto, | per la superna luce, per quell'aura | onde si vive, per tuo padre Anchise, | per le speranze del tuo figlio Iulo, | priegoti a sovvenirmi.[34] (Palinuro: VI, vv. 530-6) [a Enea]
- Indarno indarno speri | che per nostro pregar fato si cangi.[35] | Ma con questo t'acqueta, e ti conforta | de l'infortunio tuo: chè quelle terre | vicine al luogo ove il tuo corpo giace, | da pestilenza e da prodigi astrette, | lo raccorranno, e con solenne rito | gli faran sacrifici, esequie e tomba; | e da te per innanzi avrà quel loco | di Palinuro eternamente il nome. (Sibilla Cumana: VI, vv. 551-2)
- Dunque, Dido infelice, e' fu pur vera | quell'empia che di te novella udii, | che col ferro finisti i giorni tuoi? | Ah, ch'io cagion ne fui! (Enea: VI, vv. 673-5)
- Deífobo, di Prïamo il gran figlio, | vide ancor qui, che crudelmente anciso, | in disonesta e miserabil guisa | avea le man, gli orecchi, il naso e 'l volto | lacerato, incischiato e monco tutto. (VI, vv. 732-6)
- Enea mio caro, | ha l'amor tuo vèr me compíto a pieno. | Ma l'empio fato mio, l'empia e malvagia | argiva donna a tal m'ha qui condotto; | e tal di sé lasciò memoria al mondo. | Ben ti ricorda (e ricordar ten dèi) | di quell'ultima notte che sì lieta | mostrossi in pria, poi ne si volse in pianto, | quando il fatal cavallo il salto fece | sopra le nostre mura, e 'l ventre pieno | d'armate schiere ne votò fin dentro | a l'alta ròcca. Allor ella di Bacco | fingendo il coro, e con le frigie donne | scorrendo in tresca, una gran face in mano | si prese, e diè con essa il cenno a' Greci. | Io dentro alla mia camera (infelice!) | mi ritrovai sol quella notte; e stanco | di tante che n'avea con tanti affanni | vegghiate avanti, un tal prendea riposo | che a morte più che a sonno era simíle. | Fece la buona moglie ogn'arme intanto | sgombrar di casa, e la mia fida spada | mi sottrasse dal capo. Indi la porta | aperse, e Menelao dentro v'accolse, | così sperando un prezïoso dono | fare al marito, e de' suoi falli antichi | riportar venia. Che più dico? Basta | ch'entrâr là 'v'io dormia; e con essi era | per consultore Ulisse. (Deifobo: VI, vv. 761-789)
- Non ti crucciare, o del gran Delio amica, | ch'or or da voi mi tolgo, e mi ritiro | ne le tenebre mie. Tu, nostro onore, | vatten felice, già che scòrto sei | da miglior fato; e meglio te n'avvenga. (Deifobo: VI, vv. 809-813)
- Quei che son vissi ai lor fratelli amari; | quei c'han battuti i padri; quei che frode | hanno ordito a' clienti; i ricchi avari, | e scarsi a' suoi, di cui la turba è grande: | gli occisi in adulterio; i violenti, | gl'infidi, i traditori in questo abisso | han tutti i lor ridotti e le lor pene. (VI, vv. 911-7)
- Imparate da me voi che mirate | la pena mia: non violate il giusto, | riverite gli Dei.[36] (Flegias: VI, vv. 926-8)
- In atto d'accoglienza: O figlio, disse | dolcemente piangendo, io pur ti veggio, | pur sei venuto, ha pur la tua pietade | superati i disagi e la durezza | di sì strano viaggio. Ecco m'è dato | di veder, figlio, il tuo bramato aspetto, | e sentirti e parlarti. Io di ciò punto | non era in forse, e sol pensava al quando, | contando i giorni. Oh dopo quanti affanni, | dopo quanti perigli, e quanti storpii | e di mare e di terra io ti riveggio! (Anchise: VI, vv. 1025-1035)
- Primieramente il ciel, la terra e 'l mare, | l'aër, la luna, il sol, quanto è nascosto, | quanto appare e quant'è, muove, nudrisce | e regge un, che v'è dentro, o spirto o mente | o anima che sia de l'universo; | che sparsa per lo tutto e per le parti | di sì gran mole, di sé l'empie, e seco | si volge, si rimescola e s'unisce.[37] (Anchise: VI, vv. 1084-1096)
- Vedi colà quel giovinetto ardito | che su quell'asta pura il braccio appoggia? | Quegli a la luce è destinato in prima, | primo che di Lavinia in Lazio avrai | figlio postumo a te già d'anni grave, | ch'alfin da lei fuor de le selve addutto, | re sarà d'Alba, e degli albani regi | autore e padre: e Sílvi dal suo nome | fian tutti i nostri, che da lui discesi | ivi poscia gran tempo imperio avranno. (Anchise: VI, vv. 1142-1152) [su Silvio]
- Bruto, consol primiero, e quei suoi fasci | e quelle accette ond'ei, padre crudele, | de la patria buon figlio, i figli suoi | per l'altrui bella libertate ancide. (Anchise: VI, vv. 1235-8)
- Vince il publico amore, e 'l gran desio | d'umana lode in lui l'affetto interno | de la natura e del suo sangue stesso. (Anchise: VI, vv. 1241-3) [su Lucio Giunio Bruto]
- Ma voi, Romani miei, reggete il mondo | con l'imperio e con l'armi, e l'arti vostre | sien l'esser giusti in pace, invitti in guerra; | perdonare a' soggetti, accòr gli umíli, | debellare i superbi.[38] (Anchise: VI, vv. 1286-1290)
- Miserabil fanciullo! Così morte | te non vincesse, come invitto fòra | il tuo valore, e come tu, Marcello, | non men de l'altro, eroica vertute | e più splendore e più fortuna avesti![39] | Datemi a piene mani ond'io di gigli[40] | e di purpurei fiori un nembo sparga, | che, se ben contro al già fisso destino | m'adopro invano, almen con questi doni | l'ombra d'un tanto mio nipote onori. (Anchise: VI, vv. 1333-1342)
Libro VII
[modifica]- Ed ancor tu, d'Enea fida nutrice | Caieta, ai nostri liti eterna fama | désti morendo, ed essi anco a te diero | sede onorata, se d'onore a' morti | è d'aver l'ossa consecrate e 'l nome | ne la famosa Esperia. Ebbe Caieta | dal suo pietoso alunno essequie e lutto, | e sepoltura alteramente eretta. (VII, vv. 1-8)
- Uscîr del porto; e pria rasero i liti | ove Circe del Sol la ricca figlia | gode felice, e mai sempre cantando | soavemente al periglioso varco | de le sue selve i peregrini invita: | e de la reggia, ove tessendo stassi | le ricche tele, con l'arguto suono | che fan le spole e i pettini e i telari, | e co' fuochi de' cedri e de' ginepri | porge lunge la notte iudicio e lume. | Quinci là verso il dì, lontano udissi | ruggir lioni, urlar lupi, adirarsi, | e fremire e grugnire orsi e cignali, | ch'eran uomini in prima: e 'n queste forme | da lei con erbe e con malie cangiati | giacean di ferri e di ferrate sbarre | ne le sue stalle incatenati e chiusi. (VII, vv. 14-30)
- Era signore, | quando ciò fu, di Lazio il re Latino, | un re che vèglio e placido gran tempo | avea 'l suo regno amministrato in pace. | Questi nacque di Fauno e di Marica | ninfa di Laürento, e Fauno a Pico | era figliuolo, e Pico a te, Saturno, | del suo regio legnaggio ultimo autore. | Non avea questo re stirpe virile, | com'era il suo destino; e quella ch'ebbe | gli fu nel fior de' suoi verd'anni ancisa. | Sola d'un sangue tal, d'un tanto regno | restava una sua figlia unica erede, [Lavinia] | che già d'anni matura, e di bellezza | più d'ogni altra famosa, era da molti | eroi del Lazio e de l'Ausonia tutta | desiata e ricerca. (VII, vv. 68-78)
- Avanti agli altri | la [Lavinia] chiedea Turno, un giovine, il più bello, | il più possente e di più chiara stirpe | che gli altri tutti; e più ch'agli altri, a lui, | anzi a lui sol la sua regina madre | con mirabil affetto era inchinata. (VII, vv. 84-89)
- Se mover contra lui non posso il cielo, | moverò l'Acheronte.[41] (Giunone: VII, vv. 465-6)
- Adunque si darà Lavinia mia | a Troiani? a banditi? E tu suo padre, | tu così la collòchi? E non t'incresce | di lei, di te, di sua madre infelice? | Ch'al primo vento ch'a' suoi legni spiri, | di così caro pegno orba rimasa | (come dir si potrà), da questo infido | fuggitivo ladrone abbandonata, | del mar vedrolla e de' corsari in preda? | O non così di Sparta anco rapita | fu la figlia di Leda? E chi rapilla | non fu Troiano anch'egli? Ah! dov'è, sire, | quella tua santa invïolabil fede? | Quella cura de' tuoi? quella promessa | che s'è fatta da te già tante volte | al nostro Turno? Se d'esterna gente | genero ne si dee; se fisso e saldo | è ciò nel tuo pensiero; se di Fauno | tuo padre il vaticinio a ciò si stringe; | io credo ch'ogni terra, ch'al tuo scettro | non è soggetta, sia straniera a noi. (Amata: VII, vv. 544-564) [a Latino]
- Il primo, che le genti a questa guerra | ponesse in campo, fu Mezenzio, il fiero | del ciel dispregiatore e degli Dei. | D'Etruria era signore, e di Tirreni | conducea molte squadre. Avea suo figlio | Lauso con esso, un giovine il più bello, | da Turno in fuori, che l'Ausonia avesse. | Gran cavaliero, egregio cacciatore | fino allor si mostrava; e mille armati | avea la schiera sua, che seco uscita | fuor d'Agillina, ne l'esiglio ancora | indarno lo seguía; degno che fosse | ne l'imperio del padre. (VII, vv. 994-1006)
- L'ultima a la rassegna vien Camilla | ch'era di volsca gente una donzella, | non di conocchia o di ricami esperta, | ma d'armi e di cavalli, e benché virgo, | di cavalieri e di caterve armate | gran condottiera, e ne le guerre avvezza. | Era fiera in battaglia, e lieve al corso | tanto, che, quasi un vento sopra l'erba | correndo, non avrebbe anco de' fiori | tocco né de l'ariste il sommo a pena; | non avrebbe per l'onde e per gli flutti | del gonfio mar, non che le piante immerse, | ma né pur tinte. Per veder costei | uscian de' tetti, empiean le strade e i campi | le genti tutte; e i giovini e le donne | stavan con meraviglia e con diletto | mirando e vagheggiando quale andava, | e qual sembrava; come regiamente | d'ostro ornato avea 'l tergo, e 'l capo d'oro; | e con che disprezzata leggiadria | portava un pastoral nodoso mirto | con picciol ferro in punta; e con che grazia | se ne gía d'arco e di faretra armata. (VII, vv. 1219-1242)
Libro VIII
[modifica]- Enea, stirpe divina, | che Troia da' nemici ne riporti | e la ravvivi e la conservi eterna; | o da me, da' Laurenti e da' Latini | già tanto tempo a tanta speme atteso, | questa è la casa tua, questo è secura- | mente, non t'arrestare, il fatal seggio | che t'è promesso. Le minacce e 'l grido | non temer de la guerra. Ogn'odio, ogn'ira | cessa già de' celesti. (Tiberino: VIII, vv. 55-64)
- Per uscir glorïoso e vincitore | di questa guerra, ascolta. È di qui lunge | non molto Evandro, un re che de l'Arcadia | è qua venuto; e sopra a questi monti | ha degli Arcadi suoi locato il seggio. | Il loco, da Pallante suo bisavo, | è stato Pallantèo da lui nomato; | ed essi perché son nel Lazio esterni, | son nemici a' Latini, ed han con loro | perpetua guerra. A te fa di mestiero | con lor confederarti, e per compagni | a questa impresa avergli. (Tiberino: VIII, vv. 78-89)
- Io sono il Tebro | cerco da te, che qual tu vedi, ondoso | rado queste mie rive, e fendo i campi | de la fertile Ausonia, al cielo amico | sovr'ogni fiume. Quel che qui m'è dato, | è 'l mio seggio maggiore; e fia che poscia | sovr'ogni altra cittade il capo estolla. (Tiberino: VIII, vv. 98-104)
- O compagni, | qual fin v'adduce, o qual v'intrica errore | per così torta e disusata via? | Ov'andate? chi siete? onde venite? | Che ne recate voi? la pace, o l'armi? (Pallante: VIII, vv. 171-5) [a Enea e ai suoi uomini]
- Abitatore un ladro | n'era, Caco chiamato, un mostro orrendo | mezzo fera e mezz'uomo, e d'uman sangue | avido sì, che 'l suol n'avea mai sempre | tiepido. Ne grommavan le pareti, | ne pendevano i teschi intorno affissi, | di pallor, di squallor luridi e marci. | Volcano era suo padre; e de' suoi fochi | per la bocca spirando atri vapori, | gìa d'un colosso e d'una torre in guisa. (Evandro: VIII, vv. 293-302)
- Caco ladron feroce e furïoso, | d'ogni misfatto e d'ogni sceleranza | ardito e frodolente esecutore. [insulto] (Evandro: VIII, vv. 312-4)
- [Caco] Si smarrì negli occhi, | si mise in fuga e fu la fuga un volo: | tal gli aggiunse un timor le penne a' piedi. (Evandro: VIII, vv. 337-9)
- Giace tra la Sicania da l'un canto | e Lipari da l'altro un'isoletta | ch'alpestra ed alta esce de l'onde, e fuma. | Ha sotto una spelonca, e grotte intorno, | che di feri Ciclopi antri e fucine | son, da' lor fochi affumicati e rosi. | Il picchiar de l'incudi e de' martelli | ch'entro si sente, lo stridor de' ferri, | il fremere e 'l bollir de le sue fiamme | e de le sue fornaci, d'Etna in guisa | intonar s'ode ed anelar si vede. | Questa è la casa, ove qua giù s'adopra | Volcano, onde da lui Volcania è detta; | e qui per l'armi fabbricar discese | del grand'Enea. (VIII, vv. 639-653)
- Mentre in Eolia era a quest'opra intento | di Lenno il padre, ecco, sorgendo il sole, | surse al cantar de' mattutini augelli | il vecchio Evandro; e fuori uscío vestito | di giubba con le guigge a' piedi avvolte, | com'è tirrena usanza. Avea dal destro | Omero a la Tegèa nel manco lato | una sua greca scimitarra appesa. | Avea da la sinistra di pantera | una picchiata pelle, che d'un tergo | gli si volgea su l'altro; e da la ròcca | scendendo, gli venian due cani avanti, | come custodi i suoi passi osservando. (VIII, vv. 703-715)
- Ed io Pallante mio, | la mia speranza e 'l mio sommo conforto, | manderò teco; che 'l mestier de l'arme, | che le fatiche del gravoso Marte | ne la tua scuola a tollerare impari: | e te da' suoi prim'anni, e i gesti tuoi | meravigliando ad imitar s'avvezze. (Evandro: VIII, vv. 797-801) [a Enea]
- Pallante in mezzo risplendea ne l'armi | commesse d'oro, risplendea ne l'ostro | che l'arme avean per sopravesta intorno; | ma via più risplendea ne' suoi sembianti | ch'eran di fiero e di leggiadro insieme. (VIII, vv. 908-912)
Libro IX
[modifica]- Un de' più fieri in arme, | Niso d'Ìrtaco il figlio, ad una porta | era proposto. Da le cacce d'Ida | venne costui mandato al troian duce, | gran feritor di dardo e di saette. | Eurïalo era seco, un giovinetto | il più bello, il più gaio e 'l più leggiadro, | che nel campo troiano arme vestisse; | ch'a pena avea la rugiadosa guancia | del primo fior di gioventute aspersa. | Era tra questi due solo un amore | ed un volere; e nel mestier de l'armi | l'un sempre era con l'altro, ed ambi insieme | stavano allor vegghiando a la difesa | di quella porta. (IX, vv. 257-271)
- Eurïalo, io non so se Dio mi sforza | a seguir quel ch'io penso, o se 'l pensiero | stesso di noi fassi a noi forza e dio. | Un desiderio ardente il cor m'invoglia | d'uscire a campo, e far contr'a' nemici | un qualche degno e memorabil fatto: | sì di star pigro e neghittoso aborro. (Niso: IX, vv. 272-278)
- Adunque ne l'imprese | di momento e d'onore io da te, Niso, | son così rifiutato? E te posso io | lassar sì solo a sì gran rischio andare? | A me non diè questa creanza Ofelte | mio genitore, il cui valor mostrossi | negli affanni di Troia, e nel terrore | de l'argolica guerra. Ed io tal saggio | non t'ho dato di me, teco seguendo | il duro fato e la fortuna avversa | del magnanimo Enea. Questo mio core | è spregiatore, è spregiatore anch'egli | di questa vita, e degnamente spesa | la tiene allor che gloria se ne merchi | e quel che cerchi, ed a me nieghi, onore. (Eurialo: IX, vv. 295-309)
- O fera o mite | che fortuna mi sia, non sarà mai | ch'io discordi da me: mai non uguale | lo mio cor non vedrassi a questa impresa: | ma sopra agli altri tuoi promessi doni | questo solo bram'io: la madre mia, | che dal ceppo di Prïamo è discesa, | e che per me seguire ha, la meschina, | non pur di Troia abbandonato il nido, | ma 'l ricovro d'Aceste, e la sua vita | stessa (a tanti per me l'ha rischi esposta). (Eurialo: IX, vv. 430-440)
- Tu, Dea, tu de la notte eterno lume, | tu, regina de' boschi, in tanto rischio | ne porgi aita. E s'Ìrtaco mio padre | per me de le sue cacce, io de le mie | il dritto unqua t'offrimmo; e se t'appesi, | e se t'affissi mai teschio nè spoglia | di fera belva, or mi concedi ch'io | questa gente scompigli, e la mia mano | reggi e i miei colpi. (Niso: IX, vv. 626-634)
- Niso a tal vista spaventato, e fuori | uscito de l'agguato e di sè stesso | (che soffrir non poteo tanto dolore) | me, me, gridò, me, Rutuli, occidete. | Io son che 'l feci: io son che questa froda | ho prima ordito. In me l'armi volgete: | chè nulla ha contro a voi questo meschino | osato, nè potuto. Io lo vi giuro | per lo ciel che n'è conscio e per le stelle, | questo tanto di mal solo ha commesso, | che troppo amato ha l'infelice amico. (IX, vv. 655-665)
- E già morendo | Eurïalo cadea, di sangue asperso | le belle membra, e rovesciato il collo, | qual reciso dal vomero languisce | purpureo fiore, o di rugiada pregno | papavero ch'a terra il capo inchina. (IX, vv. 668-673)
- Or va', t'insuperbisci: or va', deridi, | scempio, l'altrui virtù. Queste risposte | mandano i Frigi che son chiusi in gabbia | ai Rutuli signor de la campagna. (Ascanio: IX, vv. 990-3)
- Ahi buon fanciullo, in cui vertù s'avanza! | Così vassi a le stelle. Or ben tu mostri | che dagli dii sei nato, e ch'altri dii | nasceranno da te. Tu sei ben degno | ch'ogni guerra, che 'l fato ancor minacci | a la casa d'Assáraco, s'acqueti | per tua grandezza, a cui Troia è minore, | sì che già non ti cape. (Apollo: IX, vv. 1002-9) [riferito ad Ascanio]
Libro X
[modifica]- Cittadini eterni, | qual v'ha cagione a distornar rivolti | quel ch'è già stabilito? A che tra voi | con tanta iniquità tanto contrasto? | Non s'è da me già proibito e fermo | che non deggian gli Ausoni incontro a' Teucri | sorgere a l'armi? Che discordia è questa | contro al divieto mio? Qual ha timore | a la guerra incitati o questi o quelli? (Giove: X, vv. 9-18)
- Padre e re de' celesti, e de' mortali | eterna possa (e qual altra maggiore | s'implora altronde?), ecco tu stesso vedi | l'arroganza de' Rutuli, e quel fasto | con che Turno cavalca; e vedi il vampo | e la ruina che si mena avanti, | da la sua tracotanza e dal successo | di questa pugna insuperbito e gonfio. (Venere: X, vv. 29-36) [a Giove]
- Giunone allora | infurïata, A che, disse, mi tenti, | perch'io rompa il silenzio, e mostri il duolo | c'ho portato nel cor gran tempo ascoso? (X, vv. 99-102)
- In mezzo de le schiere il vago Iulo, | gran nipote di Dardano e gran cura | de la bella Ciprigna, il volto e 'l capo | ignudo, risplendea qual chiara gemma | che in òr legata altrui raggi dal petto | o da la fronte; o qual da dotta mano | in ebano commesso, o in terebinto | candido avorio agli occhi s'appresenta. | Sovra al collo di latte il biondo crine | avea disteso, e d'oro un lento nastro | gli facea sotto e fregio insieme e nodo. (X, vv. 205-215)
- Via, ch'agli arditi è la fortuna amica. (Turno: X, v. 430)
- Ah compagni, ah fratelli, [...] | Dove fuggite? Per onor di voi, | per la memoria di tant'altri vostri | egregi fatti, per l'egregia fama, | per le vittorie del gran duce Evandro, | e per la speme che di me concetta | a la paterna lode emula avete, | non ponete ne' piè vostra fidanza. | Col ferro aprir la strada ne conviene | per mezzo di color che là vedete, | che più folti n'incalzano e più feri. | Per là comanda l'alta patria nostra | che voi meco n'andiate. E di lor nullo | è che sia dio: son uomini ancor essi | come siam noi: e noi com'essi avemo | il cor, le mani e l'armi. E dove, dove | vi salverete? Non vedete il mare | che v'è davanti, e che la terra manca | al fuggir vostro? E se per l'onde ancora | fuggiste, alfin dove n'andrete? a Troia? (Pallante: X, vv. 566-585)
- Come il pastor ne' dolci estivi giorni | a lo spirar de' venti il foco accende | in qualche selva: che diversamente | lo sparge in prima; e con diversi incendi | subito di Volcan ne va la schiera, | ciò ch'è di mezzo divorando in guisa | ch'un sol diventa: ed ei stassi in disparte | del fatto altero, e di veder gioioso | la vincitrice fiamma, e l'arso bosco: | così 'l valor degli Arcadi ristretto | per soccorrer Pallante insieme unissi. (X, v. 634-644)
- Da questa parte sta Pallante, e Lauso | da quella, i suoi ciascuno inanimando, | spingendo e combattendo. E l'un diverso | non è molto da l'altro né d'etate | né di bellezza; e parimente il fato | a ciascuno ha di lor tolto il ritorno | ne la sua patria. E non però tra loro | s'affrontâr mai; chè 'l regnator celeste | riserbava la morte d'ambedue | a nemici maggiori. (X, v. 687-696)
- Destinato a ciascuno è 'l giorno suo;[43] | e breve in tutti e lubrica e fugace | e non mai reparabile sèn vola | l'umana vita. Sol per fama è dato | agli uomini, che sian vivaci e chiari | più lungamente. Ma virtute è quella | che gli fa tali. E non per questo alcuno | è che non muoia. (Giove: X, vv. 747-754)
- Se indugiar la morte, | ch'è già presente, e prolungare i giorni | al già caduco giovine [Turno] t'aggrada | per alcun tempo, e tu con questo inteso | l'accetti, va' tu stessa, e da la pugna | sottrallo e dal destino. A tuo contento | fin qui mi lece. Ma se in ciò presumi | anco più di sua vita, o de la guerra, | che del tutto si mute o si distorni, | invan lo speri. (Giove: X, vv. 992-1001) [a Giunone]
- Mezenzio in questo mentre che da l'ira | era spinto di Giove, ardente e fiero | entrò ne la battaglia; e i Teucri assalse | che già 'l campo tenean superbi e lieti. | Da l'altro canto le tirrene schiere | mossero incontro a lui. Contra lui solo | s'unîr tutti de' Toschi e gli odii e l'armi; | ed egli, a tutti opposto, alpestro scoglio | sembrava, che nel mar si sporga, e i flutti, | e i venti minacciar si senta intorno, | e non punto si crolli. Ognun ch'avanti | o l'ardir gli mandava o la fortuna, | a' piè si distendea. (X, v. 1097-1109)
- Mezenzio il vide; e qual digiuno e fiero | leon da fame stimolato, errando | si sta talor sotto la mandra, e rugge; | se poi fugace damma, o di ramose | corna gli si discopre un cervo avanti, | s'allegra, apre le canne, arruffa il dorso, | si scaglia, ancide e sbrana, e 'l ceffo e l'ugne | d'atro sangue s'intride; in tal sembiante | per mezzo de lo stuol Mezenzio altero | s'avventa. (X, v. 1152-1161)
- Enea tosto che 'l vede | ratto incontro gli muove. Ed egli immoto | di coraggio e di corpo ad aspettarlo | sta qual pilastro in sé fondato e saldo.[44] (X, v. 1217-1220)
- Lauso, che in tanto rischio il caro padre | si vide avanti, amor, téma e dolore | se ne sentì, ne sospirò, ne pianse. | E qui, giovine illustre, il caso indegno | de la tua morte e 'l tuo zelo e 'l tuo fatto | non tacerò; se pur tanta pietate | fia chi creda de' posteri, e d'un figlio | d'un empio padre. (X, v. 1245-1252)
- Miserabil fanciullo! e quale aita, | quale il pietoso Enea può farti onore | degno de le tue lodi e del presagio | che n'hai dato di te? L'armi che tanto | ti son piaciute, a te lascio, e 'l tuo corpo | a la cura de' tuoi, se di ciò cura | ha pur l'empio tuo padre, acciò di tomba | e d'essequie t'onori. E tu, meschino, | poi che dal grand'Enea morte ricevi, | di morir ti consola. (Enea: X, v. 1299-1308) [a Lauso morente]
- [Antore] Era venuto | d'Argo ad Evandro: e qui cadde il meschino | d'altrui ferita. Nel cader, le luci | al ciel rivolse e, d'Argo il dolce nome | sospirando, le chiuse.[45] (X, vv. 1231-5)
- Come del mal sovente è l'uom presago. (X, v. 1332)
- Ah mio figlio, dicendo, ah come tanto | fui di vivere ingordo, che soffrissi | te, di me nato, andar per me di morte | a sì gran rischio, a tal nemica destra | succedendo in mia vece? Adunque io salvo | son per le tue ferite? Adunque io vivo | per la tua morte? Oh miserabil vita, | o sconsolato essiglio! Or questo è 'l colpo | ch'al cor m'è giunto. Ed io, mio figlio, io sono | c'ho macchiato il tuo nome, c'ho sommerso | la tua fortuna e 'l mio stato felice | co' demeriti miei. Dal mio furore | son dal seggio deposto. Io son che debbo | ogni grave supplizio ed ogni morte | a la mia patria, al grand'odio de' miei. | E pur son vivo, e gli uomini non fuggo? | E non fuggo la luce? Ah fuggirolla | pur una volta. (Mezenzio: X, vv. 1336-1353) [dopo la morte del figlio Lauso]
- Crudele, a che m'insulti? A me di biasmo | non è ch'io muoia: né per vincer, teco | venni a battaglia. Il mio Lauso morendo | fe con te patto che morissi anch'io. | Solo ti prego (se di grazia alcuna | son degni i vinti) che 'l mio corpo lasci | coprir di terra. Io so gli odii immortali | che mi portano i miei. Dal furor loro | ti supplico a sottrarmi, e col mio figlio | consentir che mi giaccia. (Mezenzio: X, vv. 1418-1428) [ad Enea, poco prima di morire]
Libro XI
[modifica]- Compagni, il più s'è fatto. A quel che resta | nulla temete. Ecco Mezenzio è morto | per le mie mani, e queste che vedete, | l'opime spoglie e le primizie sono | del superbo tiranno. Ora a le mura | ce n'andrem di Latino. Ognuno a l'armi | s'accinga: ognun s'affidi, e si prometta | guerra e vittoria. In punto vi mettete, | ché quando dagli augurii ne s'accenne | di muover campo, e che mestier ne sia | d'inalberar l'insegne, indugio alcuno | non c'impedisca, o 'l dubbio o la paura | non ci ritardi. In questo mezzo a' morti | diam sepoltura, e quel che lor dovuto | è sol dopo la morte, eterno onore. | Itene adunque, e quell'anime chiare | che n'han col proprio sangue e con la vita | questa patria acquistata e questo impero, | d'ultimi doni ornate. (Enea: XI, vv. 24-42)
- Noi quinci ad altre lagrime chiamati | dal medesimo fato, altre battaglie | imprenderemo. E tu, magno Pallante, | vattene in pace, e con eterna gloria | godi eterno riposo.[46] (Enea: XI, vv. 144-8)
- O fortunate genti, o di Saturno | felice regno, o degli antichi Ausoni | famosa terra! E quale iniqua sorte | da la vostra quïete or vi sottragge? | Qual consiglio, qual forza vi costringe | di nemicarvi e guerreggiar con gente | che non v'è nota? (Latino: XI, vv. 398-404)
- E, quanto a' doni, andate, | riportateli vosco, e 'l magno Enea | ne presentate. E solo a me credete | del valor suo, che fui con esso a fronte | con l'armi in mano; e so di scudo e d'asta | qual mi rese buon conto, e quanto vaglia. (Latino: XI, vv. 451-454)
- Enea sol con Ettorre | fu la cagion che tanto s'indugiasse | la ruina di Troia, e che diece anni | durammo a conquistarla. Ambedue questi | eran di cor, di forze e d'arme uguali, | ma ben fu di pietate Enea maggiore. (Latino: XI, vv. 458-463)
- Se speranza alcuna | negli esterni soccorsi e ne l'aita | aveste degli Etòli, ora del tutto | la deponete: e sia speme a sè stesso | ciascun per sè. (Latino: XI, vv. 491-5)
- Spes sibi quisque.
- Avrem Camilla, | la gran volsca virago, che n'addusse | di cavalieri e di caterve armato | sì bella gente. (Turno: XI, vv. 694-7)
- Gli si fa co' suoi volsci cavalieri | la vergine Camilla; e sì com'era | non men gentil che valorosa e bella. (XI, vv. 796-8)
- Turno, se degnamente uom forte ardisce, | io mi rincoro, e ti prometto io sola | di gire ai cavalier toscani incontro. | Lascia me col mio stuolo assalir prima | la troiana oste, e che primiera io tragga | di questa pugna e de' suoi rischi un saggio. | E tu qui co' pedoni a piè rimanti | a guardia de la terra. (Camilla: XI, vv. 801-8)
- O de l'Italia, [...] | ornamento e sostegno, e di che lode, | e di che premio al tuo gran merto uguale | ristorar ti poss'io? Ma (poiché cosa | non è che la pareggi) abbi, famosa | guerriera, in grado ch'io con te comparta | questa fatica. (Turno: XI, vv. 810-6) [a Camilla]
- Vedi a che perigliosa e mortal guerra | a morir se ne va la mia Camilla, | ne le nostr'armi ammaestrata invano. | E pur m'è cara, e sovr'ogni altra io l'amo. | Né questo è nuovo o repentino amore. | Fin da le fasce è mia. Mètabo, il padre | di lei, fu per invidia e per soverchia | potenza da Priverno, antica terra, | da' suoi stessi cacciato; e da l'insulto, | che gli fece il suo popolo, fuggendo, | nel suo misero essiglio ebbe in compagna | questa sola bambina, che mutato | di Casmilla sua madre il nome in parte, | fu Camilla nomata. (Diana: XI, vv. 854-867)
- In mezzo a tanta occisïone, ignuda | da l'un de' lati infurïando essulta | la vergine Camilla; ed or di dardo | fulminando, or di lancia, or di secure | non mai stanca percuote. E qual Dïana | di sonora faretra e d'arco aurato | gli omeri onusta, ancor che si ritragga, | saettando, ferite e morti avventa. (XI, vv. 1034-1041)
Libro XII
[modifica]- Queste parole | de la madre sentì Lavinia virgo, | di rugiadose lagrime e d'un foco | di vergineo rossor le guance asperse, | qual fòra se di purpura macchiato | fosse un candido avorio, o che di rose | si spargessero i gigli. (XII, vv. 118-124)
- Enea, de la romana stirpe autore, | con l'armi sue celesti e con lo scudo | che dianzi da le stelle era venuto, | uscío da l'altro canto, e seco a pari | Ascanio, il figlio suo, de la gran Roma | la seconda speranza.[47] (XII, vv. 281-6)
- Sempre Lazio sia Lazio, e sempre Albani | sian d'Alba i regi, e la romana stirpe | d'italica virtù possente e chiara. (Giunone: XII, vv. 1354-6)
- [...] che per fiero | che mi ti mostri, io de la tua fierezza, | orgoglioso campion, punto non temo, | nè di te: degli Dei temo e di Giove, | che nimici mi sono e meco irati. (Turno a Enea: XII, vv. 1455-9)
- Io, disse, ho meritato | questa fortuna; e tu segui la tua: | chè nè vita, nè venia ti dimando. | Ma se pietà de' padri il cor ti tange | (chè ancor tu padre avesti, e padre sei), | del mio vecchio parente or ti sovvenga. | E se morto mi vuoi, morto ch'io sia, | rendi il mio corpo a' miei. Tu vincitore, | ed io son vinto. E già gli Ausoni tutti | mi ti veggiono a' piè, che supplicando | mercè ti chieggio: e già Lavinia è tua: | a che più contro un morto odio e tenzone? (Turno a Enea: XII, vv. 1546-8)
- Allor da mortal gielo il corpo appreso | abbandonossi; e l'anima di vita | sdegnosamente sospirando uscío. (XII, vv. 1546-8)
Citazioni sull'Eneide
[modifica]- De l'Eneïda dico, la qual mamma | fummi, e fummi nutrice, poetando: | sanz'essa non fermai peso di dramma. (Dante Alighieri, Divina Commedia)
- L'Eneide è l'opera di un uomo dedicato alla morte ed è – secondo il simbolismo demonico di cui la storia si serve per illuminare tutto un complesso di rapporti – rimasta incompiuta, interrotta ad un passo dalla meta. È sorta nell'ultimo euforico barbaglio di una cultura vecchia di secoli a cui si è spezzato il cuore. Il suo sguardo estremo e illuminato nell'attimo in cui muore si volta intorno e in un momento magico rivive ancora una volta, l'ultima, tutto il passato mentre le porte del futuro già si spalancano e ne fiotta l'oro dell'eternità. (Rudolf Borchardt)
- L'evoluzione religiosa del poeta [Virgilio] fa dunque sì che egli approdi, dal suo epicureismo primitivo, a un platonismo mistico (o, se si preferisce, a un «neo-pitagorismo», che ammette l'esistenza di anime sopravvissute al corpo e discerne nel mondo un disegno della Provvidenza. [...] Si realizza in tal modo la sintesi delle principali correnti spirituali di Roma, che consente all'Eneide di farsi immagine di quest'ultima e giustificazione del suo straordinario valore storico. In breve tempo, Virgilio verrà considerato il portavoce di ogni verità direttamente ispirata dagli dèi. (Pierre Grimal)
- Lasciate il passo, scrittori latini, lasciate il passo, scrittori greci: | sta per nascere un non so che, più grande dell'Iliade. (Sesto Properzio)
- Nella storia di Enea sono fusi sia il carattere guerresco dell'Iliade sia le peregrinazioni dell'Odissea. (Nikolaj Aleksandrovič Dobroljubov)
- Qui si tratta di una creazione che è una creatura, la figlia del mondo occidentale, un poema. Essa è custode di un'infinita attesa di qualcosa che è più di una fede o di una dottrina; è una dolce immensa distesa di tempo riservata alle messi e alle speranze di tutti i tempi. (Rudolf Borchardt)
- Virgilio, colui che i cattedratici chiamano il cigno di Mantova, sicuramente perché non è là che è nato, gli appariva come uno dei più insopportabili scocciatori che l'antichità abbia mai prodotto, oltre che uno dei più terribili pedanti. I suoi pastori tutti lindi e agghindati, che si inondano a turno di versi sentenziosi e freddi, il suo Orfeo che egli paragona a un usignolo in lacrime, il suo Aristeo che piagnucola a proposito di api, il suo Enea, personaggio indeciso e incostante che si muove come un'ombra cinese, con gesti legnosi, dietro il trasparente e mal oliato poema, lo esasperavano. (Joris-Karl Huysmans)
- Virgilio insomma ha compiuto il miracolo di far fiorire la poesia eroica dal seno di una coscienza matura, nutrita di esperienza storica e di filosofia. La differenza rispetto al modello omerico non potrebbe essere più profonda. Omero mirava, più che altro, alla rappresentazione dei fatti esterni, pur illuminandoli con un alto patetico senso di umanità; Virgilio invece rivolge l'attenzione ai moventi psicologici . ai travagli spirituali, alle leggi misteriose, eterne che governano i fatti e il divenire della storia. Perciò ritroviamo nell'Eneide il nostro poeta, ne' suoi aspetti più personali e suggestivi; lo ritroviamo tormentato dal senso del dolore, ansioso di pace, di rivelazione. (Augusto Rostagni)
Note
[modifica]- ↑ Cfr. Rari nantes in gurgite vasto su Wikipedia.
- ↑ Cfr. Furor arma ministrat su Wikipedia.
- ↑ Cfr. Fidus Achates su Wikipedia.
- ↑ Cfr. Forsan et haec olim meminisse iuvabit su Wikipedia.
- ↑ Cfr. Non ignara mali, miseris succurrere disco su Wikipedia.
- ↑ Cfr. Infandum, regina, iubes renovare dolorem su Wikipedia.
- ↑ Cfr. Magna pars su Wikipedia.
- ↑ Cfr. Animus meminisse horret su Wikipedia.
- ↑ Cfr. Instar montis equum su Wikipedia.
- ↑ Cfr. Timeo Danaos et dona ferentes su Wikipedia.
- ↑ Cfr. Ab uno disces omnis su Wikipedia.
- ↑ Cfr. Quod di prius omen in ipsum convertant su Wikipedia.
- ↑ Cfr. Horresco referens su Wikipedia.
- ↑ Cfr. Quantum mutatus ab illo! su Wikipedia.
- ↑ Cfr. Iam proximus ardet Ucalegon su Wikipedia.
- ↑ Cfr. Una salus victis, nullam sperare salutem su Wikipedia.
- ↑ Cfr. Dolus an virtus quis in hoste requirat? su Wikipedia.
- ↑ Cfr. Et campos ubi Troia fuit su Wikipedia.
- ↑ Cfr. Parce sepulto su Wikipedia.
- ↑ Cfr. Quid non mortalia pectora coges, auri sacra fames su Wikipedia.
- ↑ Cfr. Agnosco veteris vestigia flammae su Wikipedia.
- ↑ Cfr. Vivit sub pectore vulnus su Wikipedia.
- ↑ Cfr. Haeret lateri lethalis arundo su Wikipedia.
- ↑ Cfr. Fama crescit eundo su wikipedia.
- ↑ Cfr. Vires acquirit eundo su Wikipedia.
- ↑ Cfr. Immota manet su Wikipedia.
- ↑ Cfr. Exoriare aliquis nostris ex ossibus ultor su Wikipedia.
- ↑ Cfr. Longo sed proximus intervallo su Wikipedia.
- ↑ Cfr. Deus, ecce deus su Wikipedia.
- ↑ Cfr. Nec mortale sonans su Wikipedia.
- ↑ Cfr. Tu ne cede malis sed contra audentior ito su Wikipedia.
- ↑ Cfr. Facilis descensus Averno su Wikipedia.
- ↑ Cfr. Hoc opus, hic labor su Wikipedia.
- ↑ Cfr. Eripe me his, invicte, malis su Wikipedia.
- ↑ Cfr. Desine fata deum flecti sperare precando su Wikipedia.
- ↑ Cfr. Discite iustitiam moniti, et non temnere divos su Wikipedia.
- ↑ Cfr. Mens agitat molem su Wikipedia.
- ↑ Cfr. Parcere subiectis et debellare superbos su Wikipedia.
- ↑ Cfr. Tu Marcellus eris su Wikipedia.
- ↑ Cfr. Manibus date lilia plenis su Wikipedia.
- ↑ Citazione che introduce l'opera di Sigmund Freud, L'interpretazione dei sogni.
- ↑ Cfr. Audentes Fortuna iuvat su Wikipedia.
- ↑ Cfr. Stat sua cuique dies su Wikipedia.
- ↑ Cfr. Mole sua stat su Wikipedia.
- ↑ Cfr. Dulces moriens reminiscitur Argos su Wikipedia.
- ↑ Cfr. Aeternum vale su Wikipedia.
- ↑ Cfr. Magnae spes altera Romae su Wikipedia.
Fonti
[modifica]- ↑ Citato in Giuseppe Fumagalli, Chi l'ha detto?, Hoepli, 1921.
- ↑ Citato in Paola Mastellaro, Il Libro delle Citazioni Latine e Greche, Mondadori, Milano, 1994. ISBN 978-88-04-47133-2
Bibliografia
[modifica]- Virgilio, Eneide, traduzione di Annibal Caro, Ulrico Hoepli Editore S.p.A., Milano, 1991.
- Virgilio, Eneide, traduzione di Rosa Calzecchi Onesti, Einaudi, Torino, 1989. ISBN 88-06-11613-4
- Virgilio, Eneide, traduzione di Mario Ramous, Marsilio, 1998.
- Virgilio, Eneide, traduzione di M. Scaffidi Abbate, Newton Compton.
- Virgilio, L'Eneide, traduzione di Giuseppe Albini, Zanichelli, 1963.
Voci correlate
[modifica]Altri progetti
[modifica]- Wikipedia contiene una voce sull'Eneide
- Wikisource contiene il testo completo in lingua italiana dell'Eneide
- Wikisource contiene inoltre il testo completo in lingua latina dell'Eneide
- Commons contiene immagini o altri file sull'Eneide