Eneide

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Dosso Dossi, Enea e Acate sulla costa libica

Eneide poema epico del poeta Publio Virgilio Marone.

Incipit[modifica]

Giuseppe Albini[modifica]

L'armi e l'uom canto che dal suol di Troia
primo in Italia profugo per fato
alle lavinie prode venne, molto
e per terre sbattuto e in mar da forza
ei de' Celesti per la memore ira
de la crudel Giunone, e molto ancora
provato in guerra, fin ch'ebbe fondata
la città e gli Dei posti nel Lazio,
onde il Latino genere e gli Albani
padri e le mura de l'eccelsa Roma.

[Virgilio, L'Eneide, traduzione di Giuseppe Albini, Zanichelli, 1963]

Annibal Caro[modifica]

L'armi canto e 'l valor del grand'eroe
che pria da Troia, per destino, a i liti
d'Italia e di Lavinio errando venne;
e quanto errò, quanto sofferse, in quanti
e di terra e di mar perigli incorse,
come il traea l'isuperabil forza
del cielo, e di Giunon l'ira tenace;
e con che dura e sanguinosa guerra
fondò la sua cittade, e gli suoi dei
ripose in Lazio: onde cotanto crebbe
il nome de' Latini, il regno d'Alba,
e le mura e l'imperio alto di Roma.

[Virgilio, Eneide, traduzione di Annibal Caro]

Mario Ramous[modifica]

Le armi canto e l'uomo che per primo dalla terra di Troia
esule raggiunse l'Italia e i lidi di Lavinio, spinto
dal fato e flagellato in terra e in mare dall'ostilità
degli dei, dall'ira implacabile dell'atroce Giunone,
e dopo aver sofferto a lungo in guerra, per poter fondare
la sua città e introdurre nel Lazio i Penati, dando radici
alla stirpe latina, ai padri albani e alle mura eccelse di Roma.

[Virgilio, Eneide, traduzione di Mario Ramous, Marsilio, 1998]

M. Scaffidi Abbate[modifica]

Canto le armi e l'uomo che per primo dalle terre di Troia
raggiunse esule l'Italia per volere del fato e le sponde
lavine, molto per forza di dèi travagliato in terra
e in mare, e per la memore ira della crudele Giunone,
e molto avendo sofferto in guerra, pur di fondare
la città, e introdurre nel Lazio i Penati, di dove la stirpe
latina, e i padri albani e le mura dell'alta Roma.

[Virgilio, Eneide, traduzione di M. Scaffidi Abbate, Newton Compton]

Citazioni[modifica]

Libro I[modifica]

  • Sta riposta nel profondo dell'animo la memoria del giudizio di Paride, e dell'ingiuria fatta alla sua spregiata bellezza. (26-27)
  • Di tanto momento era il fondare il popolo di Roma. (33)
  • Le armi sono al servizio del furore. (150)
  • Forse un giorno ci allieterà ricordare tutto questo. (203)
forsan et haec olim meminisse iuvabit.
Durate, et vosmet rebus servate secundis.
  • Sono il pio Enea, noto per fama oltre i cieli, e con la flotta mi porto appresso i Penati scampati al nemico. Cerco la patria Italia e gli avi miei, nati dal sommo Giove. (378-380)
  • [Su Venere] Al camminare apparve veramente dea. (405)
  • [Enea ad Acate] Guarda Priamo! Qui pure la gloria ha il suo premio, | e le pene hanno lagrime, toccan le cose degli uomini l'animo. (trad. Calzecchi Onesti, 462)
En Priamus! Sunt hic etiam sua praemia laudi, | Sunt lacrimae rerum et menten mortalia tangunt.
  • Non ignara della sventura, ho appreso a soccorrere gli sventurati. (630)

Libro II[modifica]

  • Tu mi comandi, o regina, di rinnovare un inenarrabile dolore. (3)
  • Non credete al cavallo, o Troiani. Io temo comunque i Greci, anche se recano doni. (48-49)
  • Da uno capisci come son tutti. (64-65)
  • Inorridisco nel raccontare. (204)
  • La sola speranza per i vinti è non sperare in alcuna salvezza. (354)

Libro III[modifica]

  • A cosa non spingi i cuori degli uomini, o esecrabile fame dell'oro! (56-57)
Quid non mortalia pectora cogis, | auri sacra fames!
  • Tu mura grandi a grandi prepara. (159-160)
  • I fati troveranno la via. (395)
  • [L'Etna] Tuona di orrende rovine | e vomita nel cielo una nube nera | fumante d'un turbine di pece e di ardenti faville. (571-573; citato in Corriere della sera, 25 ottobre 2008)
  • Quinci partito allor che da vicino | Scorgerai la Sicilia, e di Peloro | Ti si discovrerà l'angusta foce, | Tienti a sinistra, e del sinistro mare | Solca pur via quanto a di lungo intorno | Gira l'isola tutta, e da la destra | Fuggi la terra e l'onde. È fama antica | Che di questi or due disgiunti lochi | Erano in prima uno solo, che per forza | Di tempo di tempeste e di ruine | (Tanto a cangiar queste terrene cose | Può de' secoli il corso), un dismembrato | Fu poi da l'altro. Il mar fra mezzo entrando | Tanto urtò, tanto ròse, che l'esperio | Dal sicolo terreno alfin divise: | E i campi e le città, che in su le rive | Restaro, angusto freto or bagna e sparte. | Nel destro lato è Scilla; nel sinistro | è l'ingorda Cariddi. (658-675)
  • Nel destro lato è Scilla; nel sinistro | È l'ingorda Cariddi. Una vorago | D'un gran baratro è questa, che tre volte | I vasti flutti rigirando assorbe, | E tre volte a vicenda li ributta | Con immenso bollor fino a le stelle. | Scilla dentro a le sue buie caverne | Stassene insidïando; e con le bocche | De' suoi mostri voraci, che distese | Tien mai sempre ed aperte, i naviganti | Entro al suo speco a sè tragge e trangugia. | Dal mezzo in su la faccia, il collo e 'l petto | Ha di donna e di vergine; il restante, | D'una pistrice immane, che simíli | A' delfini ha le code, ai lupi il ventre. | Meglio è con lungo indugio e lunga volta | Girar Pachino e la Trinacria tutta, | Che, non ch'altro, veder quell'antro orrendo, | Sentir quegli urli spaventosi e fieri | Di quei cerulei suoi rabbiosi cani. (675-694)
  • Ma sì d'Etna vicino, che i suoi tuoni | E le sue spaventevoli ruine | Lo tempestano ognora. Esce talvolta | Da questo monte a l'aura un'atra nube | Mista di nero fumo e di roventi | Faville, che di cenere e di pece | Fan turbi e groppi, ed ondeggiando a scosse | Vibrano ad ora ad or lucide fiamme | Che van lambendo a scolorir le stelle; | E talvolta, le sue viscere stesse | Da sè divelte, immani sassi e scogli | Liquefatti e combusti al ciel vomendo | In fin dal fondo romoreggia e bolle. (897-909)
  • Mostro orrendo, difforme e smisurato, [Polifemo] | Che avea come una grotta oscura in fronte | In vece d'occhio, e per bastone un pino, | Onde i passi fermava. (1039-1042)
  • Giace de la Sicania al golfo avanti | un'isoletta che a Plemmirio ondoso | è posta incontro, e dagli antichi è detta | per nome Ortigia. A quest'isola è fama | che per vie sotto al mare il greco Alfeo | vien da Dòride intatto, infin d'Arcadia | per bocca d'Aretusa a mescolarsi | con l'onde di Sicilia. (1093-1100)

Libro IV[modifica]

  • Conosco i segni dell'antica fiamma.[1] (23)
agnosco veteris vestigia flammae.
  • La fama, male di cui nessun altro è più veloce, andando, diventa più grande, e acquista vigore nell'andare. (174-175)
  • Crudele Amore, a che cosa non forzi i cuori degli uomini! (412)
  • Resta immutato nel suo pensiero, e lascia scorrere inutilmente le lacrime. (449)
  • Almeno avanti | la tua partita avess'io fatto acquisto | d'un pargoletto Enea, che per le sale | mi scherzasse d'intorno, e solo il volto, | e non altro, di te sembianza avesse; | ch'esser non mi parrebbe abbandonata, | né delusa del tutto. (Didone: 493-499)
  • Ma ne l'Italia il mio fato mi chiama. | Italia Apollo in Delo, in Licia, ovunque | vado, o mando a spïarne, mi promette. | Quest'è l'amor, quest'è la patria mia. | Se tu, che di Fenicia sei venuta, | siedi in Cartago, e ti diletti e godi | del tuo libico regno, qual divieto, | qual invidia è la tua, ch'i miei Troiani | prendano Ausonia? (Enea a Didone: 521-529)
  • La donna è sempre cosa varia e mutevole. (Mercurio a Enea: 569-570)
  • Morrò invendicata! Ebbene, si muoia, disse. Così, cosi devo scendere fra le ombre. (Didone: 659-660; citato in Giuseppe Fumagalli, Chi l'ha detto?, Hoepli, 1921)
  • Se forza, se destino, se decreto | È di Giove e del cielo, e fisso e saldo | È pur che questo iniquo in porto arrivi | E terra acquisti; almen da fiera gente | Sia combattuto, e, de’ suoi fini in bando, | Da suo figlio divelto implori aiuto, | E perir veggia i suoi di morte indegna. | Nè leggi che riceva, o pace iniqua | Che accetti, anco gli giovi; nè del regno, | Nè de la vita lungamente goda: | Ma caggia anzi al suo giorno, e ne l’arena | Giaccia insepolto. Questi prieghi estremi | Col mio sangue consacro. E voi, miei Tirii, | Coi discesi da voi tenete seco | E co’ posteri suoi guerra mai sempre. | Questi doni al mio cenere mandate, | Morta ch’io sia. Nè mai tra queste genti | Amor nasca, nè pace; anzi alcun sorga | De l’ossa mie, che di mia morte prenda | Alta vendetta, e la dardania gente | Con le fiamme e col ferro assalga e spenga | Ora, in futuro e sempre; e sian le forze | A quest’animo eguali: i liti ai liti | Contrari eternamente, l’onde a l’onde, | E l’armi incontro a l’armi, e i nostri ai loro | In ogni tempo. E ciò detto, imprecando, | Schiva di più veder l’eterea luce, | Affrettò di morire. (maledizione di Didone: 941-968)
  • [Ultime parole] Adunque | morrò senza vendetta? Eh, che si muoia, | comunque sia. Cosí, cosí mi giova | girne tra l'ombre inferne: e poi ch'il crudo, | mentre meco era, il mio foco non vide, | veggalo di lontano; e 'l tristo augurio | de la mia morte almen seco ne porte. (Didone: 1012-1018)

Libro V[modifica]

  • Tienti vicino al lido... altri vadano in alto mare. (163-164)

Libro VI[modifica]

  • Guerre, orrende guerre. (86)
  • Tu non cedere alle disgrazie, ma va' loro incontro con più coraggio. (95)
  • Scendere agli Inferi è facile: la porta di Dite è aperta notte e giorno; ma risalire i gradini e tornare a vedere il cielo – qui sta il difficile, qui la vera fatica. (126-129)
  • Appena strappato il primo, non tarda a comparirne un altro. (143)
  • La Fame cattiva consigliera e la Povertà vergognosa. (276)
  • È guardïano | e passeggiero a questa riva imposto | Carón demonio spaventoso e sozzo, | a cui lunga dal mento, incolta ed irta | pende canuta barba. Ha gli occhi accesi | come di bragia. Ha con un groppo al collo | appeso un lordo ammanto, e con un palo, | che gli fa remo, e con la vela regge | l'affumicato legno, onde tragitta | su l'altra riva ognor la gente morta. | Vecchio è d'aspetto e d'anni; ma di forze, | come dio, vigoroso e verde è sempre. (441-452)
  • O Palinuro, | e qual fu de gli Dei ch'a noi ti tolse, | ed a l'onde ti diede? (Enea a Palinuro: 502-504)
  • Imparate a vivere rettamente ed a non disprezzare gli dei. (620)
  • Dunque, Dido infelice, e’ fu pur vera | Quell’empia che di te novella udii, | Che col ferro finisti i giorni tuoi? | Ah, ch’io cagion ne fui! (Enea a Didone: 673-676)
  • Un'intelligenza muove tutta quella massa. (727)
  • Vincerà l'amor di patria e l'immenso desiderio di gloria. (824)
  • Perdonare quelli che si sottomettono e sconfiggere i superbi. (853)
  • Date gigli a piene mani. (884)
  • In atto d’accoglienza: O figlio, disse | Dolcemente piangendo, io pur ti veggio, | Pur sei venuto, ha pur la tua pietade | Superati i disagi e la durezza | Di sì strano viaggio. Ecco m’è dato | Di veder, figlio, il tuo bramato aspetto, | E sentirti e parlarti. Io di ciò punto | Non era in forse, e sol pensava al quando, | Contando i giorni. Oh dopo quanti affanni, | Dopo quanti perigli, e quanti storpii | E di mare e di terra io ti riveggio! (Anchise a Enea: 1025-1035)

Libro VII[modifica]

  • Se non posso muovere i celesti, smuoverò gl'Inferi. (Giunone: 312)

Libro VIII[modifica]

  • La paura aggiunse ali ai piedi. (224)
  • Caco ladron feroce e furïoso, | D'ogni misfatto e d'ogni sceleranza | Ardito e frodolente esecutore. [insulto] (312-313)
  • Giace tra la Sicania da l’un canto | e Lipari da l’altro un’isoletta | ch’alpestra ed alta esce de l’onde, e fuma. | Ha sotto una spelonca, e grotte intorno, | che di feri Ciclopi antri e fucine | son, da’ lor fochi affumicati e rosi. | Il picchiar de l’incudi e de’ martelli | ch’entro si sente, lo stridor de’ ferri, | il fremere e ’l bollir de le sue fiamme | e de le sue fornaci, d’Etna in guisa | intonar s’ode ed anelar si vede. | Questa è la casa, ove qua giù s’adopra | Volcano, onde da lui Volcania è detta; | e qui per l’armi fabbricar discese | del grand’Enea. (639-653)

Libro IX[modifica]

  • Su me, su me, su me solo che il feci, volgete il ferro, o Rutuli. (427-428)
  • Così si sale alle stelle. (641)

Libro X[modifica]

  • Perché mi obblighi a rompere il mio profondo silenzio? (63-64)
  • La fortuna aiuta gli audaci. (284)
audentis Fortuna iuvat.
  • Ciascuno ha fissato il suo giorno. (467)

Libro XI[modifica]

  • Credete a chi ha provato. (XI, 283)
  • Ognuno sia speranza di se stesso.[2] (309)
Spes sibi quisque.

Libro XII[modifica]

  • D'Italica forza possente sia la stirpe di Roma. (827)
  • E la vita gemendo fuggì angosciata fra l'ombre. (952)

Citazioni sull'Eneide[modifica]

  • De l'Eneïda dico, la qual mamma | fummi, e fummi nutrice, poetando: | sanz'essa non fermai peso di dramma. (Dante Alighieri, Divina Commedia)
  • L'Eneide è l'opera di un uomo dedicato alla morte ed è – secondo il simbolismo demonico di cui la storia si serve per illuminare tutto un complesso di rapporti – rimasta incompiuta, interrotta ad un passo dalla meta. È sorta nell'ultimo euforico barbaglio di una cultura vecchia di secoli a cui si è spezzato il cuore. Il suo sguardo estremo e illuminato nell'attimo in cui muore si volta intorno e in un momento magico rivive ancora una volta, l'ultima, tutto il passato mentre le porte del futuro già si spalancano e ne fiotta l'oro dell'eternità. (Rudolf Borchardt)
  • Nella storia di Enea sono fusi sia il carattere guerresco dell'Iliade sia le peregrinazioni dell'Odissea [...]. (Nikolaj Dobroljubov)
  • Qui si tratta di una creazione che è una creatura, la figlia del mondo occidentale, un poema. Essa è custode di un'infinita attesa di qualcosa che è più di una fede o di una dottrina; è una dolce immensa distesa di tempo riservata alle messi e alle speranze di tutti i tempi. (Rudolf Borchardt)
  • Virgilio insomma ha compiuto il miracolo di far fiorire la poesia eroica dal seno di una coscienza matura, nutrita di esperienza storica e di filosofia. La differenza rispetto al modello omerico non potrebbe essere più profonda. Omero mirava, più che altro, alla rappresentazione dei fatti esterni, pur illuminandoli con un alto patetico senso di umanità; Virgilio invece rivolge l'attenzione ai moventi psicologici . ai travagli spirituali, alle leggi misteriose, eterne che governano i fatti e il divenire della storia. Perciò ritroviamo nell'Eneide il nostro poeta, ne' suoi aspetti più personali e suggestivi; lo ritroviamo tormentato dal senso del dolore, ansioso di pace, di rivelazione. (Augusto Rostagni)

Note[modifica]

  1. Traduzione di Annibal Caro; con queste parole Didone confessa alla sorella il suo amore per Enea.
  2. Citato in Paola Mastellaro, Il Libro delle Citazioni Latine e Greche, Mondadori, Milano, 1994. ISBN 978-88-04-47133-2

Bibliografia[modifica]

  • Virgilio, Eneide, traduzione di Rosa Calzecchi Onesti, Einaudi, Torino, 1989. ISBN 88-06-11613-4
  • Virgilio, Eneide, traduzione di Annibal Caro, Ulrico Hoepli Editore S.p.A., Milano, 1991.
  • Virgilio, Eneide, traduzione di M. Scaffidi Abbate, Newton Compton.

Voci correlate[modifica]

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