Fosco Maraini

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Fosco Maraini

Fosco Maraini (1912 – 2004), etnologo, orientalista, alpinista e scrittore italiano.

Citazioni di Fosco Maraini[modifica]

  • I viaggi li vedrei di due tipi fondamentali. Uno, quelli all'esterno dei grandi muri d'idee. Due, quelli con perforazione o salto dei muri d'idee ... I viaggi del secondo tipo portano sempre ad esperienze mentali e spirituali stimolanti, piene di suggestione. [...] In un viaggio del secondo tipo potrà capitare che tu resti sotto lo stesso cielo e nello stesso clima di casa (come avviene a chi passa da Salonicco ad Istanbul, o da Lahore ad Agra), può darsi che la gente non cambi notevolmente d'aspetto fisico (come scopre chi naviga, per esempio, da Trapani a Tunisi), può darsi che i sistemi di governo siano simili, può anche avvenire di parlare la medesima lingua (come nota chi vola da Mosca a Samarcanda, o chi segue una carovana da Skardu a Leh), eppure ben presto noterai qualcosa nell'aria che ti farà concludere d'aver varcato uno di quei confini tra gli uomini oltre il quale cessano le variazioni quantitative e s'instaura un salto qualitativo. (da Paropàmiso)
  • Il lonfo non vaterca né gluisce | e molto raramente barigatta, | ma quando soffia il bego a bisce bisce | sdilenca un poco, e gnagio s'archipatta. | È frusco il lonfo! È pieno di lupigna | arrafferìa malversa e sofolenta! | Se cionfi ti sbiduglia e t'arrupigna | se lugri ti botalla e ti criventa. | Eppure il vecchio lonfo ammargelluto | che bete e zugghia e fonca nei trombazzi | fa lègica busìa, fa gisbuto; | e quasi quasi, in segno di sberdazzi | gli affarfaresti un gniffo. Ma lui zuto | t'alloppa, ti sbernecchia; e tu l'accazzi. (Il lonfo, in Gnòsi delle fànfole, p. 23)
  • L'Asia centrale è un oceano di terra le cui onde, nei secoli, sono stati i popoli.[1]
  • Tutto in Asia centrale è fluido, si muove, si trasforma, scorre. I popoli sedentari, specie se vivono in regioni geograficamente ben delimitate dalla natura, costuituiscono delle entità etniche, nazionali, stabili e durature; basti pensare alla Spagna, alla Francia, al Giappone. In Asia centrale nulla di tutto ciò. [...] Dinanzi a questo panorama occorre rendere fluide persino le nostre abituali concezioni di popolo, etnia, nazione, regno, impero e via dicendo. Le componenti elementari – razza nel senso fisico, lingua, religione, organizzazione socio-politica, cultura, costumi, sistema di scrittura – sono tutte variabili indipendenti che si associano e disassociano tra di loro in modi e configurazioni spesso impreviste, talvolta fantasiose.[2]

Ore giapponesi[modifica]

Incipit[modifica]

Mi perdoneranno il lettore, o la gentile lettrice, se qui presento loro un'opera definibile ormai come una sfoglia, una pasta millefoglie, un'autentica lasagna di libro? Racconti, cronache, memorie, analisi di molteplici frequentazioni col Giappone, variamente scaglionate nel tempo, si appilano le une sulle altre generando (in luce di speranze ottimiste) una geologia complessa e forse interessante di notizie, ma anche possibilmente (in ombra di pessimisti timori) una frana di confusi frammenti. Il fatto è che tra le due copertine restano impigliati echi d'eventi e di sviluppi ch'ebbero luogo durante oltre mezzo secolo (1938-2000), e che riguardano un periodo non solo fortemente caratterizzato, ma convulso e spettacolare della storia giapponese.

Citazioni[modifica]

  • Allora [nel Giappone degli anni cinquanta] quasi tutti erano poveri e lesinavano non solo sugli svaghi, ma sul vestire e sul mangiare; si avvertiva, quasi aleggiante nell'aria, una psicologia da squattrinati perenni, costretti a ricontare di continuo il proprio gruzzolo per non far passi più lunghi delle gambe; oggi la vera miseria va cercata in giro col lanternino, la stragrande maggioranza della popolazione guadagna bene ed ha da spendere, spesso con larghezza; alcuni hanno da buttar via spensieratamente, stanno diventando i nuovi lords, pronti a scandalosi capricci nei loro Grand Tours mondiali. Allora prevaleva un certo atteggiamento d'inferiorità verso persone e cose di paesi stranieri, imperava ancora il bruciore della sconfitta; oggi si naviga sull'onda dei primati industriali, commerciali, finanziari, ed è ben palese una rinata sicurezza in sé stessi, un orgoglio di sentirsi giapponesi, che talvolta può sfociare in lisce, sottintese, vellutate segnalazioni d'alterigia. Allora vivere in Giappone richiedeva pazienza e buon umore, ché tante cose mancavano e tante altre funzionavano alla maniera del Terzo Mondo; oggi il paese intero pulsa come una smisurata orologeria oliatissima, di superba efficienza. Allora era bene prepararsi a vivere in modo stringato e spartano, oggi comodità e lussi, talvolta esagerati, sono ovunque a portata di mano. (pp. 10-11)
  • Un giorno, ricordo, conducevo alcuni amici giapponesi a visitare San Petronio a Bologna, e spiegavo loro il senso delle mirabili sculture di Iacopo della Quercia che ornano la facciata dellacattedrale. «Ecco Adamo ed Eva nel paradiso terrestre... Qui assaggiano il frutto proibito... E qui, vedete, vengono cacciati dal paradiso; lui è punito con il peso ed il sudore del lavoro e lei col dolore del parto...». «Come!?», esclamò subito uno dei giapponesi, «per voi il lavoro è una punizione?». Tale concetto parve, lo capii subito, assurdo. Il lavoro può essere pesante, antipatico, uggioso, odiatissimo, ma nessuno può scorgervi tinte d'una maledizione metafisica congenita — e farsene volendo intima bandiera. Di norma lo si concepisce come momento naturale, legittimo, dei vari cicli vitali (giorno, anno, esistenza), come un'estrinsecazione delle proprie abilità di mano e di mente. Bravo (jôzu) significa, in giapponese, "superiore di mano"; maldestro (heta) "di mano inferiore". (pp. 28-29)
  • Fino a metà Ottocento l'individuo conosceva solo doveri. La parola stessa "diritto" mancava nel vocabolario. Furono i filosofi dell'epoca che si misero a tavolino ed escogitarono il termine kenri, in uso tutt'ora, un connubio non troppo felice o geniale d'ideogrammi, in cui si uniscono le idee di autorità e quelle di profitto, vantaggio. Il concetto di persona è nuovo, forestiero, fragile: non ha vocaboli sicuri su cui appoggiarsi. Perfino il concetto di privato (kojin) sconfinava, e forse sconfina ancora, in quello di "egoista", denota qualcuno o qualcosa che, in qualche modo, si allontana, si sottrae, alla santissima collettività. (pp. 29-30)
  • Un secolo fa Dostoevski faceva esclamare ad un suo personaggio: Dio è morto, dunque posso uccidere, rapinare, stuprare a mio comodo e diletto! Discorso perfettamente valido per chi aveva collegato l'etica con Dio e con le sue rivelazioni, ma un non-senso per i popoli eredi delle tradizioni confuciane. In questo secondo regime di pensiero la gente può benissimo perdere qualsiasi fede religiosa, senza per questo perdere la bussola morale. I principi dell'etica non erano inizialmente radicati nella fede, bensi in una tradizione di ragionamento e di persuasione razionali. Non uccido perché un nume m'ha detto di non farlo, ma perché capisco che, ciò facendo, rendo difficile, impossibile, una vita associata normale e produttiva. (pp. 34-35)
  • Una cosa che scandalizza sempre — e giustamente – i giapponesi è la nostra abitudine di unire bagno e gabinetto in una sola stanza. Accanto alla vasca in cui ci si lava ecco il vaso su cui ci si siede per liberare i visceri dagli escrementi! È un'altra testimonianza del punto di vista puramente corporale, igienico, medico col quale consideriamo la funzione del bagno. In Giappone il gabinetto è per lo più separato dal bagno; si evita la nostra deplorevole confusione di sfere essenzialmente diverse. In Giappone il bagno nasce dalla purificazione rituale, quindi è un atto positivo, di gioia, una parte del riposo con cui l'uomo si rifà dalle fatiche del lavoro, parte importante, santificata, come il sonno od i pasti; per noi invece il bagno è giustificato unicamente dalla preoccupazione medica di de-sporcarsi, è una funzione di cui tutta la civiltà occidentale post-classica avrebbe fatto volentieri a meno. Per i giapponesi essa porta alla purezza, per noi libera dal sudicio; e le azioni degli uomini vanno intese piuttosto nel quadro dei loro fini che nelle modalità dei loro svolgimenti. (p. 48)
  • Il giardino che ho dinanzi a me è tipico di migliaia d'altri; eppure, ogni volta che lo osservo, resto di nuovo colpito dalla sua raffinatezza. Da noi cosa faremmo se avessimo un cortiletto a disposizione ed i mezzi per crearvi un giardino? Per prima cosa inonderemmo lo spazio di geometria. Qua un vialetto, là un'aiola, laggiù una panchina od una fontanella, poi vasi, rivasi, stravasi dappertutto, fin quando ogni centimetro risultasse costruito, ogni elemento irregimentato. Qui invece l'architetto ed il giardiniere hanno speso altrettanta energia ed altrettanto tempo per raggiungere fini diametralmente opposti. A prima vista sembra di trovarsi nella radura d'un bosco, che so io, in uno di quei fatati chiostri tutto luce e sole che s'aprono, sul breve spazio d'erbe ed arbusti, nei tomboli delle nostre coste tirrene ed adriatiche. Poi ti accorgi che l'opera dell'uomo esiste, eccome, ma l'ideale dell'artista è stato quello di ricreare la natura con squisitezza e semplicità, senza farsi né vedere né ricordare. Non vi sono linee rette, geometrie; oppure sì, c'è una geometria intima, infinitamente non-euclidea e sottile, un'armonia segreta che l'animo, a dispetto della mente, avverte subito. Tutto è irregolare; la forma del praticello centrale verde e soffice come una pelliccia misteriosa di mostro marino, il disegno dei blocchi piatti di granito amorevolmente prelevati da un greto di torrente montano, lisci per carezze di flutti lungo i millenni, la disposizione delle azalee, dei gelsomini, delle gardenie, dei cespugli che salgono piano piano verso i pini e gli aceri, ai quali è affidato il compito di nascondere il muretto di cinta, le case accanto, e d'incorniciare il cielo. L'armonia dell'insieme colpisce subito. È opera umile, raffinata, civile. (pp. 50-51)
  • [Maraini descrive ciò che vide di Tokyo nel 1945] Intorno a Marunouchi, il centro finanziario della metropoli, restavano in piedi alcune grandi costruzioni di cemento armato (sembra che gli alleati le avessero appositamente risparmiate per non mancare di uffici, e poter cosf governare efficientemente il paese al loro arrivo), ma i vastissimi quartieri costituiti da abitazioni, da piccoli negozi, da magazzini, della Tokyo bassa ed alta erano stati completamente rasi al suolo. Non restavano neppure le montagne di macerie delle città tedesche; il legno si era consumato in fiamme e fumo lasciando un terreno cosparso di polvere nera e brace spenta. L'occhio spaziava per ettari ed ettari d'un deserto bigio, dove ognitanto trovavi dei cocci, degli strani sassi verdi (mucchi di bottiglie fuse), dei pezzi di latta contorta ricoperta appena da qualche rampicante fiorito, che aveva fatto in tempo a germogliare fra un bombardamento e l'altro. (p. 52)
  • Altro particolare caratteristico delle città giapponesi, dal quale gli occidentali anche in visita breve non mancano di restare colpiti, è l'assenza pressoché totale di piazze, esedre, circhi, larghi, campi e simili, in ultima analisi dell'agorà. Le città giapponesi sono composte quasi esclusivamente di strade, e se per fortuita occasione si presentano degli spazi liberi, questi vengono immediatamente occupati da stazioni per gli autobus. Salvo dove s'irraggia il carisma imperiale, si vive in regime d'horror vacui. Ci si sente quindi costantemente spinti ad andare, andare, senza soste o riposi, senza mai un invito alla contemplazione. E la città come macchina, come mostruosa catena di montaggio. (p. 61)
  • Giorgio Vasari si scaglia contro l'architettura gotica, e qualifica una facciata di chiesa costruita in quel reverendo stile come una «maledizione di tabernacolini». Ecco, Kyoto oggi è per gran parte una smisurata maledizione di tabernacolini, uno sull'altro, uno accanto all'altro: hai ettari, chilometri quadrati di tabernacolini stramaledetti! (p. 66)
  • Stanno, com'era prevedibile, facendo la loro comparsa [le strade eleganti]. A Tokyo una delle più cospicue è costituita da quel bel vialone alberato, vagamente parigino, di nome Omote-sandô, che mette in comunicazione il viale d'Aoyama col parco del sacrario Meiji. Il viale Omote-sandô, lungo circa un chilometro, prima in lieve discesa, poi in graduale risalita, riunisce due colline. Gli edifici che lo fiancheggiano vanno dal mostruoso al neutro, ed in qualche caso dal neutro al notevole, all'interessante, al quasi bello, ma nel complesso ci offrono un altro esempio, forse un po' più ricercato del solito, di quel caos architettonico che predomina sfacciato in tutte le città giapponesi. (p. 67)
  • [A proposito del Palazzo dell'imperatore di Tokyo] Non si immagini un potente edificio, un mausoleo turrito, un fantastico sogno asiatico in trine di marmi, giungla di statue e fastigi d'oro; un Pitti, un Windsor, un Neuschwanstein dragonifero e pagodizzato. Il gusto giapponese della sobrietà offre qui al mondo una lezione memorabile di stile e raffinatezza: il Palazzo è costituito da padiglioni nascosti tra gli alberi, invisibili da fuori; la maestà del sovrano è però suggerita potentemente da rustiche ed imponenti muraglie inclinate che delimitano, al di là d'un fossato dove scorrono tranquille acque verdi, il Chiyoda-jô «il Castello-Campo delle Mille Età compaiono solo alcuni portali d'ingresso, alcuni ponti, qualche yagura (torre d'angolo o letteralmente «deposito per frecce»). Alberi di pino, elegantemente contorti, coronano gli spalti. (pp. 76-77)
  • È difficile capire il fascino del pachinko. Non c'è dubbio che esso costituisca una fuga dalla realtà, una droga; ma solo un popolo fondamentalmente buddhista poteva accettare con gioia proprio questo specialissimo tipo di fuga. Quali sono le tecniche buddhiste per arrivare all'illuminazione? Ce ne sono varie, ma una delle principali consiste nel liberare del tutto la mente dai pensieri contingenti perché possa farvisi luce la verità. E come si ottiene questa liberazione? Ripetendo fino ad annichilire la coscienza una frase, un mantra, una breve giaculatoria. Ecco il terreno subconscio su cui il fenomeno pachinko è poi esploso. (p. 92)
  • Ricordo, prima della guerra, quando si passava qui [davanti al Palazzo imperiale di Tokyo] in tranvai, ad un certo momento il bigliettaio s'irrigidiva sull'attenti e diceva: «Siamo giunti dinanzi all'onorevole Palazzo, i signori sono pregati di chinare la testa in segno – spesso c'era anche chi si toglieva il di rispetto»; allora i presenti si alzavano soprabito in segno ancora maggiore di deferenza – e tutti salutavano inchinandosi profondamente, in silenzio, cercando di non perdere l'equilibrio a causa dei movimenti del veicolo... (p. 104)
  • Conviene inoltre ricordare ancora che i sentimenti, le emozioni, l'irrazionale, nell'atteggiamento giapponese verso l'imperatore ed i suoi è molto più simile a quello, per esempio, dei romani per il Papa che a quello d'altri popoli per i loro re. (p. 106)
  • In Occidente il nudo è ammesso nell'arte ma non nella vita, in Oriente è ammesso nella vita ma non nell'arte. (p.134)
  • In vari punti nella cresta che circonda il cratere del Fuji il viandante nota mucchi di piccoli sassi gettati lì dai pellegrini e lentamente accumulatesi nei secoli. Secondo un'antica leggenda le anime dei bimbi morti hanno la dolorosa incombenza di colmare coi sassi il Sai-no-kawara, lo Stige buddista; il pellegrino ha dunque un pensiero per loro e getta qualche pietra, dove le hanno gettate migliaia di persone prima di lui. (p. 141)
  • L'Etna ha l'aria della vecchiezza; il Fuji invece è l'immagine della gioventù, le sue linee suggeriscono il movimento, lo slancio. L'Etna è possente, ti fa pensare ad un gigante saggio, talvolta è terribile, ma anche allora sembra scuotere le sue catene con l'ineluttabilità misteriosa d'un destino notturno; il Fuji è agile, fiero come una spada, t'invita all'ardire. L'Etna è profondamente maschio, è patriarca di messi, di villaggi, dei popoli di tonni nelle acque profonde ai suoi piedi; il Fuji fa pensare ad una vergine, non per nulla vi dimora la bella Figlia del dio delle montagne, o ad un guerriero adolescente che ha fede purissima in un'idea. Perciò il Fuji è anche vicino all'amore ed alla morte, a tutte le grandi follie; l'Etna invece è il tempo popolato di ombre senza fine. All'Etna si addicono l'ulivo, il castagno, la ginestra, piante legate alle fortune della civiltà ed ai sogni dei poeti, gli si addice anche la vite coi dolci languori che dona agli uomini, l'Etna è sempre pienamente di questo mondo; al Fuji si addicono invece i pini selvaggi del Ki no kai, del «Mare d'alberi» che ne lambe il versante Nord, e poi ceneri o neve; il Fuji, come la poesia, anela al cielo, non si sa mai con certezza se appartenga a questo mondo o no; «forse è un misterioso kami». (pp. 146-147)
  • Nessun giapponese pensa che a sua maestà Hiro Hito («Copiosa Fortuna») arrivi ogni mattina il caffellatte per levitazione, o ch'egli possa trasformare in carbone, in riso, in oro, in sostanze utili, le sabbie del mare. L'errore sta nel dire, in lingue occidentali, «l'imperatore è un dio», mentre invece l'imperatore è un kami. Dio è creatore, onnipotente, eterno; un kami è invece un punto, una cosa, una persona in cui si manifesta in maniera augusta una carica più intensa di quel segreto divino ch'è nascosto per ogni dove intorno a noi. I giapponesi non sono dunque degli illusi, degli insetti incomprensibili, dei folli, ma semplicemente dei poeti. (p. 197)
  • Chi ha detto che i giapponesi sono duri e formali? Se, è vero, spesso lo sembrano, ma il più delle volte è una difesa. Dentro non vedono l'ora di sciogliersi in cordialità e calore umano. Bisogna saper trovare la porticina. Per gli stranieri occidentali la posizione è particolarmente difficile; fin dall'inizio sorge il problema d'occulte presunzioni; tentacoli sottili, trasalenti, invisibili si confrugano reciprocamente. Chi si crede superiore a chi? Il più delle volte uno, o l'altro, o tutti e due avvertono istintivamente lo stato di squilibrio. E come si definisce in fisica la differenza di potenziale fra i due termini d'un circuito elettrico? Tensione: ecco dunque, avvertito lo squilibrio, nascere la tensione. Infine, per difendersi, la formalità. (p. 198)
  • Nel 1596: il capitano spagnolo d'un galeone, il cui carico era stato requisito da un feudatario giapponese, vedendosi alle strette tirò fuori una carta del mondo vantando l'immensità dei dominii di Filippo II. Alla domanda dei giapponesi, come avesse fatto un solo re a dominare tanti popoli, il capitano rispose che il sovrano cominciava coll'inviare nei paesi da conquistarsi gruppi di missionari, una volta che parecchia gente aveva abbracciato la nuova fede si facevano sbarcare delle truppe e queste, unite ai convertiti, portavano a termine con la forza un cambiamento di governo. Il Taikô Hideyoshi, l'uomo dal pugno di ferro che era riuscito proprio in quegli anni ad unificare per la prima volta dopo secoli il Giappone, appena gli fu riferita la cosa, esplose furibondo contro «le serpi che s'era nutrito in seno da quel momento si può dire ebbero inizio le persecuzioni contro cristiani e forestieri, che si protrassero terribili per una trentina d'anni, fino a soffocare quasi del tutto ogni influsso del mondo di fuori. (pp. 227-228)
  • L'influenza francese, la più forte tra quelle delle varie province che danno colore alla civiltà d'Europa, è l'unica che non solo ispiri le alte sfere della cultura, il mondo delle arti, delle lettere e della scienza, ma che sia discesa nella vita d'ogni giorno e l'abbia veramente pervasa. Basta far due passi in Ginza, a Tokyo, per vedere nelle insegne delle centinaia di locali ove si può bere birra, sakè o whisky in compagnia di quella moderna versione della geisha ch'è la jokyu-san, «la signorina mescitrice», quanto sia forte il desiderio di mostrarsi in qualche modo parigini. Una pariginità che spesso, poi, non sta né in cielo né in terra; ecco per esempio il Papirion (Le Papillon), il Ramuru (L'Amour), il Toaemuà (Toi et moi), il Kôkkudoru (le Coq d'or), il Rameru (la Mer), e altri fantastici figli dell'asse Nichi-Futsu (nippo-francese). Un attento osservatore di cose giapponesi (A. Smoular) dice di meravigliarsi, ogni volta che sente una delle fanciulle di facile virtù che vi mescono, con gesto d'antica cortigiana, un modernissimo (e generalmente pessimo) intruglio, «fare sensati ed intelligenti commenti su Matisse o su altri pittori francesi». Forse esagera, ma non siamo poi troppo lontani dal vero.
    La lingua giapponese stessa, oltre ad avere ormai digerito innumerevoli espressioni inglesi, ne ha accolte molte d'origine francese. Per esempio coloro che riflettono nell'aspetto o negli atti il disordine e l'indisciplina del dopoguerra si chiamano apurè (cioè «après guerre»); abekku (avec) poi ha infiniti usi, significa amante, amica, amico, geisha, compagna, e viene usato come sostantivo, aggettivo, interiezione. Il linguaggio degli artisti è ricchissimo di vocaboli quali atorie (atelier), amachua (amateur), moderu (modèle), ankoru (encore), dessan (dessin) ed altri del genere. (pp. 230-231)
  • Firenze è Occidente, bellezza che splende, coppa da bersi in un solo magico sorso; Kyoto è Oriente, bellezza celata, segreta, che devi conquistare a poco a poco. Firenze la puoi centellinare in un mese visitandone chiese, gallerie, ville, palazzi; ma puoi anche dire legittimamente d'averla veduta in un pomeriggio dai piazzali delle sue colline, dall'alto delle sue torri, dalle vie, dalle piazze, dai ponti. Per cominciare a sentire ed apprezzare Kyoto occorrono giorni e giorni. (p. 264)
  • A proposito di curiose superstizioni, anche di queste c'era una lista che non finiva mai. Che nessuno — per esempio — versi l'acqua calda in quella fredda, ma sempre quella fredda in quella calda; che nessuno lasci le stecche, con le quali si mangia, infilate nel riso; che nessuno, vestendosi, passi il margine destro del kimono sul sinistro; che nessuno disponga un giaciglio col capo in direzione kimon (Nord-Est); tutte proibizioni che derivano da simiglianze con gli usi funebri, come del resto avviene da noi per il cappello sul letto ed altri casi del genere. (p. 273)
  • Mia madre era cristiana — diceva — ottima cosa, bellissima cosa, ma tu non sai che cosa siano i cristiani giapponesi. Non immagini neppure a che silenziosi pinnacoli d'eroismo possono arrivare! Non sono più persone normali; perdono ogni senso di misura. Questo no, quello no. I peccati nascono e crescono come un bosco da tutte le parti, diventano una foresta, ti soffocano la vita. Sono stato allevato in un'atmosfera d'eterno funerale per una morte avvenuta duemila anni fa... (p. 283)
  • In Occidente noi viviamo in una specie di assurdo millenario compiacimento. Siamo persuasi di essere non solo i pili bravi, i più belli, i più buoni, i più tutto, ma anche i prescelti degli dèi, i possessori delle chiavi del mondo. Pensiamo che il cristianesimo sia talmente superiore a qualsiasi altra forma di vita spirituale che, al suo mero apparire sull'orizzonte, tutti debbano abbracciarne gli insegnamenti con entusiasmo. Questo atteggiamento costerà nel futuro non solo gigantesche delusioni, ma sangue e miseria senza fine. (p. 283)
  • L'amore per la natura, vivo, genuino, sentitissimo da tutti, è uno dei fondamenti della civiltà giapponese, una delle fiamme più luminose nella psicologia e nella sensibilità del pubblico, ma quando si trova in conflitto con il vitalismo shinto, è questo secondo che vince, che prende automaticamente la precedenza e schiaccia ogni ostacolo. Il vitalismo shinto è quella forza ancestrale ed irresistibile che spinge a produrre, a generare, a costruire, ad affermarsi (risshin-shussé) nel mondo, a combattere con le armi in tempi bellicosi, a guadagnar dobloni, oban, talleri, scudi, yen in epoche grasse e pacifiche, a premere insomma freneticamente il piede sull'acceleratore dei primati, ad inondare d'orgasmo ogni attimo della vita. Amore per la natura, per i silenzi, per le selve ed i fiori, per la notte nevosa al chiaro di luna? Ah si, stupende, commoventi, divinissime cose! Ma quando c'è di mezzo il vitalismo shinto fatevi in là, lasciate il passagio all'homo faber. Ubi major minor cessat. Salvo poi, in un secondissimo tempo, a pentirsi, a piangere sui disastri, a cercare in qualche modo di rimediare. Ma spesso è troppo tardi. (pp. 299-300)
  • Per svariate ragioni il Giappone è un paese in cui si sa tutto di tutti, dove è quasi impossibile sparire nella massa. La grande maggioranza dei matrimoni viene ancora affrontata, se non sotto la scelta e la scorta della famiglia, per lo meno in un clima di accordo con i familiari. E questi, valendosi di certe agenzie specializzate che vantano tentacoli ovunque, indagano non solo sul retroscena eugenetico — possibili casi di sifilide, pazzia, tubercolosi o altro, tra gli ascendenti della candidata o del candidato — ma ovviamente anche sullo sfondo sociale. E qui per i buraku-min è quasi impossibile mimetizzarsi, "passare". Le ditte industriali e commerciali hanno poi a disposizione dei nutriti "libri gialli", giustamente proibiti, illegali, ma venduti sottobanco a prezzi altissimi (mezzo milione e più a copia) in cui figurano i nomi sospetti, i luoghi d'origine, fortemente rivelatori, e persino i templi buddisti ai quali le famiglie dei paria erano affiliate prima del 1872, quando la situazione era chiara o brutalmente stabilita dalla legge. Basta il minimo sospetto ed il posto di lavoro, con una scusa qualsiasi, sfuma in niente. Si calcola che ogni anno dai 30 ai 40 buraku-min si suicidino per la disperazione di non poter sposare la persona amata, o di non trovare lavoro. (pp. 300-301)
  • Il posto che questa scrittura [gli ideogrammi giapponesi] ha nel quadro della civiltà d' Estremo Oriente è analogo soltanto nella maniera più imprecisa a quello che l'umile alfabeto ha nella nostra, od in altre civiltà «fonetiche» (per esempio India o Islam). Una lingua scritta in base ai suoni, come la nostra, include nella maggioranza delle sue manifestazioni solo due elementi principali: significato e pronuncia. Quando si sublima in quella quintessenza del linguaggio ch'è la poesia, essa ama fondersi col canto, avvicinarsi alla musica; la poesia occidentale è fatta essenzialmente per essere recitata. Una lingua scritta ideograficamente comporta invece tre elementi: significato, suono ed apparenza. Quando si sublima in poesia tende piuttosto a divenire sorella della pittura o dell'architettura, intesa quest'ultima come arte dei rapporti nello spazio. La poesia è fatta essenzialmente per essere vista; penetra nel cuore attraverso gli occhi. (p. 332)
  • L'ideogramma è la sola arte astratta in cui forma e contenuto si uniscano e completino a vicenda: ogni ideogramma ha un significato ben definito, un suono inequivocabile, una storia. Accanto dunque alla bellezza come superamento dei modelli riconoscibili nella natura, ecco una potenzialità esoterica, iniziatica, che partecipa del rigore che hanno l'algebra o la geometria. Sotto quest'aspetto l'arte astratta, come la si conosce e coltiva in Occidente, è condannata all'inferiorità del vago e del piacevole, di fronte allo splendore del puntuale e del vero che ha da sempre la grande sorella d'Asia. (p. 333)
  • Se si esamina più attentamente la storia nipponica, ci si accorge che non si tratta di dominio esclusivo d'una faccia prima e dell'altra dopo, ma piuttosto d'una predominanza d'elementi che continuano a coesistere in rapporti diversi fra di loro. Bisogna dunque concludere che ambedue le facce, quella fondamentalmente pacifica, d'estrema raffinatezza civile, di nobili entusiasmi per il bello e il sapere, e quella fondamentalmente battagliera, d'estrema raffinatezza barbarica, di terrificanti entusiasmi per un'idea vissuta sino all'immedesimazione totale, sono parti della complessa personalità giapponese, come ci si rivela nei millenni. (p. 348)
  • Se le donne giapponesi sapessero quanto stanno meglio in wafuku (abito giapponese) che in yôfuku (abito occidentale) non cambierebbero mai il primo per il secondo! Il kimono è fatto per loro, nato su di loro; è l'armonia, il controcanto in colori, superfici e drappeggio del motivo corpo. Lo yôfuku mette invece in mostra ogni più recondito difetto fisico; le gambe corte, spesso curve, la vita larga ed il corpo a tubo, il petto piccolo, le spalle arrotondate. (p. 416)
  • «Nikkô wo minai uchi wa, kekkô to iu na», se non hai visto Nikkō, non parlare di splendore, annuncia un detto comune. Vedi Napoli e poi muori, vedi Nikkô e aggiornati! (p. 435)
  • Come ho già accennato diverse volte, il concetto di diritto, in oriente, è del tutto diverso che nel mondo a noi familiare: si tratta in genere d'una concessione; non è qualcosa che possiedi in quanto esisti, ma un dono che ti viene fatto da fuori e da sopra, perché può facilmente venir revocato. (p. 477)
  • Ritornando […] mi sentii improvvisamente chiamare, ma forte, da mia madre. Mi voltai con le lacrime agli occhi: avevo capito. Soltanto un anno dopo avrei saputo che, esattamente in quell'istante, essa spirava migliaia di chilometri di distanza, in Italia. (p. 480)
  • Per noi, il peggiore di questi bombardamenti fu l'ultimo; quando venne distrutta la parte di Nagoya dove si trova il Tempaku, stretto per tre quarti dei supporti della città. Le prime squadriglie da aerei bombardarono uno dei quartieri immediatamente a sud; ogni ondata lasciava cadere il suo carico di fuoco più vicino; ormai eravamo sicuri che avrebbero spazzato anche noi. (p. 482)
  • Fu un missionario italiano, il padre Gnecchi-Soldi (1530-1609), ad osservare come spesso bisognasse tenere a freno i nuovi convertiti giapponesi in tempi di persecuzioni, perché quelli si buttavano alla morte quasi fosse una festa. È risaputo che la persecuzione giapponese, per atrocità d'aguzzini e per eroismo di credenti, costituisce una delle più terribili prove attraverso cui sia passata la Chiesa. (p. 502)

Note[modifica]

  1. Dalla prefazione a Storia segreta dei mongoli, a cura di Sergej Kozin, introduzione di Fosco Maraini, traduzione di Maria Olsùfieva Guanda, Modena, p. 7. ISBN 978-88-235-2905-2
  2. Dalla prefazione a Storia segreta dei mongoli, p. 9.

Bibliografia[modifica]

Voci correlate[modifica]

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