Alessandro Varaldo
Alessandro Varaldo (1878 – 1953), scrittore, drammaturgo e poeta italiano.
Il chiodo rosso
[modifica]Dopo una giornata laboriosa Lamberto si concesse una serata di svago. Sapeva di trovar qualche amico, o almeno qualche conoscente al bar dell'Albergo Quirinale, e, poiché la solitudine gli pesava ormai da tempo, decise d'andarsi ad imbrancare alla ventura là dove sapeva che sarebbe stato accolto simpaticamente. Si vestì ed uscì. Faceva ancora freddo, ma la serata prometteva un bel sereno stellato. S'incamminò per il viale deserto ed asciutto, felice di poter fare quattro passi nel silenzio e respirare in libertà.
Citazioni
[modifica]- La piccola bionda era contessa com'era maritata: né quarti, né metà. Pure la si chiamava signora contessa. Nessuno spendeva per il titolo e la qualifica, l'uno e l'altra figli del tacito consenso: si davano così, gratuitamente, per sociale indolenza. (p. 11)
- [...] lo spirito umano, che si dibatte nel finito, non fa che cercare l'infinito. E lo cerca in tutti i modi, a cominciare dalla fede, per finire nelle superstizioni. (p. 30)
- Le maníe hanno una loro morale particolare. Chi sdegnerebbe chinarsi per un biglietto da mille, non esiterebbe a rubare un libro raro, una moneta da collezione, un feticcio, e lo vedreste stupito dinanzi ad un'accusa di furto. (p. 39)
- Un amuleto, secondo chi se n'intende, porta fortuna in qualunque congiuntura della vita: nel giuoco, cioè, come nell'amore, nella carriera, in borsa, nei commerci... (p. 40)
- [...] perché dite che il numero non è poesia? Un grande poeta, che si chiamava Goethe, ha cantato il contrario, contando i piedi dell'esametro sulle morbide carni femminili. E se interrogate un musicista, vi dirà che non c'è armonia senza numeri. Forse è per questo che la maggior parte dei poeti e dei musicisti sanno fare così bene i loro conti. (p. 53)
- Chi non si china una volta per uso, si dovrà chinare più spesso per fatica. (p. 54)
- Nostro Signore preceduto dall'apostolo Pietro si recava da una città all'altra della Galilea nel colmo dell'estate. Pietro urtò in un ferro da cavallo e rabbiosamente lo gettò dietro di sé. Nostro Signore invece si chinò e lo raccolse. Alla prima borgata lo vendette per alcuni spiccioli, coi quali comprò delle ciliege. Attraversarono poi un lembo di deserto. Imperava la canicola e Pietro sudava e soffriva la sete. Invece di precedere veniva a rimorchio. Ad un tratto vide nella sabbia una ciliegia che Nostro Signore aveva lasciato cadere: si chinò subito e la raccolse: ma non bastava per la sua sete e proseguì con gli occhi a terra con la speranza che il Maestro ne perdesse ancora. E Nostro Signore ne perdette, così che Pietro si chinò assai volte, finché s'ebbe questo ammonimento: «Pietro, se una volta, a tempo, senza disdegno, ti fossi chinato, non avresti dovuto curvarti poi con tanta frequenza per bisogno» (p. 54-55)
- Il fiore che sta chiuso alla rugiada, non si apre nemmeno al sole. (p. 85)
- Le vie della provvidenza sono davvero imperscrutabili. (p. 87)
- [...] mi piace di veder lavorare! È così che il lavoro diventa una consolazione. (p. 88)
- La società, legiferando, finge di tutelar l'individuo ed invece tra le pieghe non pensa che a se stessa. (p. 94)
- La roulette è come la donna: non si può pretendere da lei che quanto può dare. (p. 105)
- [...] c'è un rito del fumo come c'è quello del tè. Le due cose di cielo – secondo i raffinati millenari cinesi – hanno bisogno, per riuscire, di tutta quanta l'attenzione di chi compie il rito, dal gesto delicato al più delicato ancora socchiudere delle labbra. Non si può compierlo parlando: lo si guasta o lo si dissipa, come rompe un'ala di vento la nuvola profumata. (p. 115)
Nuove penne dell'aquila
[modifica]Una bella mattina di primavera dell'anno di grazia 1771: nel bosco di Vincennes, che somigliava a una forestas vergine, di quelle che vedeva, sognandole come una terra promessa, dall'alta poppa del suo vascello, il capitano La Perouse – che idea di cercare altrove ciò che abbiamo in casa! – due mattinieri se ne andavano in compagnia, discutendo animatamente, senza badare più che tanto alla frescura, ai profumi silvestri, al coro dei cantori pennuti, come li chiamava il signor Bernardino di Saint– Pierre (sì, precisamente quello di Paolo e Virginia) o forse godendone, da incosci epuloni, che non badano alle squisite vivande imbandite.
Citazioni
[modifica]- L'uno [Ferdinando Galiani] era un piccolo magro, quasi gobbo a prima vista, contraffatto a giudicarlo così ad occhio e croce, più scimmia che uomo in apparenza, gli occhi vivissimi, le mani irrequiete, e saltava più che non camminasse. Vestiva di buon panno, portava parrucca, inforcava l'occhialino e gli stivaloni con la risvolta rossa rivelavano un piede quasi femminile. (p. 9-10)
- L'altro [Jean-Jacques Rousseau] era un borghese, in apparenza, non grasso, a prima vista goffo: una giacca marrone, delle grosse calze di lana, un farsetto di picchè, delle informe scarpe a punta rotonda e ben difesa da un cerchietto di metallo. Non portava parrucca e i capegli scarmigliati d'uno sperso grigio non vantavano certo parentela col pettine. Rispose, strizzando un rotolo di carte, che agitava come fosse la bacchetta del direttore d'orchestra:
– E torto avete mio caro abate. Non c'è salvezza per l'umanità, se non torna alla natura. (p. 10) - La Senna faceva un gomito e non si scorgeva nemmeno un tetto: gli alberi, alti, fronzuti e nodosi, circondavano uno spiazzo, donde giungevano grida fanciullesche, in tono gaio, frammiste a proteste e fischi: una specie di sommossa in miniatura.
– Eccovi degli esemplari al naturale, Rousseau, – disse Galiani. – Convincetemi o convincetevi. (p. 13) - Gian Giacomo Rousseau fissava il rossore del tramonto che accendeva le torri di Notre Dame, e non parlava. Ad un tratto starnutì.
– Ecco, – malignamente commentò il Galiani, – che cosa vuol dire mettere in pratica la propria filosofia e non portar la parrucca. Vi buscate un raffreddore e il barcaiolo vi prenderà per il mio servo fedele. Amico Gian Giacomo, scuotetevi di dosso la filosofia, e tornate alla musica! Vi farò un bel libretto e metteremo in burletta anche Socrate, se vorrete! (p. 18) - Benché poi si sia data una grande ampiezza alla gloria militare nascente del Bonaparte, da Tolone all'attacco di Oneglia, si può dire che il primo suo vero fatto d'armi di qualche conto e respiro sia stato Vendemmiaio [22 settembre ~ 21 ottobre]. Ma nessuno credeva nel suo genio guerresco, neanche Barras, che poi se ne vantava. (p. 35)
- Michelet, osserva che, oltre il busto di Houdon, l'unico ritratto rassomigliante del Bonaparte è quello di David, del 1810: l'Imperatore non vi ha né ciglia, né sopraciglia, pochi capegli castani e gli occhi grigi. (p. 39)
- Fu in quel giorno, undici di giugno, verso il tramonto, che arrivò Desaix all'accampamento di Stradella. Appena avvistato, il Bonaparte gli uscì incontro felice. L'aveva lasciato in Egitto a malincuore. Lo amava anche perché sentiva di essere amato, d'essere centro nel cuore di Colui, che fu nobile figlio della Rivoluzione, d'una folla di sentimenti, tutta una gamma, dalla simpatia alla fraternità, dalla intuizione all'ammirazione. Il rude Kléber aveva detto una volta:
– Non bisogna sentire la fedeltà cieca del cane!
E Desaix aveva risposto sorridendo:
– Io posso permettermelo sono di razza.
Luigi Carlo Antonio Desaix de Veygoux era nato nobile, ma aveva abbracciato la Rivoluzione. Fedele al Re, poco mancò non pagasse con la vita il suo attaccamento. Però il Comitato di Salute Pubblica era formato di fanatici sì, ma di intelligenti. E Desaix fu generale quando Il Bonaparte non lo era ancora. Ma non era vano, e non era avido. E sapeva essere amico. (p. 98-99)
Le notti incredibili
[modifica]Nell'anno 11873 non ero più giovane di primo pelo: posso anzi affermare che avevo con salfo passo varcata la soglia della maturità. Oso quindi sperare che si accetterà senza beneficio di inventario la strana avventura che m'accingo a raccontare.
Giungemmo a Siviglia il 22 dicembre 1873 con un tempo splendido: pareva quasi primavera tanto che ad Alcalà più che l'odore del pane fresco ci restò nelle narici il profumo dei gelsomini da notte. A Siviglia come in tutte le città che si rispettano, c'è una via dei Serpenti, e nella via dei Serpenti un albergo d'Europa, o fonda degli Europei, sotto la cui porta la nostra vettura ci depositò, anzi ci scodellò, perché le si spezzò una ruota.
Citazioni
[modifica]- In fatto di rovine, noi figli d'Italia abbiamo il palato guasto. (p. 9)
- Cadeva su Londra una notte strana. Purissima la volta del cielo ed Espero luceva come la si vede sul Palatino od affacciata ai monti di Sorrento: si presentava una luna piena come rare notti può illuminare la Torre spaventosa o l'acqua oliata del maestoso fiume. E tutta questa gaiezza, questa festività notturna della natura ci pesava tristemente addosso mentre ci incamminavamo verso il Phoenix Park. (p. 72)
Mio zio il Diavolo
[modifica]Reginaldo si destò verso le tre del pomeriggio. Ler ascoltò anzi l'una dopo l'altra cantante dal cucùlo dell'anticamera, e poiché s'era coricato presto – concluse, a mente un po' annebbiata ancora, che potevano essere soltanto le tre cose del pomeriggio. Sì, a meno che non fossero le tre di notte. Ma, quantunque buia la stanza, filtrava dalla complicità delle persiane e delle tende una incerta luce timida e grigia. Sicché Reginaldo fra sé deliberò in favore del pomeriggio e della pioggia.
Citazioni sul libro
[modifica]- Nell'avventura di Mio Zio il Diavolo, se mancherà l'unghia del leone, vive il desiderio del motto leggendario: accettala dunque, pegno della nostra buona amicizia, e pensa che il solo augurio ch'io mi faccio è quello d'una lettura senza sforzo e senza noia. (dalla prefazione)
Bibliografia
[modifica]- Alessandro Varaldo, Il chiodo rosso, A. Mondadori Editore, Milano, 1943.
- Alessandro Varaldo, Nuove penne dell'aquila, A. Mondadori Editore, Milano, 1935.
- Alessandro Varaldo, Le notti incredibili, A. Mondadori Editore, Milano, 1931.
- Alessandro Varaldo, Mio zio il Diavolo, A. Mondadori Editore, Milano, 1929.
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