Arturo Carlo Jemolo

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Arturo Carlo Jemolo (1891 – 1981), giurista e storico italiano.

Citazioni di Arturo Carlo Jemolo[modifica]

  • Questa verbosità della Costituzione, questo frequente ricorso a formule vaghe, non sono una semplice offesa al buongusto, ma riverberano su tutta la carta costituzionale una nota d'indeterminatezza, di pressappochismo, che certo non le giova.[1]

Chiesa e Stato in Italia[modifica]

Incipit[modifica]

Le speranze d'Italia: meglio, la speranza che l'Italia cessasse di essere una espressione geografica per divenire una unità politica (non importa se in forma federativa o scomparendo del tutto gli attuali Stati) si affermò nel quinto decennio del secolo [diciannovesimo], fissandosi nel mito neoguelfo: la federazione presieduta dal papa.
Tale mito svanì tra il 29 aprile '48, quando Pio IX (in cui la coscienza dei doveri di pastore universale era vivissima) dichiarò che mai sarebbe entrato in guerra contro uno Stato cattolico, l'Austria, per ragioni di nazionalità, ed il '49, allorché Pio IX, sconvolto dalla rivolta romana, che l'aveva costretto alla fuga a Gaeta, prese decisa posizione contro il sopravvivere delle costituzioni concesse l'anno prima, contro ogni istituzione che fosse nata dal liberalismo.

Citazioni[modifica]

  • Morto Cavour, fu chiamato a succedergli a capo del governo d'Italia Bettino Ricasoli, di grande famiglia toscana.
    Saliva così alle responsabilità di governo la più bella tradizione di aristocrazia intellettuale, di classe dirigente conscia che il potere è onere e dovere, responsabilità di fronte a Dio e agli uomini; e un degno rappresentante della corrente di pensiero, di preoccupazioni culturali, di esaltazione dell'intelligenza, che la Toscana – la terra di Dante, la culla del Rinascimento artistico e letterario, e, con Galileo, del Rinascimento scientifico – alimentava da secoli. (Capitolo II, Il Risorgimento (dalla proclamazione del regno d'Italia alla morte di Pio IX e di Vittorio Emanuele II), p. 33)
  • Il giudizio odierno [su Leone XIII] non collimerebbe con quello di quei contemporanei che pensavano confluissero nel papa umanista le due tradizioni, della diplomazia pontificia, e della vecchia diplomazia italiana del Rinascimento e della Controriforma, entrambe in alta fama. In realtà sembra che il pontefice avesse molte incertezze, fosse di quei diplomatici che tracciano i grandi piani ma non curano i dettagli né troppo si preoccupano della esecuzione, stabiliscono e valorizzano posizioni ideali, ma non dispiace poi loro di lasciarle in eredità ai successori, senza averne per proprio conto tratto corollari pratici. (Capitolo III, Il periodo di Leone XIII e di Umberto I, p. 55)
  • Esso [il partito nazionalista] non fu mai un partito di massa. Ma in seno alla borghesia, particolarmente alla borghesia intellettuale delle città, ebbe una rapida e sufficiente fortuna; e fu un fattore non disprezzabile della eclisse, a favore di dottrine reazionarie, della ideologia democratica e liberale (ma nel 1911 nessuno avrebbe potuto presagire la non lontana crisi). (Capitolo IV, Il nuovo secolo, p. 160)
  • Nelle letteratura sono sempre mancati fra noi, e mancano tuttora, scrittori che prospettino a un grande pubblico e ravvivino col magistero dell'arte i problemi della vita religiosa. La religione è di solito assente, tamquam non esset, dal romanzo e dal teatro italiano. (Capitolo V, La prima guerra mondiale e il travaglio del dopoguerra, p. 187)
  • Dalle pagine della «Civiltà Cattolica», padre Rosa[2] non ristà dall'attaccare ogni scritto, ogni gesto di Ernesto Buonaiuti, la testa forte del movimento [modernista], uno dei più begl'ingegni che abbia l'Italia, e che le circostanza avverse finiranno di stritolare, non consentendogli di lasciare una traccia che sia proporzionata alla forza del suo ingegno, alla dovizia di tutte le doti che formano i capi: fascino personale come pochissimi ebbero, l'eloquenza più calda ed affascinante, la bella prosa, l'ampissima cultura: quegli che, ove nel 1903 fosse asceso sul soglio pontificio un continuatore di Leone XIII, avrebbe anche potuto essere il Newman dell'Italia. (Capitolo V, La prima guerra mondiale e il travaglio del dopoguerra, pp. 187-188)
  • Se tutta la storia della vita intellettuale italiana è sempre povera dal lato religioso – nel senso che anche quando lo storico della religiosità può essere compiaciuto per la bella fioritura di ecclesiastici e di laici che eccellono nella virtù, di opere di pietà che sorgono e dànno frutti, di intensa devozione, deve pur sempre riconoscere che il suo giardino religioso è un giardino chiuso, e che la massa del popolo vi passa accanto senza coglierne i frutti, senza aspirarne il profumo, senza quasi accorgersene – questi anni del primo dopoguerra sono di singolare povertà. (Capitolo V, La prima guerra mondiale e il travaglio del dopoguerra, p. 188)
  • Ci si può chiedere se nel clero italiano non vi fosse chi avvertisse la radicale inconciliabilità tra la dottrina e la pratica fasciste – in questo periodo veramente senza sensibili divari fra loro − e i precetti del cristianesimo: una di quelle inconciliabilità assolute, che, allorché la Chiesa le constata, troncano la possibilità di compromessi. Occorre rispondere che no. (Capitolo VI, Il fascismo, p. 198)
  • Gli Accordi Lateranensi sono entrati in vigore da meno di due anni[3] allorché sui fogli fascisti si scatena l'offensiva – come ogni simile offensiva, accompagnata da episodi di violenza – contro l'Azione cattolica: accusata soprattutto di attuare un inquadramento di lavoratori contrapposto a quello dei sindacati fascisti e di offrire posti di comando a vecchi elementi del Partito popolare, rimasti sempre ostili al fascismo. (Capitolo VI, Il fascismo, p. 258)
  • Chi guarda con occhio spassionato le relazioni tra la Chiesa (non solo la Santa Sede, ma l'episcopato, il clero secolare e regolare) ed il governo fascista in un quadro d'insieme che comprenda gli undici anni decorsi dalla conclusione del Concordato agli inizi del '40, non può non riconoscere ch'esse furono cordiali, improntate ad uno spirito di collaborazione, di concessioni reciproche. (Capitolo VI, Il fascismo, p. 277)
  • [...] se c'è cosa difficile, è dare un giudizio sulla religiosità del popolo italiano. La quasi totalità degl'italiani battezza i figli, sposa in chiesa, fa funerali religiosi: pochissimi rifiutano la benedizione pasquale delle case; le chiese appaiono piene nei giorni festivi, ma le statistiche mostrano come il numero dei praticanti sia lungi dal raggiungere la metà della popolazione. (Capitolo VIII, Venti anni di repubblica, p. 329)
  • Il lato più impressionante è l'ignoranza [degli italiani] in materia religiosa, intorno ai dogmi, alla struttura della Chiesa, in tutte le classi: studenti universitari, professionisti, confondono l'Assunzione con l'Immacolata Concezione, ignorano la differenza tra un sacerdote e un religioso, non sanno il significato carismatico della consacrazione vescovile. Pare che la dottrina che hanno appreso bambini per ricevere la confermazione non abbia lasciato alcun ricordo. (Capitolo VIII, Venti anni di repubblica, p. 330)

Explicit[modifica]

Solo ancora vivente tra i grandi monumenti romani [la cupola di San Pietro], solo ancora intatto, solo ch'esplichi oggi lo stesso compito assegnatoti nel giorno in cui sorgesti e ospiti i medesimi riti e ascolti i medesimi inni, partecipi però con tutti i monumenti millenari di questa città al compito ammonitore: ricordare agli uomini quale piccola cosa siano i loro contrasti, quanto effimera sia ogni vicenda che abbia come metro generazioni umane.
Un secolo: la passione di tre, forse di quattro generazioni! l'affermarsi e il dissolversi delle tavole del liberalismo; l'inattesa realizzazione di uno Stato guelfo a cento anni dal crollo delle speranze neoguelfe: breve momento, piccola vicenda nella eterna storia dei rapporti tra umano e divino.

Crispi[modifica]

Incipit[modifica]

Queste pagine non vogliono essere una biografia di Crispi, e neppure un compendio delle vicende più interessanti e significative, una descrizione dei momenti più rappresentativi della sua vita.
Esistono biografie sufficientemente complete di Crispi; molto si è scritto intorno alla sua vita ed alla sua opera, soprattutto negli ultimi dieci anni, allorchè, ad iniziativa dei gruppi nazionalisti cui accedettero tutte le frazioni liberali non vincolate ai ricordi ed ai rancori della democrazia che aveva avuto Cavallotti a massimo duce, s'iniziò in Italia un movimento di comprensione, di devozione, di desiderio di riparazione, verso quegli ch'era stato un giorno l'uomo più impopolare, che si era spento nell'amarezza di tutte le diserzioni e di tutti gli abbandoni.

Citazioni[modifica]

  • Queste pagine [...] vogliono essere un contributo alla comprensione di un uomo che il popolo italiano - è inutile negarlo - non comprese, e nella grande maggioranza non amò: di un uomo la cui fortuna - è forza anche agli avversari più tenaci riconoscerlo - fu molto inferiore ai meriti; di un uomo la cui comprensione pur oggi, scomparsi i suoi contemporanei, sedata ogni ira ed ogni rancore, deve apparire ben difficile, se gli stessi apologeti sono tratti a falsarne in più lati la figura, a lasciare nell'ombra tendenze, avversioni, direttive di lui, che pur furono elementi essenziali della sua politica. (pp. 6-7)
  • L'accusa di bigamia contro lui portata potrà essere confutata sul terreno giuridico: non era confutabile sul terreno morale. L'abbandono della Montmasson[4], fedele ed eroica compagna dei giorni più duri, non può essere scusato. I biografi che hanno tentato farlo appellandosi al carattere, divenuto sospettoso e querulo, della forte savoiarda, alla precoce vecchiaia che le aveva tolta ogni venustà ed ogni grazia, al peso morto ch'ella ormai era divenuta nella vita di Crispi, devono avere essi stessi sentito la debolezza di tali giustificazioni: solo una morale ferocemente egoistica potrebbe accettarle. (p. 31)
  • Adua[5] fu l'episodio che occasionò la rivolta decisiva del popolo italiano contro Crispi: ma la rivolta latente era già negli animi: se in Crispi non fossero rimasti, più appariscenti che reali, residui di giacobinismo, atteggiamenti democratici, gesti e frasi che illudevano i meno sagaci, la rivolta sarebbe stata ancor più generale. (p. 158)
  • [...] a Crispi era stato sempre negato il dono di sedurre le folle, l'arte del convincimento verso le moltitudini: l'asprezza della vecchiaia gli aveva tolto sino i rudimenti di quell'arte [...]. (p. 158)

Explicit[modifica]

Crispi fu la prima tappa, ma il cammino è segnato e fatale: ed è al fondo della strada che si allontana ognora più dalla ideologia del Risorgimento, che si trovano la grandezza e la potenza d'Italia.

Incipit di Stato e Chiesa negli scrittori politici italiani del Seicento e del Settecento[modifica]

Non occorreva ai giurisdizionalisti per i fini pratici cui essi miravano, elaborare una intera dottrina dello Stato; pertanto è naturale che presso gli scrittori politici sia nel XVII sia nel XVIII sec. non si trovi una concorde teoria dello Stato, che possa dirsi caratteristica della scuola. Appaiono invece come caratteri propri a tutti gli scrittori giurisdizionalisti, da un lato l'esagerazione dell'elemento religioso nella concezione dello Stato, dall'altro l'allargamento dell'orbita dell'azione sociale e dei fini di quest'ultimo.

Note[modifica]

  1. Da Tra diritto e storia (1960-1980), A. Giuffrè, 1982, p. 93.
  2. Enrico Rosa (1870–1938), gesuita, scrittore e giornalista italiano.
  3. Sottoscritti l'11 febbraio 1929 da Benito Mussolini e dal cardinale Pietro Gasparri, gli Accordi entrarono in vigore il 7 giugno dello stesso anno.
  4. Rose Montmasson, detta Rosalia (1823–1904), fu la seconda moglie di Crispi. Sposata nel 1854, fu ripudiata dal marito che, dopo aver denunciato l'irregolarità del matrimonio, sposerà nel 1878 Lina Barbagallo.
  5. Nella battaglia di Adua del 1896, le truppe italiane, comandate dal tenente generale Oreste Baratieri, subirono una dura sconfitta.

Bibliografia[modifica]

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