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John Lukacs

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John Adalbert Lukacs (1924 – 2019), storico ungherese naturalizzato statunitense.

Democrazia e populismo

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  • «Siamo tutti socialisti!» fu la famosa esclamazione nel 1894 di Sir William Harcourt, un'esemplare figura di liberale britannico, mentre il parlamento votava l'ennesima legge di riforma sociale. Più di un secolo dopo il mondo intero è socialista, almeno nel senso che lo Stato sociale, o Stato-che-provvede, è stato accettato, quanto meno in linea di principio, e secondo modalità pratiche certo diverse, da un capo all'altro del pianeta.
    In questo senso, che un governo si dichiari oppure no socialista è quasi irrilevante; ma se un governo sia oppure no nazionalista non è affatto irrilevante. (p. 37)
  • È un grave errore pensare che Hitler scendesse (o fosse costretto a scendere) a compromessi con il capitalismo, che non fosse un «vero» socialista. Niente affatto: sia lui che il suo partito condannarono il Capitalismo Internazionale con la stessa energia con cui combatterono il Comunismo Internazionale. E la storia delle classi lavoratrici lungo tutto il Novecento e quasi ovunque mostra che erano disposte a tollerare, e perfino ad ammirare, i capitalisti di successo, purché fossero i «loro» capitalisti.
    Mussolini, Hitler, Perón, Stalin furono tutti socialisti nazionalisti, con l'accento che batteva sul secondo termine. Nel 1870, e ancora decenni più tardi, sembrava impossibile che il nazionalismo e il socialismo si sarebbero mai alleati. Eppure, se si pensa all'onnipresenza dello Stato sociale, oggi siamo tutti nazionalsocialisti, almeno in un certo senso. (p. 42)
  • La prima guerra mondiale segnò la sconfitta del Socialismo Internazionale e produsse l'avvento del nazionalsocialismo. (p. 44)
  • Gli operai, e forse soprattutto le loro mogli, aspiravano a essere, o rimanere, rispettati nel loro ambiente. Non erano disposti ad apparire insufficientemente rispettabili o insufficientemente nazionali. (p. 46)
  • Oggi, anche tra gli americani, la fede cieca nel Progresso sta affievolendosi; e sia i liberali superstiti sia i pochi conservatori non superficiali non credono più in maniera incondizionata nei benefici del progresso tecnologico. Ed è giocoforza riconoscere che una fiducia e una credenza senza esitazioni, e anzi entusiastiche, nella tecnologia sono rinvenibili in uomini come Hitler e Goebbels, che erano dei populisti. (pp. 55 sg.)
  • Era, e rimane, questa l'essenza dell'antisemitismo moderno, che era sì razziale, ma ancor più spirituale [cioè nazionale]. (p. 63)
  • Circa centovent'anni fa, in Austria la classica contesa ottocentesca tra conservatori e liberali cominciò dunque a essere soppiantata da una terza forza, che in Austria si disse cristiana (intendendo antiliberale e antiebraica) e socialista (in un'accezione nazionalista e non internazionalista). A Vienna i cristiano-socialisti conquistarono il potere nell'ultimo decennio dell'Ottocento sull'onda di un antiliberalismo populista e dell'antisemitismo (quest'ultimo fu poi ammorbidito dal loro leader carismatico, il sindaco della città, Karl Lueger). (p. 64)
  • Si rifletta anche sul fatto che se, in una situazione così difficile, Trockij e i suoi fossero rimasti al timone nella Russia sovietica, negli anni '30 Hitler avrebbe potuto facilmente fomentare in Russia una rivoluzione nazionalista e antisemita contro appunto Trockij e chi la pensava come lui: un grande passo, allora, verso la dominazione tedesca dell'Europa. (p. 89)
  • L'anticomunismo ha dovuto la sua diffusione e popolarità non al suo essere conservatore, ma al suo essere nazionalista. Che i picchi e la massima forza d'attrazione dell'anticomunismo abbiano solo di rado coinciso con le minacce più gravi del comunismo avanzante è un fatto abbastanza interessante, perché suggerisce che l'anticomunismo era molto più duraturo dell'attrattiva esercitata dai comunisti. (p. 94)
  • Il «totalitarismo» e il potere apparentemente onnipervasivo degli Stati di polizia hanno oscurato il fatto che quasi ovunque il potere statale è andato indebolendosi. [...] D'altro canto, l'importanza delle grandi imprese (con la loro connessa «globalizzazione») è ingannevole, perché i loro temporanei manager e amministratori non ne sono i veri proprietari. Essi non costituiscono una nuova aristocrazia, il tipo di aristocrazia che inevitabilmente emerge quando gli Stati s'indeboliscono. Nel nostro futuro c'è un nuovo feudalesimo barbarico; ma la sua ora non è ancora giunta. (pp. 144-147)
  • Una delle differenze fondamentali tra le posizioni estreme della destra e della sinistra è la seguente: nella maggior parte dei casi, la molla delle prime è l'odio, quella delle seconde è la paura. (p. 183)
  • È possibile che in futuro la vera divisione sarà non tra destra e sinistra, ma tra due specie di destra: tra coloro la cui bussola è il disprezzo della gente di sinistra, che odiano i liberali più di quanto amino la libertà, e coloro che amano la libertà più di quanto temano i liberali; tra nazionalisti e patrioti; tra chi crede che il destino dell'America sia governare il mondo e chi non ci crede; tra coloro che sono favorevoli allo «sviluppo» e coloro che desiderano proteggere e conservare la terra: tirando le somme, tra chi non mette in questione il Progresso e chi invece lo fa. (p. 199)
  • È possibile che ci tocchi di assistere a un declino dell'accettazione dei poteri monarchici e gerarchici (e del prestigio) della Chiesa non dissimile da quanto avvenne quindici secoli fa — quando, per esempio, nel 499 gruppi rivali in seno al clero e al popolo elessero a Roma due diversi vescovi, e ci si rivolse a un governante semibarbaro (Teodorico) perché scegliesse quale dei due dovesse diventare pontefice. Ma è anche possibile il contrario, giacché la Chiesa cattolica è l'ultimo bastione e l'ultima fonte d'ispirazione — assediati e malconci, eppure qua e là visibili – dell'integrità personale, della decenza e, sì, della libertà e della speranza. (p. 212)

Bibliografia

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  • John Lukacs, Democrazia e populismo, traduzione di Giovanni Ferrara degli Uberti, Milano, Longanesi, 2006.

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