Giacomo Barzellotti (filosofo)

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Giacomo Barzellotti

Giacomo Barzellotti (1844 – 1917), filosofo italiano.

Citazioni di Giacomo Barzellotti[modifica]

  • Ippolito Adolfo Taine è stato uno degl'ingegni più varii, più fecondi e a un tempo dei più chiari, disciplinati e metodici che siano apparsi ai nostri tempi; ingegno d'impronta francese, in cui però l'abito di mente della sua razza, o, per adoperare la espressione ch'egli prediligeva, la forma d'intelligenza che le è propria, ha ricevuto in sé e ha svolto in un potente lavoro di assimilazione molti germi d'idee uscite dalla mente germanica.[1]

Dal Rinascimento al Risorgimento[modifica]

  • Nel barocco l'arte non è stata, in fondo, se non la manifestazione sensibile dell'indirizzo storico del Cattolicismo e sopra tutto di quello preso dal Papato dopo Trento. Chi è che si può immaginare una Ginevra italiana col culto spogliato di ogni ornamento parlante agli occhi e all'immaginazione, con la monotonia dei canti salmeggiati nelle chiese senza un altare, coi sermoni dei pastori vestiti al modo dei laici, coi concistori dei fedeli disputanti le intere giornate sul domma della predestinazione? (p. 48)
  • Dopo Michelangelo, l'anima più alta di artista credente che l'Italia abbia dato è quella del Tasso. Il Carducci lo chiama a ragione «il solo cristiano del nostro rinascimento del quale», aggiunge per altro, «partecipa tanto, che il sensualismo nell'opera sua si mescola al misticismo.» (pp. 90-91)
  • Se si guardano attentamente, sopra tutto nella parte decorativa che vi primeggia, i più tra i monumenti di Roma papale, ci si sente quello che il barocco esprime nella storia dell'arte, e che ha sua ragione più intima nella vita e nella cultura italiana de' due ultimi secoli: lo sforzo ingegnoso, spesso anche geniale, ma pur sempre lo sforzo del produrre, accumulando, mettendo l'una accanto all' altra le forme più varie e i segni sensibili, quell'impressione del bello e del grandioso che ormai il sentimento e la fantasia non colgono più immediatamente nell'unica loro espressione appropriata e più vera: l'efficacia dell'arte, cercata faticosamente nella quantità e nel lusso, più che nella qualità e nell'elegante semplicità de' mezzi; in scultura e in pittura, nel moto tutto esteriore dei corpi più che nella correttezza del disegno; in letteratura, nella vuota pompa rettorica del periodo e delle figure; – ciò che in ognuna di queste arti e nell'animo e nella vita contemporanea del nostro popolo attesta un gran difetto d'intima fede, di fini e ideali certi, chiaramente intuiti, fortemente consentiti. (pp. 103-104)
  • [...] mi pare, ch'è indizio d'allora in poi di un grande scadere della fede religiosa e del sottentrarle che fa sempre più una fiacca oziosità devota, quello che io chiamerei il barocco nelle preghiere cattoliche, ed è quel ripetere, come per esempio si fa nel Rosario, centinaia di volte la stessa forma d'invocazione, sino a pronunziarla poi solo a fior di labbra e colla mente vòlta chi sa dove; quasi presso Dio il valore della preghiera dipendesse dalla quantità e della vuota amplificazione delle formule e dal tempo che ci si spende, non dall'intenzione sincera e dalla disposizione dell'animo di chi prega. (p. 104)
  • [...] nulla poteva rendere i disegni immensi e le aspirazioni del Papato in cotesti e in tutti i tempi meglio di quella cupola [di San Pietro], il cui profilo è cosi elegante e la mole è tanta, che veduta da lontano apparisce sola a segnare nella vasta campagna deserta il luogo ov'è Roma. (p. 141)
  • [...] a chi entra nella piazza e si sofferma a guardarlo, il San Pietro si presenta tale in tutto quale l'ha fatto l'ultima trasformazione storica del Papato. Il Coleridge disse che l'architettura è una religione pietrificata. Io sarei tentato di chiamare il San Pietro una pietrificazione della storia religiosa e civile del Papato da Trento in poi. Alla primitiva chiesa cristiana popolare, democratica, vivente nella libera comunione delle anime di tutti i fedeli adunati, sotto un capo spirituale, sottentra nel Cattolicismo romano quella dominata dalla gerarchia e dai papi. (p. 144)
  • Noi, fatta qualche eccezione per la seconda metà del settecento, se pur c'è da farla, non abbiamo avuto fino al Leopardi un solo lirico intimo, nel vero senso della parola. E quanto poche nella nostra letteratura, a confronto delle inglesi e anche delle francesi, le memorie, le autobiografie che penetrino a fondo in qualche anima e ce la rendano intera! (pp. 200-201)
  • La tendenza, innata negli italiani, a dar corpo e forma anche a ciò che non ne ha, a tradurre l'invisibile nel visibile, nel sensibile e nel plastico, si mostra anche nella nostra musica e l'accompagna, a parer mio, troppo e la subordina troppo all'arte della parola. (p. 231)
  • Tra le storie della nostra letteratura, scritte da Italiani, non ce n'è una sola, ch'io sappia, eccetto forse quella del Tiraboschi, – essa resta per questo rispetto ancora la più moderna, – che consideri l'opera del pensiero filosofico (ciò che si fa sempre in Germania), tale qual'è di fatto, come una parte integrante della vita storica della letteratura. (p. 332)
  • Le Operette morali del Leopardi – si sa che il Manzoni le indicava come il modello più perfetto della prosa italiana moderna [...]. (p. 346)

Studi e ritratti[modifica]

  • [...] il vero e unico segreto della potenza del De Sanctis stava nelle sue facoltà di artista. Per lui la critica non era quello che è per tanti oggi, racimolatura faticosa e infeconda di briciole lasciate cadere da un grande nel momento di creare l'opera sua; non era dissezione di coltello anatomico che spenge, appunto mentre vorrebbe coglierla a parte a parte, tagliando fibra per fibra, quella vita che l'arte ispira nei suoi capolavori. La critica era per Francesco De Sanctis un'evocazione, e la parola penetrava e scaldava il pensiero come intimo tocco di cosa viva. (parte seconda, p. 181)
  • Terenzio Mamiani non fu, diciamolo subito col rispetto del vero ch'era il sospiro di tutta la sua vita, non fu né un grande scrittore, né un gran filosofo; fu un artista elegante di versi e di prosa, felicissimo, geniale anzi talvolta nel contemperare, imitando, la forma classica antica alle idee moderne; fu un pensatore largo, elevato, nobilissimo; ma sopra tutto poi un alto e forte carattere nella condotta così della vita come dell'ingegno. (parte seconda, p. 200)
  • Nello stile del Mamiani, anche ne' brani più belli dei Dialoghi di Scienza prima e nelle Confessioni d'un Metafisico, l'idea espressa da lui non ti sta mai innanzi in tutta la nudità scultoria delle sue forme. Ti si lascia intravedere panneggiata sempre con arte, e per lo più si atteggia, si move con una certa preziosità accademica. Così, per quanto conoscitore fine delle ricchezze e del materiale antico della nostra lingua, il Mamiani, scrivendo per lo più di maniera, ne adopera soltanto una piccola parte; ciò che gli toglie efficacia, e fa sì ch'egli ben di rado desti fortemente col suo il pensiero di chi lo legge. (parte seconda, p. 204)
  • Come tutti gli uomini di scienza veramente grandi, egli [Charles Darwin] aveva in sé eguale e compagna a quella del ragionamento e della sagacia nell'osservare, la potenza della fantasia. (parte seconda, p. 216)
  • Di Quintino Sella si può, io credo, pensare altamente, e in modo degno in tutto di lui e della sua fama, e, ad un tempo, ricordare che egli stesso non ambì mai, anzi sdegnò la parte e la fama di abile uomo parlamentare. (parte seconda, pp. 223-224)
  • Questa [l'intelligenza] in Quintino Sella fu delle più chiare ed acute, delle meglio equilibrate, se non delle più ricche e geniali, che in Italia si siano applicate alle cose dello Stato. Ma fu sopra tutto, e qui stava il segreto del suo valore, un'intelligenza che inesorabilmente voleva ciò che vedeva. (parte seconda, p. 224)
  • La simpatia viva, che l'ingegno, l'aspetto, tutto quanto era in Carlo Hillebrand ispirava a chiunque lo avvicinasse, proveniva anche da questo: che nessuno più di lui era pronto a provarne una non meno viva per gli altri al benché minimo segno che gli fosse apparso di bontà e schiettezza d'animo e d'ingegno vero, sopra tutto poi, d'un'indole non artefatta, non guasta da preconcetti, da sistemi, da rettoriche di sorta; qualità ch'egli apprezzava innanzi a tutte specialmente ne' giovani. (parte seconda, pp. 259-260)
  • [...] nessuno poteva dirsi più esente di lui [Carlo Hillebrand] dal difetto, proprio delle anime e delle intelligenze meschine, che sempre cercano negli altri soltanto un'immagine e quasi un'eco di sé stesse. Quel detto del personaggio della commedia latina, che non stimava alieno da sé nulla di ciò che è umano, si sarebbe potuto in un senso più alto e più vero riferire a lui. Pareva che all'attitudine mirabile ch'egli ebbe a intendere, a parlare e a scrivere le lingue principali d'Europa si fosse unita in lui anche quella di comprendere, per dir così, altrettanti linguaggi della mente e dell'animo umano quanti ne esprimono in sé le idee e i sentimenti più propri alle principali tra le razze civili, specie alla latina e alla germanica [...]. (parte seconda, p. 260)
  • [...] nella conversazione egli [Carlo Hillebrand] era uno – lo dirò colla parola francese che ci si presta meglio – uno dei causeurs più perfetti che io abbia mai conosciuto. L'attrazione ch'egli esercitava su quanti lo avvicinavano, nasceva oltreché da un'educazione squisita e da un fino tatto di società, divenuto in lui natura, dall' interesse ch'egli sapeva mettere in quasi tutto ciò su cui venisse a cadere la conversazione, e nel farle attinger vita dallo stato d'animo e di mente di chi parlava con lui. Egli ne aveva un intuito sicuro. Gli si leggeva negli occhi; e si vedeva che quel suo prender viva parte alla compagnia e spesso anche ai sentimenti di chi forse gli parlava per la prima volta non era in lui mera arte di gentilezza, molto meno curiosità volgare o fredda passione di osservatore; era un' intima simpatia ch'egli provava per ogni cosa umana. (parte seconda, p. 261)
  • In questo stato della letteratura e dell'arte non fa specie che cresca ogni giorno, e più che altro in Francia, ove da vero la critica è oggi quello che la definiva così bene il Sainte-Beuve: une clinique chaque matin au lit du malade, il sentimento come di una grande mancanza di spontaneità, come di un abbassare progressivo delle forze vitali dell'ingegno umano. Perciò un alito fine, snervante di pessimismo spira in quelli scrittori, ne' quali l'arte è, come ben dice il Bourget, arte di decadenza, nel Baudelaire, nel Flaubert, nei fratelli Goncourt. In tutti questi e ne' loro imitatori e seguaci d'altri paesi ciò che il lettore di gusto sano vi sente e gli dà nella lettura quasi un sapore ricercato di corruzione eccitante e signorile, è la malattia del nervosismo critico, di cui un po' più, un po' meno tutti soffriamo. L'ingegno umano, quale ci si mostra in loro e in tutti gli altri scrittori di decadenza contemporanei, è un malato che sta davanti ad uno specchio a guardarsi la lingua, a tastarsi il polso e si fa auscultare e racconta e descrive agli altri, con minuziosità morbosa, il suo male. E malati di nervi erano e, se non sbaglio, morirono, il Flaubert, il Baudelaire e uno de' fratelli Goncourt. (parte terza, pp. 308-309)
  • Il segreto della superiorità assoluta che la religione ha sempre avuto sulla filosofia e sulla scienza quanto al potere di dirigere la mente e la vita umana, è tutto qui: nella soddisfazione infinimente maggiore e più intima che la religione dà a cotesto bisogno del nostro spirito [di meditare sull'origine e la natura del male] coll'acquietarlo, per quanto sta in lei, non solo nella sua forma intellettuale, ma anche e più in quella del sentimento, dell'immaginativa e dell'affetto. (parte terza, p. 366)
  • Scienza e musica sono i due estremi opposti, i due poli dell'idealità intellettuale e artistica del secolo. Mentre quella rappresenta oggi agli occhi de' più il sapere per eccellenza, questa è certo, per eccellenza, l'arte dei nostri tempi. (parte terza, p. 375)
  • Si direbbe che quanto più la letteratura cerca di scendere addentro nell'animo umano e di ricercarne ogni parte, pubblicando a migliaia memorie, autobiografie, lettere, pagine intime, facendo della storia una psicologia, del romanzo un'analisi continua, di tutta la poesia non altro ormai che lirica, tanto più essa riesca al paragone inferiore alla sua rivale, alla musica, nel suo tentativo d'interpetrare noi stessi, di esprimere, di dire ciò che è indicibile. E molti oggi infatti sono d'opinione che la musica dovrebbe ormai sciogliersi, separarsi affatto dalla parola. (parte terza, p. 376)
  • Certo a chi mi domandasse quale dei più grandi artisti nostri abbia espresso più profondamente e fedelmente di tutti quella così intima parte del sentimento individuale, sociale e nazionale, propria al nostro tempo e al nostro popolo, che il romanzo e la lirica e il dramma hanno inutilmente tentato d'esprimere intera, io risponderei che questo artista è stato Giuseppe Verdi [...].

Note[modifica]

  1. Da Ippolito Adolfo Taine, in Nuova Antologia di lettere, scienze ed arti, terza serie, volume XLVI, della raccolta volume CXXX, Direzione della Nuova Antologia, Roma, 1893, p. 5.

Bibliografia[modifica]

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