Francesco De Sanctis

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Francesco De Sanctis

Francesco Saverio De Sanctis (1817 – 1883), scrittore, critico letterario, politico, filosofo e storico letterario italiano.

Citazioni di Francesco De Sanctis[modifica]

  • È egli vero che il romanzo storico si proponga di farci conoscere un'epoca? Ma niente ci è che sia più repugnante alla natura della poesia.
    La poesia è messa tra due estremi, tra la scienza e la storia, cioè tra l'idea e il fatto. L'idea ed il fatto separatamente presi sono due astrazioni; ciò che esiste è l'idea vivente, l'idea fatto. Ma l'idea non si realizza tutta nel fatto; considerata nella sua purezza ella si presenta a noi come tipo o esemplare, di cui non vediamo tutti i caratteri effettuati nel reale. Di qui il bisogno di una terza cosa – la poesia, la quale opera la conciliazione fra i due termini, trasformando il reale, spogliandolo di ciò che ivi è repugnante o indifferente, e conformandolo con l'idea; cioè a dire idealizzando il reale. Così la poesia trasforma l'idea in ideale ed il corpo in fantasma o idolo. Ciò posto, in che modo la poesia potrebbe proporsi per iscopo di rappresentare il reale? Gli è un domandarle che rinneghi se stessa; gli è come dire all'acqua: – Io ti permetto che tu mi caschi su, ma col patto che non mi bagni –. Il romanzo storico non può dunque avere per iscopo la conoscenza della storia. Che cosa è dunque? È la storia trasformata dall'arte, la storia idealizzata, come sono sempre stati soliti di fare i poeti.[fonte 1]
  • La scienza critica è fondata sulla verità e freschezza delle prime impressioni, che tu devi riandare ed esaminare diligentemente. Siccome la poetica non può tener luogo del genio, cosi la critica non può tener luogo del gusto; ed il gusto è il genio del critico. Si dice che il poeta nasce; anche il critico nasce; anche nel critico ci è una parte geniale, che ti dee dar la natura.[fonte 2]
  • Ma il Gattinelli non ha confidato in sé stesso, ed ha scelto la via più sicura; meglio primo in paese, che secondo in città. Vedremo chi sarà colui, che il primo oserà, e che avrà più fede in sé stesso e nel suo uditorio: colui sarà il ristauratore del teatro Italiano.[fonte 3]
  • Ma io sono troppo severo col Gattinelli. Non ho potuto smettere l'abito di guardare anche nei lavori infimi alla perfezione. Nella presente mediocrità è pure non piccola lode fare una commedia che non ti annoia, che ti fa ridere, che ti tiene allegro, che attira, se non altro, la vista. Il Gattinelli ha una lunga esperienza del teatro, ed ha scelto i mezzi ch'egli sapeva più acconci a fare effetto. Per esempio non ha posto alcuna cura nello stile; la sua lingua è una specie di lingua franca, un italiano corrotto, come si parla a Torino o a Napoli. E che perciò? Chi vuoi che ponga mente allo stile o alla lingua? Non siamo ai tempi che un Ateniese torceva il muso ad una frase o ad una parola men che elegante.[fonte 4]
  • Napoletani, siamo fieri di questo nome che abbiamo fatto risonare dovunque alto e rispettato. Vogliamo l'unità, ma non l'unità arida e meccanica che esclude le differenze ed è immobile uniformità. Diventando italiani non abbiamo cessato d'essere napoletani.[fonte 5]
  • Quando i tempi nuovi compariscono in un lontano orizzonte, la prima forma che li preannunzia, è l'ironia. Che cos'è l'ironia? È il sentimento della realtà, che si mette dirimpetto quel mondo già tanto venerato, e ride.[fonte 6]

La giovinezza[modifica]

Incipit[modifica]

Ho sessantaquattro anni, e mi ricordo mia nonna come morta pur ieri. Me la ricordo in cucina, vicino al foco, con le mani stese a scaldarsi, accostando un po' lo scanno, sul quale era seduta. Spesso pregava e diceva il rosario. Aveva quattro figli, due preti e due casati. Uno era in Napoli, teneva scuola di lettere e si chiamava Carlo; gli altri due stavano a Roma esiliati per le faccende del 21, ed erano zio Peppe e zio Pietro, il quarto era papà, che stava a casa e si chiamava Alessandro. Mia nonna era il capo della casa, e teneva la bilancia uguale tra le due famiglie e si faceva ubbidire.

Citazioni[modifica]

  • A che giovano le memorie? Di noi muore la miglior parte, e non c'è memoria che possa resuscitarla. (cap. XXI; p. 42)
  • È il ben pensare che conduce al ben dire. (cap. XXIII, p. 46)

La letteratura italiana nel secolo decimonono[modifica]

Volume I, Alessandro Manzoni[modifica]

  • Quando Alfieri compone la tragedia ha innanzi un tipo, mettiamo il tipo della madre, del tiranno, del ribelle, del patriotta. A lui poco importa, se questo tipo sia conforme, e sino a qual punto, con la storia; prende il nome, prende i fatti in grosso, come li trova, senza esame e investigazione propria, poi lavora lui, lavora d'immaginazione, mira a raccogliere nel personaggio tutte le qualità che possono rappresentare nella sua ultima potenza quell'ideale che gli fluttua nella mente.[fonte 7] (p. 23)
  • L'arte, come la guerra, la filosofia, la politica, ha dei resultati, che l'oltrepassano, come riformare i costumi, purgare le passioni e simili: risultati a lei inessenziali, e che non hanno nulla a fare col suo fine proprio. Può l'artista fare un capolavoro, ancorché la storia vi sia adulterata, e poco rispettata la morale: potete anche biasimarlo, per la sua ignoranza di cose storiche o filosofiche, o per la licenza dei suoi costumi, ma onorerete sempre il grande artista.[fonte 7] (p. 43)
  • [Su I promessi sposi] Il romanzo storico, come lo concepiva Manzoni, non ci è qui, ed è bene che non ci sia. Ci è invece il vero romanzo storico, quale glielo fa incontrare il suo squisito senso d'artista. La storia è qui non la sostanza o lo scopo, ma la larga base, di dentro dalla quale esce alla luce la statua del pensiero e dell'immaginazione, una base non segregata e indipendente come un piedistallo, ma vera causa generatrice, il fondamento e il motivo occulto che mette in moto gl'inconsapevoli attori. Onde nasce quella fusione armonica della composizione, che desideri nelle sue tragedie storiche, dove la storia è dessa la sostanza e lo scopo, e rigetta dal suo seno ideali estranei invocati dall'immaginazione.[fonte 8] (p. 50)
  • Ne' Promessi Sposi linguaggio e stile non è costruito a priori, secondo modelli o concetti. L'è conseguenza di un dato modo di concepire, di sentire e d'immaginare. Lo stile è la combinazione delle due forze che aveva lo scrittore in così alto grado, la virtù analitica e la virtù immaginativa. Uso a decomporre, a distinguere, ad allogare secondo una certa misura o limite interno, che non è altro se non il senso del vero, l'espressione è sempre precisa e giusta, cioè vera, ed è insieme semplice, perché l'interna misura esclude ogni esagerazione ed ogni complicazione. Tutto è a posto, e tutto è nel suo limite; niente v'è di sì complesso, che non sia distinto e semplicizzato; perciò tutto è vero e tutto è semplice.[fonte 9] (pp. 92-93)
  • Egli compone i Promessi Sposi perché gli Italiani avessero una conoscenza più compiuta di quel tempo; e il fatto che ci mette dev'essere mezzo a meglio farlo comprendere. Vengono fuori iPromessi Sposi. Che avviene? Quello che dovea essere mezzo, l'azione inventata, diviene il tutto; quello che dovea essere il principale diviene un materiale greggio e bruto in cui egli cela il suo ideale. Come Colombo che cercava le Indie occidentali e trovò l'America, egli cercava l'illustrazione storica e trova l'arte.[fonte 10] (pp. 242-243)

Volume II, La scuola liberale e la scuola democratica[modifica]

  • Il delirio è uno stato breve in cui un'idea sola empie il cervello e, nascondendo il resto della realtà, lo porta al fantastico.[fonte 11] (p. 37)
  • Vico aveva detto che la storia è un corso e ricorso, si ripete. [...] Poi venne la teoria del progresso, si disse: no, la storia è una linea retta che va sempre innanzi, una continua corrente verso l'ideale. Dov'è la verità? – Nella storia è ripetizione e progresso. C'è un centro che si chiama ideale o spirito di un secolo, d'un'epoca, il quale sviluppandosi forma un circolo. [...] Vico dice il vero, i circoli tornano; ma si muta il centro, lo spirito, che ha la forza di costruire nuovi circoli, è coscienza più illuminata, è spirito più riflessivo e produce il progresso. Perciò la storia è ripetizione e progresso insieme, il passaggio da una in altra epoca è passaggio da uno in altro ideale.[fonte 12] (p. 149)
  • Quando si farà qualche passo nella via della libertà e dell'uguaglianza, qualche progresso nella via dell'emancipazione religiosa, qualche cammino nella via dell'educazione nazionale, certo voi, nella vostra giustizia, guarderete lì in fondo, e vedrete l'uomo che aveva levato quella bandiera, lo ricorderete con rispetto, e direte: «Ecco il precursore!» Questo è il vero carattere, questa è la vera importanza e la vera gloria di Mazzini.[fonte 13] (p. 398)

La scienza e la vita[modifica]

Incipit[modifica]

Signori

Siamo nel tempio della scienza. E non vi attendete già che io voglia scegliere a materia del mio dire il suo elogio. I panegirici sono usciti di moda, e se ci è cosa ch'io desideri è che escano di moda anche i discorsi inaugurali. Essi mi paiono come i sonetti di obbligo che si ficcano in tutte le faccende della vita e fanno parte del rito. E pensare che l'Italia in questi giorni è inondata di discorsi inaugurali, e che non ci è così umile scuola di villaggio che non avrà il suo. Se poi la scuola renda buoni frutti, che importa? questo è un altro affare. Ci è stato il discorso inaugurale, ci sono state le battute di mano, il pubblico va via contento, e non ci pensa più: se la vedano loro i maestri e gli scolari.

Citazioni[modifica]

  • La scienza cresce a spese della vita. Più dài al pensiero e più togli all'azione. Conosci la vita, quando la ti fugge dinanzi, e te ne viene l'intelligenza, quando te n'è mancata la potenza. Manca la fede, e nasce la filosofia. Tramonta l'arte, e spunta la critica. Finisce la storia, e compariscono gli storici. La morale si corrompe, e vengon su i moralisti. Lo stato rovina, e comincia la scienza dello stato. Gli Iddii se ne vanno, e Socrate li accompagna della sua ironia; la repubblica declina, e Platone costruisce repubbliche ideali; l'arte se ne va, e Aristotile ne fa l'inventario, la vita pubblica si corrompe, e sorgono i grandi oratori; l'eloquenza delle parole succede alla eloquenza de' fatti. Livio narra la storia di una grandezza che fu con un preludio che chiameresti quasi un elogio funebre. E non so che funebre spira nello sguardo profondo e malinconico degli ultimi storici, Tucidide e Tacito. La vita è sciolta, e Seneca aguzza sentenze morali. La vita è morta, e Plutarco passeggia fra le tombe e raccoglie le memorie degli uomini illustri. (pp. 3-4)
  • Un popolo vive, quando ha intatte tutte le su forze morali. Queste forze non producono, se non quando trovano al di fuori stimoli alla produzione. Più gagliardi sono gli stimoli, e maggiore è la loro intensità e vivacità. Gli stimoli ti creano il limite, cioè a dire uno scopo, che le toglie dal vago della loro libertà, e le determina, dà loro un indirizzo. In quanto la loro libertà è limitata, queste forze sono produttive. L'uomo forte, quando pure voi gli togliate il limite, se lo crea lui, e se non può legittimo, se lo crea illegittimo: perché la forza ha bisogno del limite, come il mezzo ha bisogno dello scopo. (p. 5)

Nuovi saggi critici[modifica]

  • Abbondavano i satirici. Era la moda. Goldoni e Passeroni, ci erano i fratelli Gozzi [Carlo Gozzi e Gasparo Gozzi], ci era Pietro Verri, ci era Martelli e Casti. Tutti mordevano quella vecchia società, per un verso o per l'altro, a frammenti. Ci era tutto un materiale, più o meno elaborato. Mancava l'artista. e quando uscì il Mattino [di Giuseppe Parini], tutti s'inchinarono. Era comparso l'artista. (Giuseppe Parini, pp. 191-192)
  • Parini è come uomo, a cui sanguina il cuore e che fa il viso allegro. Appunto perché ha la forza di contenere il suo sentimento, l'ironia è possibile, e non diviene una sconciatura o una dissonanza. Il che gli riesce per quell'interno equilibrio delle sue facoltà, che gli dà un'assoluta padronanza su' moti e sulle sue impressioni. (Giuseppe Parini, p. 196)
  • Uomo di tre rivoluzioni, quando tu l'incontravi, quante rimembranze! Portavasi appresso le ombre di Pagano e di Cirillo; e di Ettore Rossaroll e di Giuseppe ed Alessandro Poerio: vedevi in lui tutta la nostra storia. Ohimé! E questa storia non è ancora finita. L'uomo della Maddalena, l'uomo di Monforte, l'uomo di Venezia ha vissuto indarno settantadue anni; ha veduto il Piemonte, ma non ha veduto ancora l'Italia. (Guglielmo Pepe, p. 297)

Studio sopra Emilio Zola[modifica]

  • [...] quando lo sfibramento de' caratteri e delle coscienze prende le alte classi, è difficile arrestare il contagio nei piú umili strati sociali. (p. 360)
  • Molti disputano di reale e d'ideale, e spesso senza conclusione, perché manca a parecchi il concetto chiaro e giusto di questi vocaboli. Si crede che il realismo sia l'opposto dell'ideale, e si crede che l'ideale sia semplicemente un gioco d'immaginazione, una superposizione della realtà. Con questi falsi presupposti le dispute non possono avere nessuna fine ragionevole. (p. 383)
  • Il progresso non è altro, se non uno scostarsi sempre più dal comune e dal generale, cioè a dire dalla parte animalesca, e spiritualizzarsi, umanizzarsi, particolarizzarsi, affermarsi come umanità. (p. 383)
  • I semidei, gli eroi, i santi non sono altro che l'espressione storica meno lontana dall'ideale. (p. 384)
  • La storia dell'umanità è un continuo realizzarsi degl'ideali umani, e questo è il progresso. (p. 384)
  • Zola con la sua audacia ha destato il fanatismo nel pubblico sonnolento. Lodano soprattutto in lui lo scamiciato. Ci trovano non solo la realtà purificata di ogni retorica, ma tutta la realtà, anche la realtà indecente, anche l'argot. E chi ne piglia scandalo si turi le orecchie, solo tra mille avidi, a giudicarne dalle numerose edizioni. Quale romanzo francese ha avuto il successo dell'Assommoir e del Ventre di Parigi? Neppure l'ultimo libro di Victor Hugo. (p. 392)
  • La mente è un prodotto di predisposizioni ereditarie e di condizioni fisiologiche che si vanno organizzando col mezzo de' sensi, e ricevono una impronta definitiva dall'ambiente morale e dall'educazione.
    Questa è la teoria di Zola, riflesso dalla scienza contemporanea. E i suoi romanzi hanno per fine di rappresentare questo processo della natura. (p. 393)
  • Gli artisti sono grandi maghi che rendono gli oggetti leggieri come ombre, e se li appropriano, e li fanno creature della loro immaginazione e della loro impressione. (p. 396)

Saggi critici[modifica]

  • [...] la semplicità è compagna della verità come la modestia è del sapere. (Beatrice Cenci, p. 73)
  • [Su Agata Sofia Sassernò] Sono più volumi di poesie, differentissime. Ce ne ha di tutte sorti: sermoni, elegie, canti, leggende. A prima gettata d'occhi trovi in tutti gli stessi pregi: correzione, purità di lingua, abile testura di verso, una certa eleganza di stile così uguale, che talora è monotonia, la misura del buon gusto, anzi che l'impeto del genio. E se ti arresti a queste qualità comuni, rimani in forse, e non sai in tanta somiglianza qual giudizio portare di ciascuna poesia, e a quale dare il primato. Ma se lasci stare queste qualità secondarie, dalle quali non si può cavare alcun criterio stabile, e guardi alla persona che si nasconde sotto la veste, vedrai differenze spiccatissime, alle quali prima non ponevi mente. (Sofia Sassernò, p. 203)
  • Come dunque si dovrà qualificare l'ingegno poetico della Sassernò? Lo chiameremo genio? La parola mi sembra troppo ambiziosa. E un genio, se volete servirvi di questa parola, iniziale, rimasto nello stato di istinto; qualche cosa di vago, che per determinarsi cerca e non trova la vita ed il sole: Destin tronqué, matin noyé dans les ténèbres. (Sofia Sassernò, p. 210)
  • In fondo a queste poesie ci è il vago, il puro vago, che tende a determinarsi e non può. Ora il vago è quel non so che di tumultuoso nel nostro mondo interiore, prima che ne scintilli la creazione poetica; quell'oscuro movimento o divenire che precede la concezione, e che ne' mediocri non pervenuto mai a maturità si manifesta nel disordine e nella confusione delle idee non abbastanza digeste. Qui è il carattere e l'imperfetto di queste poesie. Vi è un sentimento, che rimane superficiale e monotono, senza alcuna immagine che gli sottostia. Quando l'immagine svanisce, finisce la poesia e Dante pon termine al suo poema, la Sassernò apre il libro, quando Dante lo chiude. Apre il libro, quando il germe non è ancora fecondato; quando il Dio, che si agita in petto del poeta, non è ancora Verbo. (Sofia Sassernò, pp. 215-216)
  • In tanta materia di dolore vi è qualche cosa pur di sereno in queste lettere, nelle quali quanto calcato è più, tanto si rileva più alteramente l'uomo, maggiore della fortuna. Qualità nobilissima ed antica: in questo fiacco secolo, non paziente de' mali e non ardito a' rimedii, ammirata più che imitata. La dignità adorna l'infortunio, come della ricchezza e della potenza è ornamento la temperanza. E questa dignità non è posta solo in quella specie di virtù negativa, ch'è detta «decoro», ed è quel non chinarsi mai per nessuna cagione ad atto men che nobile e gentile; di che ci è esempio la delicata risposta del Leopardi alle profferte del Colletta, e quella lettera, nella quale domanda quasi la carità al padre suo, alteramente supplichevole. Ma vi è una dignità di altra sorte, o meglio direbbesi magnanimità, la quale è quel tener l'animo sempre alto sui casi umani, e non lasciar che altri abbia la gioia di aver potuto anche un istante turbare la tua serenità. Ed il Leopardi alla ferrea necessità che lo preme soprastà in guisa, che spesso, non che risolversi in vane querele, de' suoi mali non parla altrimenti che filosofando con tranquilla ragione, divenuto egli stesso obbietto di meditazione al suo pensiero. (da «Epistolario» di Giacomo Leopardi; 1952, vol. I, p. 5)
  • Bella cosa fare il critico! Sedere a scranna tre gran palmi più su che tutto il genere umano; i più grandi uomini, a cui noi altri plebei ci accostiamo con timida riverenza, vederteli sfilare dinanzi come umili vassalli, e tu che palpi loro la barba familiarmente, e con aria di sufficienza dici a ciascuno il fatto suo! (Cours familier de littérature par M. De Lamartine, p. 349)
  • Il critico raccoglie quelle poche sillabe, ed indovina la parola tutta intera. Pone le gradazioni ed i passaggi: coglie le idee intermedie ed accessorie; trova i sentimenti da cui sgorga quell'azione, il pensiero che determina quel gesto, l'immagine che produce que' palpiti; spinge il suo sguardo nelle parti interiori e invisibili di quel mondo, di cui il poeta ti dà il velo corporeo. Il critico è simile all'attore; entrambi non riproducono semplicemente il mondo poetico, ma lo integrano, empiono le lacune. (Cours familier de littérature par M. De Lamartine, p. 355)
  • Questa maniera di critica è da pochi. I pedanti si contentano di una semplice esposizione e si ostinano nelle frasi, ne' concetti, nelle allegorie, in questo o quel particolare, come uccelli di rapina in un cadavere. [...] I più si accostano ad una poesia con idee preconcette; chi pensa alla morale, chi alla politica, chi alla religione, chi ad Aristotile, chi ad Hegel; prima di contemplare il mondo poetico lo hanno giudicato; gl'impongono le loro leggi in luogo di studiare quelle che il poeta gli ha date. (Cours familier de littérature par M. De Lamartine, p. 357)
  • Critica perfetta è quella in cui questi diversi momenti si conciliano in una sintesi armoniosa. II critico ti dee presentare il mondo poetico rifatto ed illuminato da lui con piena coscienza, di modo che la scienza vi perda la sua forma dottrinale, e sia come l'occhio che vede gli oggetti e non vede se stesso. La scienza come scienza e filosofia, non e critica. (Cours familier de littérature par M. De Lamartine, pp. 358-359)
  • Il sostanziale dunque di un argomento è, non in quello che ha di comune con tutti gli altri, ma in quello che ha di proprio ed incomunicabile. L'argomento non è «tabula rasa», una cosa su cui possiate imprimere quel suggello che vi piace. È una materia condizionata e determinata, contenente già in sé virtualmente la sua poetica, cioè le sue leggi organiche, il suo concetto, le sue parti, la sua forma, il suo stile. È un piccolo mondo che nasconde nel suo seno grandi tesori, visibili solo all'occhio poetico. L'ingegno mediocre o non ci vede nulla, o vede frammenti, e ci aggiunge del suo, guastandolo e violandolo. Ma chi è poeta si lascia attirare amorosamente dal suo argomento, rimane rapito, e come sepolto in lui, si fa la sua anima ed obblia tutto quell'altro di sé che non vi si accorda. Bisogna innamorarsene, vivere in lui, diventare lui; ed allora lo vedrete, quasi animato dal vostro sguardo, muoversi, spiegarsi a poco a poco secondo la sua natura e rivelare tutte le sue ricchezze. (da Dell'argomento della «Divina Commedia»; 1952, vol. II, pp. 89-90)
  • Chiamo poeta colui che sente confusamente agitarsi dentro di sé tutto un mondo di forme e d'immagini: forme dapprima fluttuanti, senza determinazioni precise, raggi di luce non ancora riflessa, non ancora graduata ne' brillanti colori dell'iride, suoni sparsi che non rendono ancora armonia. (Carattere di Dante e sua utopia, p. 392)
  • Il suicidio fu l'ultima virtù degli antichi. Nel pieno disfacimento d'ogni principio morale e di ogni credenza, essi formarono sotto il nome di stoicismo una filosofia della morte: non sapendo più vivere eroicamente, vollero saper morire da eroi. (Pier delle Vigne, p. 414)
  • Quanto il cristianesimo abbia modificato la scienza e la morale e quindi l'arte antica, si può inferire da questo solo: il suicidio antico è virtù, il suicidio moderno è colpa: il suicida pagano è un eroe, il suicida cristiano è un codardo. (Pier delle Vigne, pp. 414-415)
  • Catone non poteva vivere, che uomo libero, e quando la libertà morì, morì Catone. (Pier delle Vigne, p. 415)
  • La poesia è la ragione messa in musica. (Le contemplazioni di Victor Hugo, p. 459)
  • Prima di essere ingegnere voi siete uomini. (A' miei giovani, p. 542)[fonte 14]
Prima di essere ingegneri voi siete uomini.[fonte 15][fonte 14]
  • È breve la storia di questo genere di letteratura, presso i moderni. Ciascuna volta che gli europei, sciogliendosi dalle loro gare intestine, si sono gettati, con concorde volontà, al di là de' mari, in regioni ignote, abbiamo avuto, in letteratura, i Viaggi. Nel tempo delle Crociate, ce ne ebbe parecchi, pieni di freschezza ed ingenuità. La scoperta dell'America rimise in voga questo genere; né ci sono libri, che si leggano così volentieri, come per esempio, i Viaggi del capitano Cook. Non è un letterato che scriva quietamente, nel suo gabinetto, quello che altri fa: hai il viaggiatore e lo scrittore, ad un tempo; hai i comentarii di Giulio Cesare. È il tempo epico dei viaggi: passi di maraviglia in maraviglia; nuove terre, nuovi costumi, strani accidenti della natura. Vi sono due pungoli, che tengono, sempre, desta la tua attenzione: la curiosità e la varietà. Il narratore, poi, si guadagna la tua fede; e ti fa sentire molto, perché molto sente egli stesso: le sue impressioni sono vivaci ed immediate, soverchiato, com'egli è, dalla grandezza dello spettacolo che ha innanzi. Non trovi, fra la natura e lui, qualche altra cosa di mezzo, la vanità pretenziosa della frase o del pensiero: opera e racconta, con la stessa semplicità.
    Raffreddata la prima impressione ed esausta la materia, i Viaggi diventano una mera forma letteraria: cioè a dire, un semplice mezzo, con un altro scopo ed un altro contenuto. Lo scopo non è più il viaggio; ma l'espressione di certe idee e sentimenti, fatta più agevole, con questo mezzo. In effetti, quando la scienza scende dalle sue altezze, e tende a volgarizzarsi, a farsi accessibile al maggior numero, ricorre a certe forme letterarie, per esempio, alla lettera, al dialogo, al viaggio. Nel qual caso, questi generi perdono la loro personalità e diventano puri mezzi. I Viaggi possono condurre a questo scopo assai comodamente, poiché, non essendoci alcun legame che vincoli lo scrittore, può egli, a sbalzi ed alla libera, trovare occasione di esprimere i suoi pensieri. Il mutamento di scopo porta seco il mutamento di contenuto, raccogliendosi l'attenzione, non più sulle città e luoghi visitati, ma sulle osservazioni e le idee dello scrittore. (da Il «Giornale di un viaggio nella Svizzera durante l'agosto del 1854», per Girolamo Bonamici; 1952, vol. I, pp. 244-245)

Schopenhauer e Leopardi[modifica]

Incipit[modifica]

Dialogo tra A. e D.[1]

D. – Fino a Zurigo?
A. – Che volete! Si viaggia per acquistare idee.
D. – Sì che a quest'ora devi averne piene le tasche.
A. – Vuoi dire i taccuini. Eccone qui uno ancor tutto bianco, che m'aiuterai a riempire. Cosa sono questi libri?
D.Arturo Schopenhauer.
A. – Chi è costui?
D. – Il filosofo dell'avvenire. In Germania ci sono i grandi uomini del presente e i grandi uomini dell'avvenire, gl'incompresi. Fra questi è Schopenhauer.

Citazioni[modifica]

  • Schopenhauer dev'essere un testone; ha capito una gran verità, che a propagare una dottrina bisogna innanzi tutto render filosofica la spada.
  • Leopardi e Schopenhauer sono una cosa. Quasi nello stesso tempo l'uno creava la metafisica e l'altro la poesia del dolore. Leopardi vedeva il mondo così, e non sapeva il perché. Arcano è tutto fuorché il nostro dolor. Il perché l'ha trovato Schopenhauer con la scoperta del Wille.
  • Leopardi s'incontra ne' punti sostanziali della sua dottrina con Schopenhauer; ma gli sta di sotto per molti rispetti. Primamente Leopardi è poeta; e gli uomini comunemente non prestano fede ad una dottrina esposta in versi; ché i poeti hanno voce di mentitori.
  • Schopenhauer è un ingegno fuori del comune; lucido, rapido, caldo e spesso acuto; aggiungi una non ordinaria dottrina. E se non puoi approvare tutt'i suoi giudizii, ti abbatti qua e là in molte cose peregrine, acquisti svariate conoscenze, e passi il tempo con tuo grande diletto: ché è piacevolissimo a leggere. Leopardi ragiona col senso comune, dimostra così alla buona come gli viene, non pensa a fare effetto, è troppo modesto, troppo sobrio. Lo squallore della vita che volea rappresentare si riflette come in uno specchio in quella scarna prosa; il suo stile è come il suo mondo, un deserto inamabile dove invano cerchi un fiore. Schopenhauer, al contrario, quando se gli scioglie lo scilinguagnolo, non sa tenersi; è copioso, fiorito, vivace, allegro; gode annunziarti verità amarissime [...].
  • Perché Leopardi produce l'effetto contrario a quello che si propone. Non crede al progresso, e te lo fa desiderare; non crede alla libertà, e te la fa amare. Chiama illusioni l'amore, la gloria, la virtù, e te ne accende in petto un desiderio inesausto. E non puoi lasciarlo, che non ti senta migliore; e non puoi accostartegli, che non cerchi innanzi di raccoglierti e purificarti, perché non abbi ad arrossire al suo cospetto. È scettico, e ti fa credente; e mentre non crede possibile un avvenire men tristo per la patria comune, ti desta in seno un vivo amore per quella e t'infiamma a nobili fatti. Ha così basso concetto dell'umanità, e la sua anima alta, gentile e pura l'onora e la nobilita. E se il destino gli avesse prolungata la vita infino al quarantotto, senti che te l'avresti trovato accanto, confortatore e combattitore. Pessimista od anticosmico, come Schopenhauer, non predica l'assurda negazione del Wille, l'innaturale astensione e mortificazione del cenobita: filosofia dell'ozio che avrebbe ridotta l'Europa all'evirata immobilità orientale, se la libertà e l'attività del pensiero non avesse vinto la ferocia domenicana e la scaltrezza gesuitica. Ben contrasta Leopardi alle passioni, ma solo alle cattive; e mentre chiama larva ed errore tutta la vita, non sai come, ti senti stringere più saldamente a tutto ciò che nella vita è nobile e grande. L'ozio per Leopardi è un'abdicazione dell'umana dignità, una vigliaccheria; Schopenhauer richiede l'occupazione come un mezzo di conservarsi in buona salute.

Scritti politici[modifica]

  • Garibaldi deve vincere a forza: egli non è un uomo; è un simbolo, una forma; egli è l'anima italiana. Tra i battiti del suo cuore, ciascuno sente i battiti del suo.[fonte 16] (p. 56)
  • Il fatalismo è il sofismo dell'intelletto viziato, che si presta compiacentemente a ricoprire e giustificare il vizio.[fonte 17] (p. 87)
  • Quello che chiamiamo mafia o camorra, non è che il frutto naturale della storia nel suo libero corso. Gli uomini deboli che sono i più, si avvezzano a inchinare il capo, divenuti i don Abbondii della storia. Il culto della forza, solo perché forza, imprime sulla società il marchio della servilità e della decadenza.[fonte 18] (p. 182)
  • [Papa Pio IX] Natura dimenticabile e placabile, aveva una elasticità di fibra che non lo faceva lungamente dimostrate nella tetraggine della vita e riconduceva presto nel suo spirito il buon umore. I solchi che sogliono fare le passioni e le sventure, erano in lui presto ripianati. Indi quella sua aria amabile e giovanile, indizio di vite lunghe e prosperose, sulle quali le passioni strisciano, non penetrano.[fonte 19] (pp. 192-193)
  • Io, signori, non credo alla reazione; ma badiamo che le reazioni non si presentano con la loro faccia; e quando la prima volta la reazione ci viene a far visita, non dice: io sono la reazione. Consultatemi un poco le storie; tutte le reazioni sono venute con questo linguaggio: che è necessaria la vera libertà, che bisogna ricostituir l'ordine morale (Bene!), che bisogna difendere la monarchia dalle minoranze. Sono questi i luoghi comuni, ormai la storia la sappiamo tutti, sono questi i luoghi comuni, coi quali si affaccia la reazione.[fonte 20] (pp. 213-214)

Storia della letteratura italiana[modifica]

Francesco De Sanctis nel 1860

Incipit[modifica]

Il più antico documento della nostra letteratura è comunemente creduto la cantilena o canzone di Ciullo (diminutivo di Vincenzo) di Alcamo, e una canzone di Folcacchiero da Siena.
Quale delle due canzoni sia anteriore, è cosa puerile disputare, essendo esse non principio, ma parte di tutta un'epoca letteraria, cominciata assai prima, e giunta al suo splendore sotto Federico secondo da cui prese il nome.

Citazioni[modifica]

  • Proprio della coltura è suscitare nuove idee e bisogni meno materiali, formare una classe di cittadini più educata e civile, metterla in comunicazione con la coltura straniera, avvicinare e accomunare le lingue, sviluppando in esse non quello che è locale, ma quello che è comune. (cap. I)
  • Ciullo è l'eco ancora plebea di quella vita nuova svegliatasi in Europa al tempo delle Crociate, e che avea avuta la sua espressione anche in Italia, e massime nella normanna Sicilia. (cap. I)
  • [Sulla poesia di Rinaldo d'Aquino] Sentimenti gentili e affettuosi sono qui espressi in lingua schietta e di un pretto stampo italiano, con semplicità e verità di stile, con melodia soave. (cap. I)
  • Guido, Dottore o, come allora dicevasi, Giudice, fu uomo dottissimo. Scrisse cronache e storie in latino, e voltò di greco in latino la storia della caduta di Troja, di Darete, una versione che fu poi recata parecchie volte in volgare. Un uomo par suo sdegna di scrivere nel comune volgare, e tende ad alzarsi, ad accostarsi alla maestà e gravità del latino: sì che meritò che Dante le sue canzoni chiamasse tragiche, cioè del genere nobile e illustre. Ma la natura non lo avea fatto poeta, e la sua dottrina e il lungo uso di scrivere non valse che a fargli conseguire una perfezione tecnica, della quale non era esempio avanti. Hai un periodo ben formato, molta arte di nessi e di passaggi, uno studio di armonia e di gravità: artificio puramente letterario e a freddo. Manca il sentimento; supplisce l'acutezza e la dottrina, studiandosi di fare effetto con la peregrinità d'immagini e concetti esagerati e raffinati, che parrebbero ridicoli, se non fossero incastonati in una forma di grave e artificiosa apparenza. (cap. I)
  • Ci è una raccolta di novelle, detta il Novellino, che sembrano schizzi e appunti, anzi che vere narrazioni, simili a quegli argomenti che si dànno a' giovanetti per esercizio di scrivere. Il libro fu detto fiore del parlar gentile: e veramente vi è tanta grazia e proprietà di dettato che stenti a crederlo di quel secolo, e sembrano piuttosto racconti rozzi e in voga raccolti e ripuliti più tardi. (cap. IV)
  • [Le accademie] rassomigliano quelle liete brigate di buontemponi e fannulloni, che ispirarono il Decamerone, modello del genere. Sono letterati ed eruditi, in pieno ozio intellettuale, che fanno per sollazzarsi versi e prose sopra i più frivoli argomenti, tanto più ammirati per la vivacità dello spirito e l'eleganza delle forme, quanto la materia è più volgare. Strani sono i nomi di queste accademie e di questi accademici, come lo Impastato, il Raggirato, il Propaginato, lo Smarrito, ecc. E recitano le loro dicerie, o come dicevano, "cicalate" sull'insalata, sulla torta, sulla ipocondria, inezie laboriose. (cap. XII)
  • In Italia prevalse la rettorica, la cui prima regola è l'orrore del particolare e la vaga generalità. (cap. XIV)
  • Fra tanto infuriare di prose rettoriche e poetiche comparve la prosa del Machiavelli, presentimento della prosa moderna. Qui l'uomo è tutto, e non ci è lo scrittore, o ci è solo in quanto uomo. Il Machiavelli sembra quasi ignori che ci sia un'arte dello scrivere, ammessa generalmente e divenuta moda o convenzione. Talora ci si prova, e ci riesce maestro: ed è, quando vuol fare il letterato anche lui. L'uomo è in lui tutto. Quello che scrive, è una produzione immediata del suo cervello, esce caldo caldo dal di dentro, cose e impressioni spesso condensate in una parola. Perché è un uomo che pensa e sente, distrugge e crea, osserva e riflette, con lo spirito sempre attivo e presente. Cerca la cosa, non il suo colore; pur la cosa vien fuori insieme con le impressioni fatte nel suo cervello, perciò naturalmente colorita, traversata d'ironia, di malinconia, d'indignazione, di dignità, ma principalmente lei nella sua chiarezza plastica. (cap. XV)
  • Quando Machiavelli scrivea queste cose, l'Italia si trastullava ne' romanzi e nelle novelle, con lo straniero a casa. Era il popolo meno serio del mondo e meno disciplinato. La tempra era rotta. Tutti volevano cacciar lo straniero, a tutti puzzava il barbaro dominio, ma erano velleità. E si comprende come il Machiavelli miri principalmente a ristorare la tempra attaccando il male nella sua radice. (cap. XV)
  • Quando un male diviene così sparso dappertutto e così ordinario che se ne ride, è cancrena e non ha rimedio. (cap. XV)
  • La Mandragola è la base di tutta una nuova letteratura. È un mondo mobile e vivace, che ha varietà, sveltezza, curiosità, come un mondo governato dal caso. Ma sotto queste apparenze frivole si nascondono le più profonde combinazioni della vita interiore. L'impulso dell'azione viene da forze spirituali, inevitabili, come il fato. Basta conoscere i personaggi, per indovinare la fine. Il mondo è rappresentato come una conseguenza, le cui premesse sono nello spirito o nel carattere, nelle forze che lo movono. E chi meglio sa calcolarle, colui vince. Il soprannaturale, il maraviglioso, il caso sono detronizzati. Succede il carattere. Quello che Machiavelli è nella storia e nella politica, è ancora nell'arte. (cap. XV)
  • Il Machiavelli va più in là. Egl'intravede una specie di fisica sociale, come si direbbe oggi, un complesso di leggi che regolano non solo gl'individui, ma la società e il genere umano. Perciò patria, libertà, nazione, umanità, classi sociali sono per lui fatti non meno interessanti che le passioni, gl'interessi, le opinioni, le forze che movono gl'individui. E se vogliamo trovare lo spirito o il significato di questa epoca, molto abbiamo ad imparare nelle sue opere. Indi è che come carattere morale, il segretario fiorentino ispira anche oggi vive simpatie in tutti gl'intelletti elevati, che sanno mirare al di là della scorza nel fondo delle sue dottrine, e come forza intellettuale, unisce alla profonda analisi del Guicciardini una virtù sintetica, una larghezza di vista, che manca in quello. Lui, è un punto di partenza nella storia, destinato a svilupparsi; l'altro è un bel quadro, finito e chiuso in sé. (cap. XV)
  • La critica, priva di un mondo serio, in cui si possa incorporare, si svapora in sentenze, esortazioni, sermoni, prediche, declamazioni e generalità rettoriche, tanto più biliosa, quanto meno artistica. Così apparisce nelle Satire di Salvator Rosa, che pure sono salvate dall'obblio per la maschia energia di un'anima sincera e piena di vita, che incalora la sua immaginazione e gli fa trovare novità di espressioni e di forme pittoriche felicemente condensate. (cap. XVII)
  • Il Marino della prosa fu Daniello Bartoli, fabbro artificiosissimo e insuperabile di periodi e di frasi, di uno stile insieme prezioso e fiorito. È stato in ogni angolo quasi della terra; ha fatto migliaia di descrizioni e narrazioni: non si vede mai che la vieta di tante cose nuove gli abbia rinfrescate le impressioni. Retore e moralista astratto, pieno il capo di mitologia e di sacra scrittura, copiosissimo di parole e di frasi in tutto lo scibile, colorista brillante, credé di poter dir tutto, perché tutto sapeva ben dire. La natura e l'uomo non è per lui altro che stimolo e occasione a cavargli fuori tutta la sua erudizione e frasario. Altro scopo più serio non ha. Estraneo al movimento della coltura europea e a tutte le lotte del pensiero, stagnato in un classicismo e in un cattolicismo di seconda mano, venutogli dalla scuola, e non frugato dalla sua intelligenza, il suo cervello rimane ozioso non meno che il suo cuore; e la sua attenzione è tutta intorno alla parte tecnica e meccanica dell'espressione. Tratta la lingua italiana, come greco o latino, come lingua morta, già fissata, e da lui pienamente posseduta. (cap. XVII)
  • La parola è potentissima quando viene dall'anima e mette in moto tutte le facoltà dell'anima ne' suoi lettori, ma, quando il di dentro è vuoto e la parola non esprime che se stessa, riesce insipida e noiosa. (cap. XVII)
  • E inchiniamoci prima innanzi a Giordano Bruno. Cominciò poeta, fu grande ammiratore del Tansillo. Aveva molta immaginazione e molto spirito, due qualità che bastavano allora alla fabbrica di tanti poeti e letterati; né altre ne avea il Tansillo, e più tardi il Marino e gli altri lirici del Seicento. Ma Bruno avea facoltà più poderose, che trovarono alimento ne' suoi studi filosofici. Avea la visione intellettiva, o, come dicono, l'intuito, facoltà che può esser negata solo da quelli che ne son senza, e avea sviluppatissima la facoltà sintetica, cioè quel guardar le cose dalle somme altezze e cercare l'uno nel differente. (cap. XVIII)
  • Cosa è questo primo lavoro? Una commedia, il Candelaio. Bruno vi sfoga le sue qualità poetiche e letterarie. La scena è in Napoli, la materia è il mondo plebeo e volgare, il concetto è l'eterna lotta degli sciocchi e de' furbi, lo spirito è il più profondo disprezzo e fastidio della società, la forma è cinica. È il fondo della commedia italiana dal Boccaccio all'Aretino, salvo che gli altri vi si spassano, massime l'Aretino, ed egli se ne stacca e rimane al di sopra. Chiamasi accademico di nulla accademia, detto il Fastidito. Nel tempo classico delle accademie il suo titolo di gloria è di non essere accademico. Quel fastidito ti dà la chiave del suo spirito. La società non gl'ispira più collera; ne ha fastidio, si sente fuori e sopra di essa. [...] Ci è un libro pubblicato a Parigi nel 1582, col titolo: De umbris idearum, e lo raccomando a' filosofi, perché ivi è il primo germe di quel mondo nuovo, che fermentava nel suo cervello. Ivi tra quelle bizzarrie mnemoniche è sviluppato questo concetto capitalissimo, che le serie del mondo intellettuale corrispondono alle serie del mondo naturale, perché uno è il principio dello spirito e della natura, uno è il pensiero e l'essere. Perciò pensare è figurare al di dentro quello che la natura rappresenta al di fuori, copiare in sé la scrittura della natura. Pensare è vedere, ed il suo organo è l'occhio interiore, negato agl'inetti. Ond'è che la logica non è un argomentare, ma un contemplare, una intuizione intellettuale non delle idee, che sono in Dio, sostanza fuori della cognizione, ma delle ombre o riflessi delle idee ne' sensi e nella ragione. (cap. XVIII)
  • Il suo dialogo Degli eroici furori ricorda la Vita nuova di Dante: una filza di sonetti, ciascuno col suo commento, il quale nella sua generalità è una dottrina allegorica intorno all'entusiasmo e alla ispirazione. (cap. XVIII)
  • Che faceva l'Italia innanzi a quel colossale movimento di cose e d'idee? L'Italia creava l'Arcadia. (cap. XVIII)
  • [Sul XVIII secolo] La scienza si faceva pratica, e scendeva in mezzo al popolo. Non s'investigava più, si applicava e si divulgava. La forma usciva dalla calma scientifica, e diveniva letteraria; le lingue volgari cacciavano via gli ultimi avanzi del latino. Il trattato e la dissertazione divenivano memorie, lettere, racconti, articoli, dialoghi, aneddoti; forme scolastiche e forme geometriche davano luogo al discorso naturale, imitatore del linguaggio parlato. La scienza prendeva aria di conversazione, anche negli scrittori più solenni come Buffon e Montesquieu, conversazione di uomini colti in sale eleganti. (cap. XVIII)
  • La semplicità è la forma della vera grandezza, di una grandezza inconscia e divenuta natura. (cap. XIX)
  • Già Salvator Rosa aveva a suon di tromba mosso guerra alla declamazione e alla rettorica, senz'accorgersi che faceva della rettorica anche lui. (cap. XIX)
  • Gli effetti della tragedia alfieriana furono corrispondenti alle sue intenzioni. Essa infiammò il sentimento politico e patriottico, accelerò la formazione di una coscienza nazionale, ristabilì la serietà di un mondo interiore nella vita e nell'arte. I suoi epigrammi, le sue sentenze, i suoi motti, le sue tirate divennero proverbiali, fecero parte della pubblica educazione. (cap. XIX)
  • Il 1815 è una data memorabile, come quella del Concilio di Trento. Segna la manifestazione officiale di una reazione non solo politica, ma filosofica e letteraria, iniziata già negli spiriti, come se ne veggono le orme anche né Sepolcri, e consacrata nel 18 brumaio. La reazione fu così rapida e violenta come la rivoluzione. Invano Bonaparte tentò di arrestarla, facendo delle concessioni, e cercando nelle idee medie una conciliazione. Il movimento impresso giunse a tale, che tutti gli attori della rivoluzione furono mescolati in una comune condanna, giacobini e girondini, Robespierre e Danton, Marat e Napoleone. Il "terrore bianco" successe al "rosso". (cap. XIX)

Studio su Giacomo Leopardi[modifica]

  • Il Parini è una lezione, più che un dialogo. E un concetto che si va svolgendo in linea dritta senza deviazioni, ne opposizioni, tutto tirando dalla sua propria sostanza. (p. 314)
  • La Storia del genere umano è una serie di fatti corrispondente a una serie di proposizioni filosofiche, illustrate da ragionamenti cavati dalla natura umana. Si legge tutta d'un fiato, e va letta studiosamente da quanti vogliono impossessarsi di questa filosofia. L'autore condensa in poche pagine tutte le sue idee sugli uomini, in un tono asciutto, come cosa che non lo riguardi. Prosa classica, se mai vi fu, perfettissima di proprietà, d'ordine, di congegno, e anche d'insensibilità: sembra fattura di un essere solo cervello , estraneo al consorzio umano. (p. 315)
  • Chi legge l'Elogio degli uccelli, e vede ivi rappresentata quella loro vita felice, può credere che sia ispirazione del buon umore. Non è difficile immaginare lo scrittore in una di quelle sue passeggiate solitarie pei colli, dove la bella natura gli rischiarasse la faccia, eccitando la sua immaginativa. Ma chi ben guarda, vede che anche questo è opera chiusa di biblioteca. In quell'elogio è rinchiusa una satira dell'uomo; non che vi sia espressa, sia l'intenzione; ma il sentimento dell'infelicità umana, presente nello spirito, intorbida l'umore, e non rende facile una rappresentazione schietta e immediata. (p. 317)
  • Il dialogo propriamente detto è un concetto che si sviluppa per via dell' opposto. L'un concetto è il protagonista; l'altro serve a mostrar quello e metterlo in evidenza. Vinta V opposizione, il concetto ritorna uno. Il dialogo ha perciò due personaggi, espressione dei due concetti opposti. Può averne anche un terzo, che esprima il sentimento di ritorno, o un concetto superiore. (p. 319)
  • [Su Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare] Né altri che sé stesso è il suo Tasso, nel quale riflette pensieri e sentimenti proprii, com'è; che l'amore rinnova l'anima, che la solitudine ravvalora l'immaginazione, che il piacere è più nell'immaginazione che nella realtà, che la vita è noia; cose dette già da lui in verso, e qui ricomparse, come gli avviene in altri Dialoghi. Ma qual bisogno era di sciogliere in prosa quello che aveva cosi felicemente condensato in verso? Veggo un Leopardi rifritto; mi manca Torquato Tasso. (p. 330)
  • Una delle fantasie più allegre di Giacomo Leopardi è il suo Ruysch, con tutto che vi si tratti di morte e di morti. Quella dolcezza del morire, che espresse con sentimento voluttuoso di Amore e Morte, è il concetto intorno al quale si svolge questo dialogo. I morti testimoniano contro il pregiudizio volgare che la morte sia dolore ; anzi è, come essi mostrano con l'esperienza propria e col ragionamento, piuttosto piacere che altro, quel piacere che consiste in qualche sorta di languidezza. Il canto dei morti riflette quella beltà severa e intellettuale, che troviamo in certi antichi inni teologici filosofici, una beltà che è tutta nelle cose e dicesi sapienza, e non dà luogo a immaginazione, né a sentimento. Cosi erano i dettati de' sette Sapienti; e cosi sono questi dettati de' morti. (p. 332)
  • Anche più dilettevole riesce il Copernico, dove con brio è rappresentato il sistema copernicano con le sue conseguenze. Motivo comico è la superbia dell'uomo che si credeva imperatore dell'universo, e si trova parte minima e quasi impercettibile di quello. Il qual motivo si sviluppa naturalmente nel discorso, con una certa bonarietà allegra. Il dialogo è nato in un buon momento, quando lo scrittore se lo godeva seco stesso, con l'anima netta di ogni fede e di ogni amarezza. L'originalità non è nelle cose, ma nella invenzione non priva di umore, che è quel prendere in gioco non solo l'errore, ma la verità, non solo l'ignoranza, ma la scienza con quella noncuranza scettica generata dal sentimento della unità universale. La forma è spigliata e veloce, intarsiata di motti felici. Il comico non si sviluppa sino al riso; pur ti mantiene la faccia serena e contenta, come di chi si sente in un buon momento della vita, in uno stato di benessere. (pp. 333-334)
  • Il Tristano ha la solennità di un testamento. Qui la prosa ha calore e pienezza e rigoglio, o corre svelta e libera, con andatura quasi moderna. Ci si sente il fiato del secolo, un ambiente vivo. Il frizzo è amaro, il sarcasmo è pungente. Tira è eloquente; tutto viene da passione vera. L'ultima pagina sembra una variazione dell'ultima strofa in Amore e Morte, una melodia che si continua. (p. 337)
  • I dialoghi e le altre prose di Giacomo Leopardi sono inferiori alle sue poesie, e valgono meno per sé stesse che a illustrar quelle. Nondimeno vi si scorge un ingegno superiore, e una formidabile coesione e consistenza d'idee. Come filosofo, gli manca sufficienza di studi, esattezza di analisi e altezza di guardo. Pure è in lui un vigor logico, di cui in Italia è raro l'esempio, e spesso non sai come cavarti a quella stretta. La sua infinita erudizione e l'educazione del suo spirito, classica e antica, ricoprono di una cert'aria pedantesca la sua originalità. Un serio valore filosofico non hanno i suoi scritti in prosa. E quanto ai dialoghi, se qua e là possiamo notare potenza d' invenzione e fecondità di posizioni cavate dallo stesso fondo d'idee, la sterilità dello sviluppo e il difetto di genialità comica toglie eh' essi sieno perfetta opera di arte. (pp. 337-338)

Un viaggio elettorale[modifica]

  • Brutto segno, quando si vede l'arte vivere di memorie come i vecchi, e non gustare più la vita che le è intorno, senza fede e senza avvenire. (cap. I, p. 11)
  • Ecco qui, dicevo, il mistero delle cose. Il sigaro fumato non esiste più, ciò che esiste è il fumo che non formerà nuove combinazioni, nuove esistenze. Ed io che sarò? Un sigaro fumato. Bella consolazione! Niente muore, tutto si trasforma. Una gran frase, sicuro, per farci ingoiare la pillola. E la pillola è che l'individuo muore e non torna più. Dite a quel fumo che si rifaccia sigaro, si rifaccia il mio sigaro, o piuttosto del padrone di casa. Caro Michelangiolo, tu russi, e io fumo i tuoi sigari, e i sigari non torneranno più. Me ne darai dei nuovi domani; ma questi non torneranno più. Mentre tu russi e io fantastico, già quest'istanti non sono più, morti per sempre, e i morti non torneranno più. E mi si ficcò nella mente questo «non torneranno più» come il ritornello della mesta canzone. E più continuavo la canzone, e più il ritornello si ostinava a non volerne uscire. (cap IV, p. 30)
  • Vidi Calitri in un mal momento. La strada era una fangaia; ci si vedeva poco, e un freddo acuto mi metteva i brividi. A sinistra era una specie di torrione oscuro, che pareva mi volesse bombardare; a destra una fitta nebbia involveva tutto; l'aria era nevosa, e il cielo grigio tristamente monotono. Salii a una gentile piazzetta, e passando sotto gli sguardi curiosi di molte donne ferme lì sulle botteghe, volsi a mancina in una specie di grotta sudicia che voleva essere un porticato, e giunsi in casa Tozzoli. Mi stava in capo che Calitri doveva essere una grande città e molto ricca; i Berrillo, i Zampaglione, i Tozzoli erano i nomi grossi della mia fanciullezza, e mi pareva che la città dovesse corrispondere alla grandezza di quei nomi. A quel ragguaglio la mi parve cosa meschina. Ciascuno fa il luogo dove si trova, a sua imagine. O come questi cittadini, che dicono così ricchi, non hanno avuto ambizione di trasformare la loro città e farla degna dimora di loro signorie? Non conoscevo le case, ma quelle strade erano impresentabili, e danno del paese una cattiva impressione a chi giunge nuovo; le strade sono pel paese quello che il vestire è per l'uomo. (cap. VII, pp. 54-55)
  • [...] anche per Calitri verrà il progresso. Guardate lì il sole, che si eleva e caccia e abbassa le nebbie; io saluto il sole di Calitri, che dissiperà le vostre nebbie, e saluto questi giovinetti, la nuova Calitri, sede di civiltà e di gentilezza. (cap. VII, pp. 58-59)
  • Con molto seguito di amici attraversai il paese, guardato questa volta dal popolo con maggiore espansione. Notai nell'aria e nei modi una serietà che mi fece buona impressione. Alcuni popolani stavano lì ritti sulla piazza con una gravità di senatori romani. Dev'essere un popolo tenace e lavoratore, a testa alta, e ne augurai bene. (cap. VII, p. 59)
  • Anche per Calitri verrà il progresso. E forse un giorno qualche fortunato mortale scriverà un nuovo capitolo, intitolato: il Sole di Calitri. (cap. VII, p. 60)
  • Avellino è quasi casa mia, colà mi sento come in famiglia, e non ci vogliono cerimonie. (cap. XIII, p. 103)
  • Cosa è Avellino innanzi all'Italia? È il paese di De Concilis. (cap. XIII, p. 106)
  • Un libro senza concetto e senza scopo, cos'altro è se non un guazzabuglio? (cap. XIV, p. 117)

Citazioni su Francesco De Sanctis[modifica]

  • De Sanctis sa di politica quanto gli uscieri della Camera. (Ferdinando Petruccelli della Gattina)
  • Egli ha portato lo studio del contenuto, cercando determinare la personalità dei soggetti criticati; si è fermato più sull'idea che sulla forma, e più che sull'una e sull'altra, ha cercato di cogliere il punto preciso nel quale esse incontransi e si saldano insieme. Ha levato la critica a dignità di scienza e quel che è più, quel che di lui è caratteristico, ha fatto vedere che anche il critico deve avere un'anima e può e deve essere artista. (Federigo Verdinois)
  • Il vero e unico segreto della potenza del De Sanctis stava nelle sue facoltà di artista. Per lui la critica non era quello che è per tanti oggi, racimolatura faticosa e infeconda di briciole lasciate cadere da un grande nel momento di creare l'opera sua; non era dissezione di coltello anatomico che spenge, appunto mentre vorrebbe coglierla a parte a parte, tagliando fibra per fibra, quella vita che l'arte ispira nei suoi capolavori. La critica era per Francesco De Sanctis un'evocazione, e la parola penetrava e scaldava il pensiero come intimo tocco di cosa viva. (Giacomo Barzellotti)
  • Incomincia con singolare acume e pazienza a ricostruire l'uomo e lo scrittore; ne cerca i particolari della vita; ne sfoglia pagina per pagina tutti gli scritti; fruga nelle più riposte pieghe dell'anima del morto, lo fa muovere e parlare, gli spira un secondo soffio di vita. Qualche volta questo soffio è micidiale e riammazza un cadavere dopo averlo galvanizzato e risuscitato; qualche volta compie il miracolo della vera resurrezione. Leopardi è un esempio del primo caso. Petrarca del secondo. (Federigo Verdinois)
  • Quante cose aveva mai in uggia il professore De Sanctis: non amava le allegorie, i concetti, le arguzie secentesche, la prosa proliferante e torbida, le cerimonie della retorica; e puntualmente a scuola ci insegnarono che quelle cose erano, letterariamente il Male; voleva scrittori di «cose» e di «vita», e aveva l'abitudine di pensare per secoli, come altri pensa per nazioni, o paesi. (Giorgio Manganelli)
  • Quell'occhio acutissimo che tutto guardò, come soleva dire, da entro, la cosa più intima e più singolare dell'espressione poetica, che è la parola, non la guardò; gli rimase esterna; non fece esperienza del lavoro proprio dell'arte; e insomma il senso storico della lingua e della tecnica poetica non l'occupò mai troppo, né lo preoccupò. Il quale fu una conquista del Carducci. Le pagine del Carducci, per esempio, su la lingua e su la tecnica del Giorno di Parini, il De Sanctis né le scrisse, né avrebbe potuto scriverle. (Manara Valgimigli)

Note[modifica]

  1. Tutto quello che D. dice di Schopenhauer, opinioni, invettive, argomenti, paragoni, fino nei più minuti particolari, è tolto scrupolosamente dalle sue opere: per brevità si appongono citazioni solo nei punti più importanti.

Fonti[modifica]

  1. Da La letteratura italiana nel secolo XIX, vol. I, Alessandro Manzoni, appendice I, Del romanzo storico e dei «Promessi Sposi», Lezione I, p. 315.
  2. Da La crisi del romanticismo, Einaudi, 1969, p. 302.
  3. Da Scritti varii, inediti o rari di Francesco De Sanctis, raccolti e pubblicati da Benedetto Croce, vol. I, Ditta A. Morano & Figlio, Napoli, 1898, p. 221.
  4. Da Scritti varii, inediti o rari di Francesco De Sanctis, raccolti e pubblicati da Benedetto Croce, vol. I, Ditta A. Morano & Figlio, Napoli, 1898, p. 220.
  5. Da un editoriale in «L'Italia», 21 ottobre 1963; citato in Antonella Venezia, La Società Napoletana di Storia Patria e la costruzione della nazione, Università degli studi di Napoli Federico II, Scuola di Scienze Umane e Sociali, Quaderno 6, FedOAPress, Federico II University Press, Napoli, 2017, p. 29.
  6. Da L'Armando, in Nuova Antologia di scienze, lettere e arti, anno III, vol. VIII, fasc. VII, luglio 1868, p. 452.
  7. a b Da La poetica di Manzoni, Nuova Antologia, ottobre 1872, vol. XXI, pp. 233-251.
  8. Da La materia de' «Promessi sposi», Nuova Antologia, ottobre 1873, vol. XXIV, pp. 225-242.
  9. Da I «Promessi sposi», Nuova Antologia, dicembre 1873, vol. XXIV, pp. 742-765.
  10. Da La poetica di Manzoni, lezione IX; in Pungolo, 13-15 aprile 1872.
  11. Da Tommaso Grossi, terza lezione, Roma, 23-24 dicembre 1872.
  12. Da La letteratura a Napoli, decima lezione, Roma, 16-17 febbraio 1873.
  13. Da Giuseppe Mazzini, quinta lezione, Roma, 1º, 2 e 3 marzo 1874.
  14. a b Prolusione tenuta al Politecnico di Zurigo nell'ottobre del 1856.
  15. Da A' miei giovani, in Saggi critici, Stabilimento tipografico dei Classici italiani, Napoli, 1866, p. 391.
  16. Da Non più dimostrazioni ma fatti, L'Italia, Napoli, 7 maggio 1866.
  17. Da Il fatalismo politico, Il diritto, 8 agosto 1877.
  18. Da Le forze dirigenti, Il diritto, 4 febbraio 1878.
  19. Da Pio IX a Gaeta, Il diritto, 17 febbraio 1878.
  20. Da Discorso del Ministro dell'istruzione pubblica alla Camera dei deputati, Il diritto, 10 dicembre 1878.

Bibliografia[modifica]

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Opere[modifica]