Igor Sibaldi

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Igor Sibaldi nel 2009

Igor Sibaldi (1957 – vivente), scrittore, saggista e traduttore italiano.

Citazioni di Igor Sibaldi[modifica]

  • Sulla vita [...] è un testo difficile, lento – e non soltanto per la complessità dell'argomento, ma proprio per la qualità, la tormentata qualità della sua prosa. Ampie parti di esso appaiono come territori paludosi, in cui si fatica a procedere, ci si impantana, e in cui càpita al lettore di vedersi scomparire del tutto la strada di sotto i piedi, per poi vederla riemergere soltanto qualche pagina dopo: con la spiacevole sensazione che ciò che riemerge sia un tratto già percorso, o magari che il tratto principale sia rimasto indietro chissà dove. Si va lenti, si aggrottano le sopracciglia, ci si ferma per fare il punto e si prosegue perplessi. Si stenta a credere che per un anno intero un Tolstòj entusiasta e nel pieno delle sue energie intellettuali, abbia lavorato intensamente ed esclusivamente a queste pagine, e vien quasi voglia di giustificare il tetro arcivescovo Nikanòr [...]. È vero, di sofismi ce n'è eccome – anche se non quelli che molto probabilmente intendeva Nikanòr, il quale, da buon prete, doveva ritener sofistici tutti i riferimenti al Vangelo non fondati sull'interpretazione consueta, dogmatica, di esso. (da Introduzione, in Della vita, Oscar saggi Mondadori, Milano, 1991, pp. 11-12. ISBN 88-04-34731-7)

Il tuo aldilà personale[modifica]

  • Vai avanti, entri nel tuo aldilà personale, e cominci ad accorgerti che puoi superare delle soglie che prima neanche vedevi, e fare passi da gigante: dipende solo da te, dal tuo coraggio interiore. Come trovare questo coraggio? Se ti accorgi che c'è una lotta tra te e l'Autòs e che ci vuole solo il coraggio per battere l'Autòs, impari anche come si fa a fare il coraggio. A quel punto puoi voltarti a vedere se qualcuno ti segue, ma non fermarti a spiegare agli altri, perche via via che sali ti accorgi che non è nemmeno una gran salita. È che gli altri, i molti – in mezzo ai quali c'eri anche tu fino a poco fa – stanno precipitando, e che parlare con loro è come parlare con un sasso che precipita nel vuoto. Per poter stare a portata di voce dovresti precipitare anche tu con loro, e non è tua intenzione. O no? (p. 9)
  • Purtroppo anche nella «selva» della nostra civiltà è in corso una grave nevrosi di massa. A determinarla, da circa sessanta anni, è un sistema di condizionamenti molto potente, capillare, mai visto nella storia dell'Occidente. Neanche i fascisti e i nazisti erano così bravi a plagiare; e questo perché, dopo la guerra, i loro metodi di massificazione sono stati ripresi e perfezionati dagli apparati che dominano la nostra tarda società industriale. È la società della cultura di massa, scambiata malamente per democrazia. Sarebbe una società bellissima, perché ha un livello di benessere mai raggiunto prima. Oggi mancherebbe poco, a che la gente si accorga che può lavorare di meno e vivere di più. Lavorare quattro ore al giorno, così da avere quanto basta per sopperire alle vere necessità, e nelle altre venti ore pensare, capire, scoprire, godere, sperimentare, creare. (p. 18)

Introduzione a I fratelli Karamàzov[modifica]

  • Questo è l'avvio della tragedia, la più illustre tra le tragedie russe, cupa e feroce come le prime sillabe del cognome turcheggiante dei suoi protagonisti: kara, che nelle lingue turco-tatare significa appunto "nero", e che in russo vuol dire "punizione". (p. V)
  • Il lettore [...] avverte, nel procedere della lettura, la pressione particolarissima dell'elemento tragico: quella strana, vitrea dimensione cilindrica che si stringe, si stringe tutta da soffocare, e quanto più si stringe tanto più obbliga a guardare verso l'alto, dove il cilindro è irragiungibilmente aperto. (p. V)
  • I fratelli Karamàzov rientra appieno nella legge di questa nostalgia tragica dell'iniziazione [...]. E gi altri suoi motivi fondamentali – la Necessità, lo stringersi via via di ciascun destino, la paura, gli incubi, l'omicidio, le prove-"tribolazioni", la reclusione, la prossimità con gli Altri Mondi, le illuminazioni e, continuamente intercalate tra questi, le istillazioni meticolose di sapienza e di dottrina – si compongono intorno al lettore che vi si addentra in una struttura indubbiamente rituale. (p. VII)
  • Il Bildungsroman [...] richiede tutt'altri criteri [...] innanzitutto, del tempo in cui l'esperienza del protagonista si viene articolando. Si impone pazienza [...]. I fratelli Karamazov corre invece, corre irresistibilmente, senza lasciar riprender fiato, tra personalità complete come maschere. E in realtà correva – correva da decenni, in una vera e propria brama e ossessione iniziatica che risaliva a Delitto e castigo. (p. VIII)
  • Un non-romanzo, con non-personaggi che intrattengono tra loro inverosimilissimi non-dialoghi, e si muovono in un non-spazio e in un non-tempo, conducendo là dove la tragedia classica conduce. Il prodotto più esteticamente sfrondato di quel manierismo dostoevskiano che, proprio come nel manierismo vero trasforma lo spessore muscolare delle figure in tortuosi paesaggi muscolari. [...] Proprio come in Michelangelo, anche nei Karamàzov i "non-" tendono al "super-", superpersonaggi, superdialoghi. (pp. XIII-XIV)
  • Durante la maggior parte degli episodi dei Karamàzov il tempo è fermo, non scorre, si estende soltanto in profondità, proprio come la luce intensa a teatro sui corpi degli attori che essa plasma, cilindro di essere nel buio del non-essere. E anche quando questa luce diviene la struggente luminosità radente dei "raggi obliqui del sole al tramonto" [...] non è l'ora che conta: soltanto l'effetto-luce, lo squarcio improvviso d'un paesaggio dell'anima, sempre immobile anch'esso da decenni. Nulla scorre, in quel tempo, davvero. La durata dei Karamàzov procede per blocchi d'eternità. (pp. XV-XVI)
  • Non soggetti di vicende e oggetti di narrazione, [...] al contrario, soggetti [...] e oggetti, vittime tutti (tutti i protagonisti) di quelle vicende che da essi stessi irrompono. (p. XVII)
  • Non sono personaggi, sono forze della natura. [...] Guardate con che ansia e urgenza ciascuno di essi si sforza, ogni volta, in ogni episodio, di rivelarsi tutt'intero, di arrivare assolutamente e il più in fretta possibile in fondo a sé medesimo e di trascinarsi fuori "nel modo più brutale", "una volta per tutte". (p. XVII)
  • Ma il fatto che con la sua fatale astuzia e ferocia Fëdor Pávlovič non soltanto tormenti i figli, ma ingombri, aggredisca il loro territorio ponendosi in concorrenza con loro in ogni loro aspirazione non è, ripeto, che il centro di questo mondo karamazoviano; ed è un centro irradiante. Vi è intorno un pullulare di adulti, "padri" e "madri" crudelmente, fatalmente ingombranti e pericolosi. (p. XXI)
  • "Padri" e "figli" sono due eserciti in armi, separati l'uno dall'altro, nei Karamàzov, da una diversità insanabile e di nuovo naturalissima: i padri, gli adulti, sono come sono, son l'esistente massiccio, sono degli "io" arroccati in sé e pronti a difendersi per l'eternità nel mondo che era il loro dominio. I giovani al contrario bramano tutti, qui, di liberarsi del proprio "io" – del proprio grado di partecipazione a quell'esistente, del ruolo che in esso è toccato loro, del loro compromesso con il mondo dei padri – e soffocano in esso, sono infelici e ansiosi. (pp. XXIV-XXV)
  • Le ansie dei protagonisti giovani, i loro "movimenti" di rivolta e di distruzione-autodistruzione: liberarsi dal mondo dei padri per liberarsi dall'"io" a esso adeguatosi, in esso insudiciatosi, e liberando un "io" nuovo che in quel mondo può trovar posto soltanto negandolo, ribaltandolo. (p. XXV)
  • La storia di Dmítrij, nota bene, è ben riconoscibile agli occhi di un russo dell'Ottocento come una ripetizione del modello agiografico di san'Efrem Siro, veneratissimo: lui pure giovane burrascoso, lui pure incarcerato per un delitto non commesso, e poi "illuminato" d'un tratto, e sceso lui pure nelle "miniere" dell'uomo, per ridestarne il cuore. Ma bisogna che il padre muoia, prima: bisogna che il campo interiore si sgombri. (p. XXVI)
  • Alëša è anche lui, naturalmente, il germe di un santo: di quell'"Alekséj uomo di Dio" – santo anch'esso celeberrimo per la pietas ortodossa [...] – che proprio come Alëša fu, secondo il Martirologio, dapprima novizio, poi lasciò il monastero, tornò alla casa paterna e da lì partì verso "il mondo": ma, di nuovo, bisogna che si possa partire, prima, e che nulla trattenga più, nessun debito o credito, nessun suggello all'involucro dell'"io" vecchio, poiché nulla nell'"io" vecchio e nel mondo vecchio dei padri può essere d'alcun aiuto al nuovo che preme. (p. XXVI)
  • E infine Ivàn, il motore di tutto, e l'"irrisolto", che cerca e brama soluzioni, per liberarsi da quel suo "io" tutto quanto interrogativo al presente: ma ciò che è irrisolto e brama soluzioni in lui altro non è che la sua somiglianza col padre, che soltanto dopo la morte di Fëdor Pávlovič diverrà, e gli diverrà, evidente, per bocca del fratello-assassino:
    "Voi siete come Fëdor Pávlovič, di tutti i suoi figli siete quello che gli assomiglia di più, avete un'anima uguale alla sua."
    E in tale eredità, nel compito di combattere e riscattare in sé medesimo l'anima, "la forza dei Karamàzov", Ivàn finirà per perdere la ragione. (p. XXVII)
  • Il lettore viene coordinato appunto a quella prospettiva [...], a guardare ogni cosa così come i giovani protagonisti la guardano, entro lo spasmo di quella loro iniziazione, tutta quanta interiore, notate bene! tutta parlata, potentemente raffigurata su schermi interiori della creatività dell'angoscia. (p. XXIX)
  • Sarebbe altresì possibile andare oltre [...] in questa assimilazione a Jung: riconducendo [...] tutti e quattro i fratelli alle quattro parti dell'intero individuale, Ivàn il pensiero, Dmítrij la sensazione, Alëša il sentimento, Smerdjakçov l'intuizione. (p. XXXVIII)
  • Non è nemmeno un romanzo, d'altronde. Oh, certamente lo è a vederlo da fuori, la superficie è romanzesca e il nome romanzo gli sta benissimo. Ma visto da dentro, da quella profondità e intensità in cui il lettore viene a trovarsi leggendo, questo romanzo non è un romanzo, è un sistema composito, e strano, pieno di "insospettabili ripostigli, bugigattoli svariati e insospettate scale" proprio come la casa in cui Dostoevskij lo ambientò.
  • Non occorre più, qui, che il lettore intuisca: deve stare a sentire, e riuscire a reggere, questo è il suo compito. (p. XVIII)
  • Quel mondo era ed è bensì sgombro di per sé, dinanzi ai due giovani ingenui sopravvissuti Alëša e Dmítrij, illuminato da sempre da una luce limpida e impietosa, alla quale si può socchiudere gli occhi, per cominciare a vivervi, soltanto sotto il segno pesantissimo della colpa: e non la colpa giovanile del desiderio di parricidio [...]. Bensì una colpa infinita [...] la colpa universale di cui parlano Dmítrij rinato e Alëša alla fine: una volontà di soffrire e pagare "per tutto gli uomini", per sempre, verso una meta invisibile e sconosciuta. (pp. XLI-XLII)

Introduzione a Lev Tolstoj[modifica]

  • Lo sforzo lo richiede, e notevole, la biografia tolstoiana: per non smarrirsi tra le sue fasi, tanto radicalmente diverse l'una dall'altra, contraddittorie, e tanto intense tutte, mai «minori» – giacché in ciascuna di esse Tolstòj metteva immancabilmente tutto sé stesso, con aria di trionfo, con la felicità di chi finalmente ritiene di aver trovato la chiave suprema, il culmine di sé. E lo sforzo si fa tanto più complesso, in quanto molte di quelle fasi contrastanti sono parallele, convivono per lunghi tratti in Tolstòj senza ostacolarsi. (p. XI)
  • La biografia di Tolstòj si struttura sui «tuttavia», sugli «oppure», su continue contraddizioni e impeti improvvisi, imprevisti. È uno scrittore che continuamente abbandona ogni terreno via via conquistato, per spingersi oltre, e che in ciascuna conquista sembra cercare e trovare soltanto la forza per una conquista ulteriore. Così nella sua arte, così nella sua religione, così nella sua vita privata, guidato sempre da una passione venatoria per l'avventura, per la pienezza delle sensazioni – che egli giustificava moralisticamente come sforzo di «autoperfezionamento», o come «ricerca della verità». Non smarrirsi significa intendere anche le giustificazioni di Tolstòj come ulteriori avventure, tragitti (e non spiegazioni) delle sue cacce. E di racconto in racconto, anno dopo anno della sua lunga vita, percepirne la passione, le ragioni del gusto, adeguandovisi. Questo è il modo migliore, e il più inquietante. (p. XII)
  • Gli occorreva – come a chiunque venga a trovarsi nel vicolo cieco di un Io eccessivo – qualcosa che gli si opponesse da fuori, e lo disarmasse, rendendo di colpo insufficiente quel suo Io, e superflui e confusi i suoi eccessi e il suo nichilismo. Non che gli servisse una fede, qualcosa in cui poter credere. No, molto di più: gli serviva una rivelazione, una folgorazione – che non richiedesse nemmeno di venir creduta, ma gli stesse dinanzi più grande, più semplice di lui, ed esigesse da lui più di ciò che il suo Io esigeva da sé stesso e dagli altri.
    Viene per tutti il momento in cui si ha bisogno di venir «disarmati» in questo modo. E ciò di cui si ha bisogno allora è sempre e per tutti la stessa cosa: è l'essere: lo stare dinanzi alla semplice verità – non la verità di qualcuno o qualcosa, ma la verità di per sé, quella che si mostra infinita ad ogni istante agli occhi dei bambini, e che è uguale nel contempo alla vita di chi guarda e alla vita dell'universo intero. Lì ci si salva – senza che importi poi più di tanto quale forma riesca a dare a ciò chi ne è andato in cerca e vi si è salvato: sarà sempre e comunque una forma intensissima, radiosa. Mentre se non si è capaci di trovarla, al momento in cui ne è maturato il bisogno, avverrà immancabilmente che la personalità si esaurisca e si irrigidisca, nevrotica. (pp. XXXIII-XXXIV)
  • Guerra e pace è una furiosa reazione dell'Io tolstoiano alla folgorazione che l'ha colpito e sconfitto nella scuola di Jàsnaja. E di nuovo, dopo Guerra e pace, Tolstòj non ha altro luogo interiore dove andare, se non appunto da quei suoi piccoli mužikì-maestri da cui si era volto via dieci anni prima – e si noti come in Guerra e pace egli avesse evitato accuratamente, in una maniera quasi superstiziosa, di parlar di loro, dei mužikì. (p. XLII)
  • [Su Anna Karenina] Anna è lui, Tolstòj. Li accomuna la scoperta improvvisa di un universo più reale del mondo a cui essi hanno sempre appartenuto. Anna si strappa a quel suo mondo, che è – come lo chiama Lukács nella Teoria del romanzo – «il mondo della convenzione». Anna abbandona tutto per sottrarsi ad esso. (p. XLVI)
  • [...] questo «io eroico» non si pone più autonomamente dinanzi ai propri avversari, come al tempo dei cinismi giovanili o delle prime dispute contro la pedagogia istituzionale, ma è certo d'agire per conto di un'istanza superiore ben identificata e inesauribile, la dottrina del Vangelo – del testo greco dei Vangeli ritradotto dallo stesso Tolstòj (un'ottima traduzione). Una dottrina che Tolstòj fa valere integralisticamente, ignorando di proposito la distanza di diciotto secoli, rifiutandosi di «storicizzare» e di attenuare come che sia i comandamenti di Gesù, e aprendo così un fronte immenso sul quale battersi nel mondo «pseudo-cristiano» o «cristiano-ecclesiastico» (come egli lo chiama) in cui non c'è versetto del Vangelo che, tradotto fedelmente, non suoni completamente sconosciuto e scandaloso. In questa sua ultima ed enorme scommessa sulla propria energia e forza d'urto, a Tolstòj non rimane più tempo né spazio per una dimensione privata, per una qualche quinta in cui riprendere fiato: tutto è messo in gioco, e tutto è illuminato dai riflettori. Da questa condizione Tolstòj trae adesso la forza e il gusto di continuare a vivere; da questa condizione – e dalla forza e dal gusto di vivere che gliene vengono – la sua arte trae vigore, volontà, argomenti; e di questa sua arte Tolstòj vive – scrittore com'egli è, fino al midollo. In questo cerchio virtuoso, trionfante, percorre i suoi cicli la dialettica tra pubblico e privato dell'ultimo periodo della vita di Tolstòj, vecchio conte che è diventato in tutto attore e non lo è più in nulla. (Non per nulla questo Tolstòj fu l'ultima grande passione di Nietzsche, prima della follia, e Nietzsche lo leggeva e compulsava avidamente, riconoscendo in lui lo stesso mito al quale anch'egli si sentiva forzato: la consumazione del confine tra «arte» e «vita», tra «volontà» e «realtà».) (p. L)
  • Bisogna morire a sé stessi per giungere alla verità, all'essere, alla gioia – a quell'Io più grande che il Vangelo promette e insegna ad ogni uomo. E questa morte a sé stessi è in tutto e per tutto come la morte: ma è rinascita per chi vi giunge (per chi riesce a comprenderne e ad attuarne la legge), mentre chi non vi giunge nella propria vita, potrà giungervi, in un'estrema chance, nella morte reale, cioè nel forzato dischiudersi (dal di fuori, invece che dal di dentro) del guscio della sua vita falsa, di «ricco», a quell'Io più grande, divino, che anima l'universo intero. E la morale è dunque: prima che sia tardi bisogna giungere a quell'Io divino, e morire e rinascere, finché c'è ancora vita. Camminate nella luce finché avete luce.
    Così sarebbe secondo il Vangelo, e così era secondo il Tolstòj esegeta e predicatore cristiano. (pp. LIV-LV)
  • [...] in Tolstòj il proselitismo diviene l'estrema propaggine – affacciantesi al vuoto, come il Nechljudov di Resurrezione – della lunga lotta di uno scrittore contro la storia e la cultura che alla storia obbedisce (e si badi, non vi è scrittore che si possa prendere sul serio, che non avverta in sé stesso la necessità di questa lotta disperata) [...]. (p. LXI)
  • Se la fuga da Jàsnaja non fosse maturata tanto a lungo – trent'anni – e non si fosse intrecciata tanto strettamente, fin dall'inizio, con l'immagine della morte, la fine di Tolstòj apparirebbe segnata da una follia non molto diversa dalla follia di sua moglie – divenuta negli ultimi anni la sua nemica più accanita e più istericamente astuta. Scappare così, di notte, con l'aria di farlo un po' per disperazione e un po' per dispetto, cercando col dito sulla carta geografica, durante le soste, il luogo dove andare – la Bessarabia? la Bulgaria? –: ci sarebbe davvero da provare pietà, più che desiderio di comprendere, dinanzi a una morte simile, povero Tolstòj. E invece quella sua fine incute molto rispetto, ed è difficile non vedervi un estremo sforzo di giungere alla «biografia ideale» di cui dicevo, a quella saggezza che fa compiere degnamente la cosa giusta nel momento giusto. (p. LXX)

Bibliografia[modifica]

  • Igor Sibaldi, Introduzione, in Lev Tolstoj, Tutti i racconti, volume primo, I Meridiani Collezione, Mondadori, Milano, 2005. ISBN 88-04-55275-1
  • Igor Sibaldi, Introduzione, in Fëdor Dostoevskij, I fratelli Karamàzov, Mondadori, Milano, 1994. ISBN 88-04-52723-4
  • Igor Sibaldi, Il tuo aldilà personale, Spazio Interiore, Roma, 2012. ISBN 978-88-97864-05-9

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