Salvatore Satta
Salvatore Satta (1902 – 1975), giurista e scrittore italiano.
Citazioni di Salvatore Satta
[modifica]- Ho meditato sulla mia terribile fragilità. È la fragilità della "parte", tanto per restare ahimè giuristi: e tutti siamo parti fino a quando non arriva l'ora suprema che ci rende al tutto. Tante volte penso che le sole ore in cui non sono stato parte, sono state, paradossalmente, quelle in cui vedevo accanto a me la morte. Avevo una serenità, fatta di certezza più che di speranza e il mondo si era staccato da me come in questo momento in cui sono nel più assoluto isolamento per la nebbia che grava su tutta la città. (da una lettera del 29 settembre 1969[1])
- Questi giovani sono portati a escludere la fede. È uno dei segni più importanti del tempo. E invece io credo che quel che bisogna cercare disperatamente nella storia è la fede. Il curioso è poi che ammettono la scienza; ma la scienza – in assoluto – non è fede? Problemi grossi. Ed eterni. Gli uomini hanno sempre lavorato per la loro distruzione. (da una lettera del 1° ottobre 1969[1])
- Tutto quello che di infame ha prodotto il nostro tempo là si mostra a nudo, nelle borgate divenute false città (città burocratiche io le chiamo, e in fondo la chiave del mondo moderno è nella burocrazia anche nelle più grandi cose) nelle inutili strade e superstrade che guastano la campagna, ma soprattutto negli uomini o mezzi uomini che costituiscono la popolazione variopinta. (da una lettera del 25 giugno 1969[1])
Il giorno del giudizio
[modifica]Don Sebastiano Sanna Carboni, alle nove in punto, come tutte le sere, spinse indietro la poltrona, piegò accuratamente il giornale che aveva letto fino all'ultima riga, riassettò le piccole cose sulla scrivania, e si apprestò a scendere al piano terreno, nella modesta stanza che era da pranzo, di soggiorno, di studio per la nidiata dei figli, ed era l'unica viva nella grande casa, anche perché l'unica riscaldata da un vecchio caminetto.
Don Sebastiano era nobile, se è vero che Carlo Quinto aveva distribuito titoli di piccola nobiltà agli autoctoni sardi che avevano innestato gli olivastri nelle loro campagne (la grande nobiltà con tanto di predicato era quasi tutta cagliaritana, ed era praticamente straniera all'isola): ma il doppio cognome era solo un'apparenza, altro non essendo il Carboni che il nome della madre, aggiunto al Sanna, il vero e unico nome di famiglia, un poco per l'usanza spagnola, un poco per la necessità di distinguere le persone, nella poca varietà dei nomi determinata dalla scarsa popolazione. Ogni bifolco in Sardegna ha due cognomi, anche se poi sull'uno e sull'altro prevale di solito un soprannome, che, se la fortuna aiuta, diventa il contrassegno temuto di una pastorale dinastia. Tipico esempio i Corrales. Il tempo e la necessità han finito col dare una certa legittimità al doppio cognome, e infatti «Sebastiano Sanna Carboni» circoscriveva in lettere tonde lo stemma sabaudo nel timbro ufficiale d'ottone, che Don Sebastiano chiudeva ogni sera gelosamente in un cassetto della scrivania. Poiché Don Sebastiano era notaio; notaio nel capoluogo di Nuoro.
Chi fosse poi questa Carboni che aveva lasciato il suo nome in un timbro, nessuno avrebbe potuto dire. La madre di Don Sebastiano doveva essere morta presto, e nulla è più eterno, a Nuoro, nulla più effimero della morte. Quando muore qualcuno è come se muoia tutto il paese. Dalla cattedrale – la chiesa di Santa Maria, alta sul colle – calano sui 7051 abitanti registrati nell'ultimo censimento i rintocchi che dànno notizia che uno di essi è passato: nove per gli uomini, sette per le donne, più lenti per i notabili (non si sa se a giudizio del campanaro o a tariffa dei preti: ma un povero che si fa fare su toccu pasau, il rintocco lento, è poco men che uno scandalo). L'indomani, tutto il paese si snoda dietro la bara, con un prete davanti, tre preti, l'intero capitolo (poiché Nuoro è sede di un vescovo), il primo frettoloso e gratuito, gli altri con due, tre, quattro soste prima del camposanto, quante uno ne chiede, e veramente l'ala della notte posa sulle casette basse, sui rari e recenti palazzi. Poi, quando l'ultima palata ha concluso la scena, il morto è morto sul serio, e anche il ricordo scompare. Rimane la croce sulla fossa, ma quella è affar suo. E infatti nel cimitero, meglio nel camposanto dominato da una rupe che sembra una parca, non c'è una cappella, un monumento. (Oggi non è più così: da quando la morte ha cessato di esistere è tutto pieno di tombe di famiglia: sa' è Manca, quella di Manca, come si chiamava, credo dal nome del proprietario anticamente espropriato, è diventata oltre le costose muraglie, oltre gli assurdi colonnati, la continuazione della città imborghesita.) E così questa Carboni si era dissolta nel nulla, nonostante i cinque figli che aveva messo al mondo, e di lei non ricordavano neppure il nome di battesimo, protesi com'erano ciascuno nell'avventura della propria vita. Del resto, oltre questa faticosa avventùra, erano vivi essi stessi, sentivano come vive le persone che il destino aveva legato al loro carro, mogli, figli, servi, parenti?
Citazioni
[modifica]- In fondo la caratteristica dei nostri tempi è quella di aver reso le cose senza importanza.
- Tu stai al mondo solo perché c'è posto!
- Ricco non sono io, ricco è il cimitero.
- Chi lavora ha sempre ragione su chi insegue le sue chimere, e intanto non lavora. (p. 19)
- Perché il potere, contro le apparenze, si manifesta più col dare che col togliere. (p. 21)
- Giustizia è l'autorità, il potere che uno ha sopra un altro, e l'autorità non si discute; e se ti condanna sei ben condannato. (p. 30)
- La casa non sarebbe stata ugualmente mia, perché nostra non è la casa che ci facciamo, ma la casa che ci viene tramandata dai nostri padri, quella che riceviamo apparentemente gratis, in realtà attraverso il lavoro, onesto o disonesto, delle generazioni. (p. 42)
- Ma gli odori sono più vicini al frutto dei colori, hanno in sé qualcosa di concreto, di appropriabile che i colori non hanno. (p. 43)
- Perché l'amore non è volontà, non è studio, non è quel che si dice genio, è intelligenza, la sola vera misura della donna, e anche dell'uomo. (p. 51)
- L'assenza del padre nella casa è una terribile presenza. (p. 64)
- Perché la povertà crea intorno a sé un alone di poesia, ma stabilisce un diaframma col mondo, che per sua natura è ricco. (p. 73)
- Figli non ne erano venuti, ma questo non aveva nessuna importanza. Né l'uno né l'altra sentivano il bisogno di continuarsi, perché non avevano il senso della propria incompletezza. (p. 90)
- Il senso dell'utile e dell'inutile è estraneo a Dio e ai bambini: esso è l'elemento diabolico della vita. (p. 94)
- Volti remoti ricompaiono in questi che mi circondano: gente sparita dalla terra e dalla memoria, gente dissolta nel nulla, e che invece si ripete senza saperlo nelle generazioni, in una eternità della specie, di cui non si comprende se sia il trionfo della vita o il trionfo della morte. (p. 116)
- Non c'è il minimo dubbio che Pietro Catte in astratto non sia una realtà, come non lo è alcun altro uomo su questa terra: ma il fatto è che egli è nato ed è morto (lo attestano quegli irrefutabili atti), e questo gli dà una realtà nel concreto, perché la nascita e la morte sono i due momenti in cui l'infinito diventa finito, e il finito è il solo modo di essere dell'infinito. Pietro Catte ha tentato di sottrarsi alla realtà impiccandosi all'albero di Biscollai: ma la sua è stata una vana speranza, perché non si può annullare il proprio essere nati. Per questo io dico che Pietro Catte, come tutti i miseri personaggi di questo racconto, è importante, e deve interessare tutti: se egli non esiste nessuno di noi esiste. (p. 158)
- Perché in definitiva ognuno vuole essere sé stesso con la sua consapevole mediocrità. (p. 166)
- Ognuno di noi, anche se si limita a guardare in sé stesso, si vede nella fissità di un ritratto, non nella successione dell'esistenza. La successione è una trasformazione continua, ed è impossibile cogliere e fermare gli attimi di questa trasformazione. Sotto questo profilo, si può dubitare del nostro stesso esistere, o la nostra realtà è solo nella morte. La storia è un museo delle cere. (p. 167)
- [...] aveva trovato nella legge quella certezza che gli sfuggiva nella vita, e si sentiva naturalmente portato a scambiare la vita con la legge. (p. 240)
- L'odio rende il matrimonio più indissolubile dell'amore. (p. 241)
- Gli animali sono eterni, perché non hanno speranza. (p. 260)
- Per conoscersi bisogna svolgere la propria vita fino in fondo, fino al momento in cui si cala nella fossa. E anche allora bisogna che ci sia uno che ti raccolga, ti risusciti, ti racconti a te stesso e agli altri come in un giudizio finale. (p. 291)
Citazioni su Salvatore Satta
[modifica]- Salvatore Satta [...] a volte con trattenuto timore e a volte con spavalda sicurezza, entra nella regione del mistero dove chiama a testimoniare i suoi concittadini di Nuoro su questa apparenza che è la vita. [...] per rammentarci anche che purtroppo siamo nati e che viviamo. E che si muore già nel nascere. Così. Senza pessimismo e senza dolore. Senza retorica. (Francesco Grisi)
- Satta vuole di più, cerca una fede che non può stare nel solco millenario della religione tradizionale. La stessa fede, certo, ma non riducibile senza residui a come è stata fin qui pensata e vissuta. Questo lo avvicina ai grandi autori russi nutriti in profondità dalla fede ortodossa – Gogol', Dostoevskij, Solov'ëv, Rozanov – che invano si è tentato di riportare interamente alla tradizione ecclesiastica. In realtà, essi, e anche Satta, hanno domande troppo terribili per i pastori e per i teologi. (Sergio Quinzio)
Note
[modifica]Bibliografia
[modifica]- Salvatore Satta, Il giorno del giudizio, Adelphi, Milano, 1979.
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