Ambrogio Levati

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Ambrogio Levati (1770 – 1841), religioso, storico e professore italiano.

Citazioni di Ambrogio Levati[modifica]

  • Disse benissimo Robertson istorico, per ingegno e per erudizione chiarissimo, che fra tutte le istituzioni assurde e bizzarre partorite dalla imbecillità della umana ragione, niuna ve n'ebbe più stravagante di quella, che lasciava alla ventura o alla forza, ed alla agilità delle membra la decisione di punti gravissimi, che riguardavano le fortune e la vita degli uomini.[1]

Saggio sulla storia della letteratura italiana[modifica]

Incipit[modifica]

La Poesia Italiana degradata ed invilita dagli Arcadi, che l'avevan ridotta ad una obbrobriosa povertà di idee ed a sole inezie canore, risurse mercé l'ingegno e le cure del cav. Vincenzo Monti. Egli rialzò gli altari di Dante risuscitando lo studio della Divina Commedia; e pieno delle immagini dell'Alighieri e delle visioni del rapito di Patmo Evangelista spiccò il suo volo e si innalzò al cielo nelle due Cantiche della Basvilliana e della Mascheroniana, nel Pellegrino Apostolico, nella Visione di Ezechiello, nella Bellezza dell'Universo.

Citazioni[modifica]

  • Alcuni letterati Italiani lodarono il Fantoni per la felicità de' suoi metri ingegnosamente trovati, e noi confessiamo che essi ben si apposero riguardo ad alcuni, ma non riguardo a tutti. Ed a chi, per recarne un solo esempio, potrà piacere il metro dell'Inno all'Essere Supremo, che è la parafrasi di un inno francese? Le sue strofe si compongono di tre martelliani e di un settenario (Di quanto ha moto e vita – eterno protettore Dio della libertade – padre della natura). Alcuni altri metri sono troppo saltellanti, troppo rotti, e quindi riescono spesso aspri ed ingrati ad orecchie avvezze all'armonia più dolce e più facile degli altri lirici. (cap. I, pp. 52-53)
  • Angelo Mazza fu tartassato fieramente dal Baretti, che lo pose accanto dei Frugoni e dei Vicini. Non si invilì per questo, ma nutrito da un'assidua lettura di Dante, fu chiamato il Poeta dell'Armonia perché si mostrò tutto intento a cantarla. Si perdette però nelle più astruse dottrine Platoniche, e vestì spesse volte con sonori versi i sublimi delirii di quel filosofo. Levandosi a quanto di più alto hanno la metafisica, la poesia e la musica, egli smarrì non rade volte la via nell'altezza verso la quale aveva spiccato il volo. (cap. I, p. 53)
  • La contessa Diodata Saluzzo Roero discende da que' Marchesi di Saluzzo che furono ad un tempo guerrieri e trovatori. Avendo essa pubblicate alcune poesie in sul finire dell'andato secolo, ottenne l'onore di essere encomiata dal Parini. Le sventure del Piemonte caduto servo della Francia afflissero vivamente questa Poetessa, che cantò le rovine e le tombe, gli scudi appesi nella sala d'armi de' suoi antenati, i sospiri della Dama del Castello, e le speranze del Cavaliere che torna dalla Crociata. (cap. I, pp. 116-117)
  • Silvia Curtoni Verza pubblicò alcune poesie sopra argomenti non già elevati ed astrusi, ma teneri e spiranti affetto, come si può scorgere dagli stessi titoli delle rime: Il Passaggio nella villa Nogarola di Castel d'Azzano; Ersete che ricuperò la vista; Una madre sulla tomba del figlio. Ne' suoi versi trasfuse Silvia tutta la tenerezza e la bontà della bella sua anima; onde fu encomiata e dal Parini ed ancor più dal Pindemonte, il quale cantava come la immagine di essa lo seguisse ne' dotti suoi viaggi; come sempre gli stessero innanzi que' scenici ludi in cui ella colla tinta in ogni color docile voce, e colla eloquenza degli occhi, sostenendo le parti or di Zenobia, ora di Tullia, or di Berenice, dominava sovrana gli altrui affetti. (cap. I, pp. 118-119)
  • Chi imprende a tradurre un celebre poeta dee aver sortito dalla natura un ingegno che se non è emulo, almeno in gran parte somigli a quello del suo prototipo, onde possa approssimarsi alla bellezza ed all'efficacia dell'originale da cui vien traslatando. (cap. I, p. 121)
  • Callimaco co' suoi Inni e colla Chioma di Berenice, che ci venne conservata nella latina versione di Catullo, occupò i prestantissimi ingegni di alcuni italiani poeti. Ma quegli che riportò la palma nel tradurre Callimaco è il cav. Dionigi Strocchi faentino, che ci diede una bella ed elegante traduzione in terza rima di questo greco Poeta[2]. (cap. I, p. 130)
  • Il cav. Monti ha pur esso voluto tradurre un latino poeta, e per esercitare il suo ingegno ha scelto il più oscuro, qual è Persio. Ma per quanti sforzi egli abbia fatto per rischiararlo, noi siam costretti ancora a sclamare con San Girolamo: Si non vis intelligi, non debes legi. (cap. I, p. 131)
  • Tanta è la perizia nella lingua latina di cui è fornito il Gagliuffi, tanta la franchezza con cui egli mette il suo piede nelle orme dei poeti del Lazio, che non esitò a ridurre in versi elegiaci le leggi emanate da Napoleone[3]. E ben lungi dal cader nella barbarie o nel triviale, egli si mostrò espertissimo nell'applicare i modi e le frasi latine eziandio a que' soggetti che non furono mai trattati da Poeti Romani. (cap. I, p. 147)
  • Surse Vittorio Alfieri, che diede alla Tragedia Italiana il nerbo che gli imitatori dei Greci ed i poeti di Corte le avevano tolto; ne sbandì ogni accessorio ed ogni ornamento poetico, non curando che la forza e la sublimità; ed allontanò ogni personaggio il quale non partecipasse direttamente all'azione. Ma questo sistema rendette un po' uniforme l'andamento delle sue tragedie, in cui scorgi quasi sempre un tiranno, due anime generose ed innamorate, e un qualche vile ministro. (cap. II, p. 149)
  • Non si vuol [...] negare che l'Alfieri non sia pieno di situazioni altamente tragiche, che non intrecci il nodo rapidamente, e rapidamente non lo sciolga, che non descriva passioni profonde e violente, che non faccia uso di un dialogo sempre animato e sempre incalzante, che non ispieghi quasi sempre sentimenti elevatissimi; che finalmente una grande sublimità non sia il carattere delle sue tragedie. Ma per sostenersi fece tali sforzi da non poterli celare, e divenne spesso scabroso nel verso, e duro nell'espressione. (cap. II, p. 149)
  • Fra que' Tragici che imitando riscossero qualche applauso, e caddero bentosto nell'obblio, non facciamo menzione che di Luigi Scevola autore del Socrate, della Saffo, dell'Erode, dell'Aristodemo. La prima di queste tragedie fu assai applaudita in Bologna, ma non poté procacciarsi grande approvazione dagli uomini colti che la lessero fra il silenzio delle pareti domestiche. (cap. II, p. 153)
  • Il solo nome del Cesari desta in ogni colto italiano una certa quale reverenza, che non venne mai meno anche in mezzo agli scherni, alle derisioni, alle beffe, colle quali ora da meschini ed or da altissimi ingegni si tentò d'invilirlo. Uscito appena dalle scuole egli trovò la patria lingua assai malconcia, e incattivita per modo, che era sul perdere le natie fattezze. Deliberato a consacrarsi tutto alla restaurazione di essa, non conobbe, non istudiò, non iscrisse, non predicò che la lingua del Trecento; e intorno ad essa spese quarant'anni di fatica. Giunto al termine della sua lunga carriera, e quasi presago dell'imminente sua fine[4], volle compiere l'opera della lingua dettando una specie di testamento letterario, in cui ristrinse le dottrine sparse nelle varie sue opere, onde pe' giovani studiosi servissero di antidoto alle dottrine opposte. (cap. III, p. 188)
  • Il nome del Grassi divenne ancor più celebre pel vocabolario militare, con cui egli scosse la inerzia del popolo italiano, che avendo una lingua nata e cresciuta fra lo strepito delle battaglie si giovava delle voci e dei modi usati nella milizia dagli altri popoli. (cap. III, p. 207)
  • [Sullo stile dello storico Carlo Botta] Lo zelo di richiamare la lingua a' suoi principii e di impedire, come si esprime egli stesso, che tutta diventi infrancesata, lo spinse a non metter mai il piede se non nelle orme segnate dagli Storici del Trecento e del Cinquecento. (cap. IV, p. 222)
  • G. B. Belzoni, [...], fece vela nel 1815 per l'Egitto, e vi tentò un'impresa creduta fin allora impossibile, ma che da esso lui fu condotta a termine felicemente; il trasporto cioè del busto colossale detto comunemente del giovane Memnone dalle rovine di Tebe fino al porto di Alessandria. Questo colosso imbarcato sul Nilo, e poscia sul Mediterraneo, passò lo stretto di Gibilterra, solcò l'Atlantico, e deposto nell'Inghilterra attesta ora ed attesterà in tutti i secoli l'antica grandezza e munificenza dei re di Tebe. (cap. V, pp. 308-309)
  • Se non mancarono Italiani che percorsero e descrissero varii paesi dell'Affrica, dell'Asia e dell'America, a più buon dritto ci dobbiamo aspettare che essi abbiano visitata la Europa. Ma a questo proposito dobbiamo ripetere con Tacito, che è maior ex longinquo reverentia e che i nostri concittadini sembrano più accurati e più vogliosi di descrivere le lontane regioni anziché le vicine. (cap. V, p. 314)
  • Chi illustra le opere degli antichi e più celebrati geografi non fa opera meno utile di chi vantaggia la Geografia imprendendo nuovi viaggi. Dovremo pertanto un'eterna gratitudine al p. Ab. D. Placido Zurla, che ora onora tanto la sacra porpora, perché abbia illustrata la Mappa od il Mappamondo sì celebre di frate Mauro[5], che egli aveva sempre sott'occhio nell'Isola di San-Michele[6], e che da esso abbia preso motivo di scrivere intorno ai più cospicui viaggiatori Veneziani. Egli squarciò quel velo che copriva molte circostanze dei viaggi di Marco Polo e di Alvise da Ca da Mosto, e dischiuse il varco al cav. Baldelli di aggiunger luce al Milione del Polo. (cap. V, p. 317)
  • Alla testa degli Oratori Italiani dee esser posto il cav. Monti, il quale è primo nella eloquenza cosi come nella poesia, nella critica e nella filologia. (cap. VI, p. 319)
  • [...] Pietro Giordani, prosatore elegantissimo, anzi quegli, a nostro parere, che ha saputo unire nel suo stile tutte le native grazie del Trecento colla magniloquenza e coll'arte ma temperata del Cinquecento e del Seicento. Le varie sue prose, sieno esse orazioni od elogi, o memorie, o dissertazioni, od articoli di giornali, ne posson essere un solenne testimonio. (cap. VI, p. 320-321)
  • Quell'altissimo lume dell'italiana giurisprudenza, Virgilio Barbacovi, mostrò colle sue Orazioni e Dissertazioni giudiziali la verità della sentenza Oraziana, che chi conosce profondamente la materia che imprende a trattare, non mancherà né di facondia, né di lucido ordine. Le bellezze dello stile sono in questo scrittore ingenerate dalla profondità dei concetti, e per ciò più maschie e più sublimi. (cap. VI, p. 323)

Storia della Barbaria[modifica]

  • Il cammello, chiamato dagli Arabi il vascello del Deserto, è il più bel dono che la provvidenza abbia fatto agli Africani, perché potessero traversare quelle immense arene che loro stanno vicine; ond'essi lo venerano tanto, che si lavano colla sua schiuma. (cap. I, p. 29)
  • Muley Ismaele salì sul trono di Marocco nell'anno 1672. Intento ad ammassar tesori, trattava i sudditi quali bestie, e disponeva a suo talento delle loro sostanze. Avendo ordinato ad un Corpo di Negri di partire sotto la condotta di Sidan o Sid suo figlio per sedare una ribellione, ed avendo essi chiesta la paga, loro rispose: "Vedete voi, cani di Mori che i muli, i cammelli, e tutti gli altri animali del mio Impero non mi chiedono cosa alcuna pel lor mantenimento? Essi lo trovano senza importunarmi: voi pure fate lo stesso, e sollecitamente ponetevi in marcia". Cosi egli ordinava ai soldati di commettere qualunque violenza per rinvenire danaro e viveri. (cap. II, p. 71)
  • Muley troncava le teste come avrebbe abbattuti i papaveri; e si divertiva nel mostrar la sua forza ed agilità recidendo un capo nell'atto di montare a cavallo. Si narra che uccidesse di propria mano quarantamila sudditi ribelli. Egli era lo spavento anche delle numerose sue mogli e de' suoi figliuoli. (cap. II, pp. 71-72)

Incipit di Elogio di Giuseppe Parini[modifica]

Allorché, Eccellentissimo Sig. Conte Ministro dell'Interno, Sig. Consigliere Direttore Generale della Pubblica Istruzione, Sig. Consigliere Prefetto, Signori Ispettori Generali di Pubblica Istruzione, ornatissimi Signori tutti, che di Vostra presenza mi onorate, allorché trasportandomi col pensiero nell'antica Grecia ad ogni passo rimiro un portento di un'arte, ed or mi si offrono allo sguardo bronzi e marmi spiranti, che accrescono venerazione e maestà ai Numi ed agli Eroi, che rappresentano, or tavole animate che colla correzion del disegno, coll'esattezza delle proporzioni, colla vivezza del colorito vincono la natura istessa, or tempj e teatri ne' quali l'eleganza e gli ornamenti accoppiati sono alla solidità ed alla magnificenza, or dolcemente mi solleticano l'orecchio i carmi de' Poeti, che o colla maestà degli epici concetti, o co' lirici voli mi sublimano lo spirito, o mi fan lagrimare coi duri fati di Edipo e di Oreste; allorquando, io dico, rimiro una sì grande perfezione delle arti emulatrici della bella natura presso dei Greci, attonito rimango, e vo meco medesmo ragionando sulle cause di gloria sì portentosa. Né cessa la mia maraviglia quando da una parte ascolto Bodino, Du Bos, Montesquieu, che questo fenomeno attribuiscono al clima felice della Grecia, che offriva una somma varietà di oggetti, una ricchezza inesausta di bellezze; dall'altra Strabone, Macchiavello, Hume, che tutto ripetono dall'educazione, dalla morale, dalla religione de' Greci, che parlava agli occhi ed animava tutto nella natura[7].

Note[modifica]

  1. Dalla Prefazione a Racconti piacevoli sui giudizj di Dio, per Nicolò Bettoni, Milano, 1831, p. 3.
  2. Inni di Callimaco di D. Stracchi. Milano, 1805; ristampati in Bologna ed in Firenze, 1816. [N.d.A.]
  3. Il Codice napoleonico.
  4. Nel testo "imminente suo fine".
  5. Cfr. Mappamondo di Fra Mauro, planisfero databile attorno al 1450 e attribuito al monaco veneto Fra Mauro.
  6. Monastero di San Michele nell'omonima isola della laguna di Venezia.
  7. I Greci furono quelli che più degli altri coltivarono e perfezionarono le arti, perché tutto in quel paese tendeva a questo fine. Nel fisico, dice Jancourt, le situazioni le più belle, i fenomeni i più grandi, i quadri i più magnifici dei fiumi, dei mari, delle foreste, delle valli fertili e deliziose, delle città, dei porti floridissimi; degli stati forti ed opulenti per le arti più degne dell'uomo, l'agricoltura, ed il commercio, tutto ciò, dico, raccolto come sotto gli occhi del Poeta e dell'artista. Non lungi e come in prospettiva il contrasto delle fertili campagne dell'Egitto e della Libia con vasti ed ardenti deserti popolati di tigri e di lioni, più vicino il magnifico spettacolo di venti regni sparsi sulle coste dell'Asia Minore, da una parte quel ridente e magnifico quadro delle Isole del Mare Egeo, e dall'altra i monti infiammati e l'orribile Stretto di Sicilia; finalmente tutti gli aspetti della natura ed il compendio dell'universo nello spazio che un viaggiatore può percorrere in meno di un anno. Qual teatro per la poesia e per le arti! La Religione de' Greci avea misteri ch'erano pitture deliziose, cerimonie, ch'eran feste ridenti e spettacoli pomposi, un dogma, in cui il più terribile, cioè la morte e l' avvenire era abbellito delle più brillanti pitture; in una parola i Greci aveano una Religione Poetica, di cui i Poeti erano gli oracoli e forse gli inventori. Questa Religione offriva anche delle terribili situazioni, che potevano essere il soggetto di quadri patetici, di tragici componimenti. Oracoli oscuri e terribili, espiazioni sanguinarie, sagrifizj di sangue umano, delitti permessi o comandati, un contrasto continuo fra le leggi della natura e quelle del destino, fra la morale e la religione, infelici collocati come in uno stretto sull'orlo di due precipizj; ecco senza dubbio il sistema Religioso il più spaventevole che offrir poteva patetici e terribili soggetti agli artisti. Vedi Dict. des Belles Lettres, Art. Poesie

Bibliografia[modifica]

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