Niccolò Machiavelli

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Niccolò Machiavelli

Niccolò Machiavelli (1469 – 1527), politico, filosofo, scrittore, storico e drammaturgo italiano.

Citazioni di Niccolò Machiavelli[modifica]

Per approfondire, vedi: La mente di un uomo di Stato.
  • I franzesi sono per natura più fieri che gagliardi o dextri; et in uno primo impeto chi può resistere alla ferocità loro, diventano tanto umili, e perdono in modo l'animo che divengono vili come femmine. Ed anche sono insoportabili de' disagi ed incommodi loro, e col tempo stracurano le cose in modo che è facile, col trovargli in disordine, superarli.[1]
  • La notte che morì Pier Soderini. | L'anima andò dell'inferno alla bocca. | Gridò Pluton: Che inferno! anima sciocca, | Va su nel limbo fra gli altri bambini.[2]
  • Perché li popoli in privato sieno ricchi, la ragione è questa, che vivono come poveri; non edificano, non vestono, e non hanno masserizie in casa. Basta loro lo abbondare di pane, di carne, ed avere una stufa, dove rifuggire il freddo: e chi non ha dell'altre cose fa senza esse, e non le cerca. Spendonsi in dosso duoi forini in dieci anni, ed ognuno vive secondo il grado suo a questa proporzione, e nissuno fa conto di quello gli manca, ma di quello che ha di necessità, e le loro necessitadi sono assai minori che le nostre.[3]
  • Io ho letto a questi dì Orlando furioso dello Ariosto, e veramente el poema è bello tutto, et in di molti luoghi è mirabile. Se si truova costì, raccomandatemi a lui, e ditegli che io mi dolgo solo che, avendo ricordato tanti poeti, che m'abbi lasciato indreto come un cazo, e ch'egli ha fatto a me quello in sul suo Orlando, che io non farò a lui in sul mio Asino. (dalla lettera a Lodovico Alamanni, 17 dicembre 1517)

Attribuite[modifica]

[Citazione errata] Questa citazione non è attestata in nessuna delle opere machiavelliane. Nel capitolo XVIII de Il principe tuttavia è presente una citazione simile e il famoso motto potrebbe essere considerato una sintesi di questa citazione: «[...] nelle azioni di tutti gli uomini, e massime de' Principi, dove non è giudizio a chi reclamare, si guarda al fine. Facci adunque un Principe conto di vivere e mantenere lo Stato; i mezzi saranno sempre giudicati onorevoli, e da ciascuno lodati; [...].».[4]

Clizia[modifica]

Incipit[modifica]

Palamede, Cleandro

Palamede: Tu esci sì a buon'ora di casa?
Cleandro: Tu, donde vieni sì a buon'ora?
Palamede: Da fare una mia faccenda.
Cleandro: Ed io vo a farne un'altra, o, a dire meglio, a cercarla di fare, perché s'io la farò, non ne ho certezza alcuna.

Citazioni[modifica]

  • Se nel mondo tornassino i medesimi uomini, come tornano i medesimi casi, non passerebbono mai cento anni, che noi non ci trovassimo un'altra volta insieme a fare le medesime cose che ora. (Prologo)
  • [...] quanto è più propinquo l'uomo ad un suo desiderio più lo desidera, e, non lo avendo, maggior dolore sente. (Cleandro: atto I, scena II)

Decennali[modifica]

Incipit[modifica]

Io canterò l'italiche fatiche,
seguìte già ne' duo passati lustri
sotto le stelle al suo bene inimiche.
Quanti alpestri sentier, quanti palustri
narrerò io, di sangue e morti pieni,
pe 'l variar de' regni e stati illustri!

Citazioni[modifica]

  • Lo strepito dell'armi e de' cavalli | non poté far, che non fosse sentita | la voce di un Cappon fra cento Galli; | tanto che il Re superbo fe' partita, | [...]. (Decennale primo, vv. 34-38)
  • Ma quel ch'a molti molto più non piacque; | e vi fe' disunir, fu quella scuola | sotto 'l cui segno vostra Città giacque: | i' dico di quel gran Savonarola, | il quale afflato da virtù divina | vi tenne involti con la sua parola. (Decennale primo, vv. 154-159)

Del modo di trattare i popoli della Valdichiana ribellati[modifica]

  • Puossi per questa deliberazione considerare, come i Romani nel giudicare di queste loro terre ribellate pensarono, che bisognasse o guadagnare la fede loro con i benefizj, o trattargli in modo, che mai più ne potessero dubitare, e per questo giudicarono dannosa ogni altra via di mezzo che si pigliasse. (p. 124)
  • [...] la istoria è la maestra delle azioni nostre, [...]. (p. 125)
  • [...] il mondo fu sempre ad un modo abitato da uomini che hanno avuto sempre le medesime passioni, e sempre fu chi serve e chi comanda, e chi serve mal volentieri, e chi serve volentieri, e chi si ribella ed è ripreso. (p. 125)

Dell'arte della guerra[modifica]

Incipit[modifica]

Perché io credo che si possa lodare dopo la morte ogni uomo, senza carico, sendo mancata ogni cagione e sospetto di adulazione, non dubiterò di lodare Cosimo Rucellai nostro, il nome del quale non fia mai ricordato da me senza lagrime, avendo conosciute in lui quelle parti le quali, in uno buono amico dagli amici, in uno cittadino dalla sua patria si possono disiderare.

Citazioni[modifica]

  • [Regola] [...] Quello che giova al nemico nuoce a te, e quel che giova a te nuoce al nemico. (Fabrizio: libro settimo, p. 378)
  • [Regola] Colui che sarà nella guerra più vigilante a osservare i disegni del nemico e più durerà fatica ad esercitare il suo esercito, in minori pericoli incorrerà e più potrà sperare della vittoria. (Fabrizio: libro settimo, p. 378)
  • [Regola] Non condurre mai a giornata i tuoi soldati, se prima non hai confermato l'animo loro e conosciutogli senza paura e ordinati, né mai ne farai pruova, se non quando vedi ch'egli sperano di vincere. (Fabrizio: libro settimo, p. 378)
  • [Regola] Meglio è vincere il nemico con la fame che col ferro, nella vittoria del quale può molto più la fortuna che la virtù. (Fabrizio: libro settimo, p. 378)
  • [Regola] Niuno partito è migliore che quello che sta nascoso al nemico infino che tu lo abbia eseguito. (Fabrizio: libro settimo, p. 378)
  • [Regola] Sapere nella guerra conoscere l'occasione e pigliarla, giova più che niuna altra cosa. (Fabrizio: libro settimo, p. 378)
  • [Regola] La natura genera pochi uomini gagliardi; la industria e l'esercizio ne fa assai. (Fabrizio: libro settimo, p. 378)
  • [Regola] Può la disciplina nella guerra più che il furore. (Fabrizio: libro settimo, p. 378)
  • [Regola] Quando si partono alcuni dalla parte nemica per venire a' servizj tuoi, quando sieno fedeli vi sarà sempre grandi acquisti; perché le forze degli avversari più si minuiscono con la perdita di quegli che si fuggono, che di quegli che sono ammazzati, ancora che il nome de' fuggitivi sia a' nuovi amici sospetto, a' vecchi odioso. (Fabrizio: libro settimo, p. 378)
  • [Regola] Meglio è, nell'ordinare la giornata, riserbare dietro alla prima fronte assai aiuti, che, per fare la fronte maggiore, disperdere i suoi soldati. (Fabrizio: libro settimo, pp. 378-379)
  • [Regola] Difficilmente è vinto colui che sa conoscere le forze sue e quelle del nemico. (Fabrizio: libro settimo, p. 379)
  • [Regola] Più vale la virtù de' soldati che la moltitudine; più giova alcuna volta il sito che la virtù. (Fabrizio: libro settimo, p. 379)
  • [Regola] Le cose nuove e subite sbigottiscono gli eserciti; le cose consuete e lente sono poco stimate da quegli; però farai al tuo esercito praticare e conoscere con piccole zuffe un nemico nuovo, prima che tu venga alla giornata con quello. (Fabrizio: libro settimo, p. 379)
  • [Regola] Colui che seguita con disordine il nemico poi ch'egli è rotto, non vuole fare altro che diventare, di vittorioso, perdente. (Fabrizio: libro settimo, p. 379)
  • [Regola] Quello che non prepara le vettovaglie necessarie al vivere è vinto senza ferro. (Fabrizio: libro settimo, p. 379)
  • [Regola] Chi confida più ne' cavalli che ne' fanti, o più ne' fanti che ne' cavalli, si accomodi col sito. (Fabrizio: libro settimo, p. 379)
  • [Regola] Quando tu vuoi vedere se, il giorno, alcuna spia è venuta in campo, fa' che ciascuno ne vadia al suo alloggiamento. (Fabrizio: libro settimo, p. 379)
  • [Regola] Muta partito, quando ti accorgi che il nemico l'abbia previsto. (Fabrizio: libro settimo, p. 379)
  • [Regola] Consigliati, delle cose che tu dèi fare, con molti; quello che dipoi vuoi fare conferisci con pochi. (Fabrizio: libro settimo, p. 379)
  • [Regola] I soldati, quando dimorano alle stanze, si mantengano col timore e con la pena; poi, quando si conducono alla guerra, con la speranza e col premio. (Fabrizio: libro settimo, p. 379)
  • [Regola] I buoni capitani non vengono mai a giornata se la necessità non gli strigne o la occasione non gli chiama. (Fabrizio: libro settimo, p. 379)
  • [Regola] Fa' che i tuoi nemici non sappiano come tu voglia ordinare l'esercito alla zuffa: e in qualunque modo l'ordini, fa' che le prime squadre possano essere ricevute dalle seconde e dalle terze. (Fabrizio: libro settimo, p. 379)
  • [Regola] Nella zuffa non adoperare mai una battaglia ad un'altra cosa che a quella per che tu l'avevi deputata, se tu non vuoi fare disordine. (Fabrizio: libro settimo, p. 379)
  • [Regola] Agli accidenti subiti con difficoltà si rimedia, a' pensati con facilità. (Fabrizio: libro settimo, p. 379)
  • [Regola] Gli uomini, il ferro, i danari e il pane sono il nervo della guerra; ma di questi quattro sono più necessarj i primi due, perché gli uomini e il ferro truovano i danari e il pane, ma il pane e i danari non truovano gli uomini e il ferro. (Fabrizio: libro settimo, p. 379)
  • [Regola] Il disarmato ricco è premio del soldato povero. (Fabrizio: libro settimo, pp. 379-380)
  • [Regola] Avvezza i tuoi soldati a spregiare il vivere delicato e il vestire lussurioso. (Fabrizio: libro settimo, p. 380)
  • [...] niuno senza invenzione fu mai grande uomo nel mestiero suo; [...]. (Fabrizio: libro settimo, p. 381)

Explicit[modifica]

Ma quanto a me si aspetta, per essere in là con gli anni, me ne diffido. E veramente, se la fortuna mi avesse conceduto per lo addietro tanto stato quanto basta a una simile impresa, io crederei, in brevissimo tempo, avere dimostro al mondo quanto gli antichi ordini vagliono; e senza dubbio o io l'arei accresciuto con gloria o perduto senza vergogna.

Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio[modifica]

Incipit[modifica]

Ancora che, per la invida natura degli uomini, sia sempre suto non altrimenti periculoso trovare modi ed ordini nuovi, che si fusse cercare acque e terre incognite, per essere quelli più pronti a biasimare che a laudare le azioni d'altri; nondimanco, spinto da quel naturale desiderio che fu sempre in me di operare, sanza alcuno respetto, quelle cose che io creda rechino comune benefizio a ciascuno, ho deliberato entrare per una via, la quale, non essendo suta ancora da alcuno trita, se la mi arrecherà fastidio e difficultà, mi potrebbe ancora arrecare premio, mediante quelli che umanamente di queste mie fatiche il fine considerassino.

Citazioni[modifica]

  • Né si può chiamare in alcun modo con ragione una republica inordinata, dove siano tanti esempli di virtù; perché li buoni esempli nascano dalla buona educazione[5], la buona educazione, dalle buone leggi[6]; e le buone leggi, da quelli tumulti che molti inconsideratamente dannano: perché, chi esaminerà bene il fine d'essi, non troverrà ch'egli abbiano partorito alcuno esilio o violenza in disfavore del commune bene, ma leggi e ordini in beneficio della publica libertà. (libro I, cap. IV)
  • Ed in tutte le cose umane si vede questo, chi le esaminerà bene: che non si può mai cancellare uno inconveniente, che non ne surga un altro. [...] E però, in ogni nostra diliberazione si debbe considerare dove sono meno inconvenienti, e pigliare quello per migliore partito: perché tutto netto, tutto sanza sospetto non si truova mai. (libro I, cap. VI)
  • E veramente, mai fu alcuno ordinatore di leggi straordinarie in uno popolo che non ricorresse a Dio; perché altrimente non sarebbero accettate: perché sono molti i beni conosciuti da uno prudente, i quali non hanno in sé ragioni evidenti da poterli persuadere a altrui. Però gli uomini savi, che vogliono tôrre questa difficultà, ricorrono a Dio. Così fece Licurgo, così Solone, così molti altri che hanno avuto il medesimo fine di loro. [...] E come la osservanza del culto divino è cagione della grandezza delle republiche, così il dispregio di quello è cagione della rovina d'esse. Perché, dove manca il timore di Dio, conviene o che quel regno rovini, o che sia sostenuto dal timore d'uno principe che sopperisca a' difetti della religione. (libro I, cap. XI)
  • Quelli principi o quelle republiche, le quali si vogliono mantenere incorrotte, hanno sopra ogni altra cosa a mantenere incorrotte le cerimonie della loro religione, e tenerle sempre nella loro venerazione; perché nessuno maggiore indizio si puote avere della rovina d'una provincia, che vedere dispregiato il culto divino. (libro I, cap. XII)
  • Abbiamo, adunque, con la Chiesa e con i preti noi Italiani questo primo obligo, di essere diventati sanza religione e cattivi: ma ne abbiamo ancora uno maggiore, il quale è la seconda cagione della rovina nostra. Questo è che la Chiesa ha tenuto e tiene questa provincia divisa. (libro I, cap. XII)
  • La cagione è, perché la natura ha creati gli uomini in modo che possono desiderare ogni cosa, e non possono conseguire ogni cosa: talché, essendo sempre maggiore il desiderio che la potenza dello acquistare, ne risulta la mala contentezza di quello che si possiede, e la poca sodisfazione d'esso. (libro I, cap. XXXVII)
  • [...] qualunque volta è tolto agli uomini il combattere per necessità, combattono per ambizione; [...]. (libro I, cap. XXXVII)
  • Dopo il 1494, sendo stati i principi della città cacciati da Firenze, e non vi essendo alcuno governo ordinato, ma più tosto una certa licenza ambiziosa, ed andando le cose publiche di male in peggio; molti popolari, veggendo la rovina della città, e non ne intendendo altra cagione, ne accusavano la ambizione di qualche potente che nutrisse i disordini, per potere fare uno stato a suo proposito, e tôrre loro la libertà; e stavano questi tali per le logge e per le piazze, dicendo male di molti cittadini, minacciandogli che, se mai si trovassino de' Signori, scoprirebbero questo loro inganno, e gli gastigarebbero. Occorreva spesso che di simili ne ascendeva al supremo magistrato; e come egli era salito in quel luogo, e che vedeva le cose più da presso, conosceva i disordini donde nascevano, ed i pericoli che soprastavano, e la difficultà del rimediarvi. E veduto come i tempi, e non gli uomini, causavano il disordine, diventava subito d'un altro animo, e d'un'altra fatta; perché la cognizione delle cose particulari gli toglieva via quello inganno che nel considerarle generalmente si aveva presupposto. Dimodoché, quelli che lo avevano prima, quando era privato, sentito parlare, e vedutolo poi nel supremo magistrato stare quieto, credevono che nascessi, non per più vera cognizione delle cose, ma perché fusse stato aggirato e corrotto dai grandi. Ed accadendo questo a molti uomini, e molte volte, ne nacque tra loro uno proverbio che diceva: Costoro hanno uno animo in piazza, ed uno in palazzo. (libro I, cap. XLVII)
  • Il popolo molte volte desidera la rovina sua, ingannato da una falsa specie di bene: e come le grandi speranze e gagliarde promesse facilmente lo muovono. (libro I, cap. LIII)
  • [...] dice Tito Livio [...] che tutti insieme sono gagliardi, e, quando ciascuno poi comincia a pensare al proprio pericolo, diventa vile e debole. (libro I, cap. LVII)
  • Nessuna cosa essere più vana e più incostante che la moltitudine, così Tito Livio nostro, come tutti gli altri istorici, affermano. (libro I, cap. LVIII)
  • Laudano sempre gli uomini, ma non sempre ragionevolmente, gli antichi tempi e gli presenti accusano; e in modo sono delle cose passate partigiani che non solamente celebrano quelle etadi che da loro sono state, per la memoria che ne hanno lasciata gli scrittori, conosciute, ma quelle ancora che sendo già vecchi si ricordano nella loro giovanezza avere vedute. E quando questa loro opinione sia falsa, come il più delle volte è, mi persuado varie essere le cagioni che a questo inganno gli conducono. E la prima credo sia che delle cose antiche non s'intenda al tutto la verità; e che di quelle il più delle volte si nasconda quelle cose che recherebbono a quelli tempi infamia, e quelle altre che possano partorire loro gloria si rendino magnifiche e amplissime. [...] Oltra di questo, odiando gli uomini le cose o per timore o per invidia, vengono a essere spente due potentissime cagioni dell'odio nelle cose passate, non ti potendo quelle offendere e non ti dando cagione d'invidiarle. Ma al contrario interviene di quelle cose che si maneggiano e veggono, le quali per la intera cognizione di esse non ti essendo in alcuna parte nascoste e conoscendo in quelle insieme con il bene molte altre cose che ti dispiacciono, sei forzato a giudicarle alle antiche molto inferiori, ancora che in verità le presenti molto più di quelle di gloria e di fama meritassoro; [...]. (libro II, Introduzione)
  • [...] gli è offizio di uomo buono, quel bene che per la malignità de' tempi e della fortuna tu non hai potuto operare, insegnarlo ad altri, acciocché, sendone molti capaci, alcuno di quelli, più amato dal Cielo, possa operarlo. (libro II, Introduzione)
  • Se la religione nostra richiede che tu abbi in te fortezza, vuole che tu sia atto a patire più che a fare una cosa forte. Questo modo di vivere, adunque, pare che abbi renduto il mondo debole, e datolo in preda agli uomini scelerati; i quali sicuramente lo possono maneggiare, veggendo come l'università degli uomini, per andarne in Paradiso, pensa più a sopportare le sue battiture che a vendicarle. (libro II, cap. II)
  • Dico pertanto, non l'oro, come grida la comune opinione, essere il nervo della guerra, ma i buoni soldati: perché l'oro non è sufficiente a trovare i buoni soldati, ma i buoni soldati sono bene sufficienti a trovare l'oro. (libro II, cap. X)
  • E benché in tale guerra gli Ateniesi prosperassino qualche volta, in ultimo la perderono; e valson più il consiglio e li buoni soldati di Sparta, che la industria ed il danaio di Atene. (libro II, cap. X)
  • [...] l'artiglieria ha bisogno di essere guardata, a volere che la operi, o da mura o da fossi o da argini; e come le mancherà una di queste guardie, ella è prigione, o la diventa inutile: come le interviene quando la si ha a difendere con gli uomini; il che le interviene nelle giornate e zuffe campali. (libro II, cap. XVII)
  • [...] l'impeto delle artiglierie è tale che non truova muro, ancoraché grossissimo, che in pochi giorni ei non abbatta [...]. (libro II, cap. XVII)
  • Conchiuggo pertanto, venendo al fine di questo discorso, l'artiglieria essere utile in uno esercito quando vi sia mescolata l'antica virtù; ma, sanza quella, contro a uno esercito virtuoso è inutilissima. (libro II, cap. XVII)
  • Non è per questo che io giudichi che non si abbia adoperare l'armi e le forze; ma si debbono riservare in ultimo luogo dove e quando gli altri modi non bastino.[7] (libro II, cap. 21)
  • [...] principi non buoni temono sempre che altri non operi, contro a loro, quello che par loro meritare [...].[8] (libro III, cap. 6)
  • [...] le cose che hanno in sé utilità, quando l'uomo n'è privo, non le dimentica mai, ed ogni minima necessità te ne fa ricordare; e perché le necessità vengono ogni giorno, tu te ne ricordi ogni giorno. (libro III, cap. 23)
  • Una republica sanza i cittadini riputati non può stare, né può governarsi in alcuno modo bene. Dall'altro canto, la riputazione de' cittadini è cagione della tirannide delle republiche. (libro III, cap. 28)
  • [...] dove si dilibera al tutto della salute della patria, non vi debbe cadere alcuna considerazione né di giusto né d'ingiusto, né di piatoso né di crudele, né di laudabile né d'ignominioso; anzi, posposto ogni altro rispetto, seguire al tutto quel partito che le salvi la vita e mantenghile la libertà. (libro III, cap. 41)

Explicit[modifica]

Erano in Roma, per la liberalità che i Romani usavano di donare la civiltà a' forestieri, nate tante genti nuove, che le cominciavano avere tanta parte ne' suffragi, che il governo cominciava variare, e partivasi da quelle cose e da quelli uomini dove era consueto andare. Di che accorgendosi Quinto Fabio, che era Censore, messe tutte queste genti nuove, da chi dipendeva questo disordine, sotto quattro Tribù acciocché non potessono, ridutti in sì piccoli spazi, corrompere tutta Roma. Fu questa cosa bene conosciuta da Fabio, e postovi, sanza alterazione, conveniente rimedio; il quale fu tanto accetto a quella civiltà, ch'e' meritò di essere chiamato Massimo.

Discorso intorno alla nostra lingua[modifica]

Incipit[modifica]

DISCORSO O DIALOGO

In cui si esamina, se la lingua, in cui scrissero Dante, il Boccaccio,
e il Petrarca, si debba chiamare

ITALIANA, TOSCANA, O FIORENTINA

Sempreché io ho potuto onorare la patria mia, eziandio con mio carico e pericolo, l'ho fatto volentieri, perché l'uomo non ha maggiore obbligo nella vita sua, che con quella, dependendo prima da essa l'essere, e dipoi tutto quello che di buono la fortuna, e la natura ci hanno conceduto; e tanto viene a esser maggiore in coloro che hanno sortito patria più nobile. E veramente colui il quale con l'animo e con le opere si fa nimico della sua patria, meritamente si può chiamare parricida, ancora che da quella fosse suto offeso.

Citazioni[modifica]

  • [...] mi fermerò sopra di Dante, il quale in ogni parte mostrò d'essere per ingegno, per dottrina, e per giudizio uomo eccellente, eccettoché dove egli ebbe a ragionar della patria sua, la quale fuori di ogni umanità e filosofico istituto perseguitò con ogni specie d'ingiuria, e non potendo altro fare che infamarla, accusò quella di ogni vizio, dannò gli uomini, biasimò il sito, disse male de' costumi, e delle leggi di lei, e questo fece non solo in una parte della sua Cantica, ma in tutta, e diversamente, e in diversi modi; tanto l'offese l'ingiuria dell'esilio, tanta vendetta ne desiderava, e però ne fece tanta quanta egli poté; e se per sorte de' mali ch'egli le predisse, le ne fosse accaduto alcuno, Firenze arebbe più da dolersi d'aver nutrito quell'uomo, che d'alcuna altra sua rovina. (p. 119)
  • Dante mio, io voglio che tu t'emendi e che tu consideri meglio il parlar Fiorentino, e la tua opera, e vedrai, che se alcuno s'arà da vergognare, sarà piuttosto Firenze, che tu; perché se considererai bene a quel che tu hai detto, tu vedrai come ne' tuoi versi non hai fuggito il goffo, come quello: Poi ci partimmo, e n'andavamo introque[9]; non hai fuggito il porco, com'è quello: Che merda fa di quel che si trangugia[10]; non hai fuggito l'osceno, come è: Le mani alzò con ambedue le fiche[11]; e non avendo fuggito questo che disonora tutta l'opera tua, tu non puoi aver fuggito infiniti vocaboli patrj, che non s'usano altrove, che in quella, perché l'arte non può mai in tutto repugnare alla natura. (pp. 125-126)
  • [...] ma quella lingua si chiama d'una patria, la quale converte i vocaboli ch'ella ha accattati da altri, nell'uso suo, ed è sì potente, che i vocaboli accattati non la disordinano ma la disordina loro, perché quello ch'ella reca da altri, lo tira a se in modo, che par suo, [...]. (p. 126)

I capitoli[modifica]

Dell'Occasione[modifica]

Incipit[modifica]

– Chi sei tu, che non par donna mortale?
Di tanta grazia il Ciel t'adorna e dota!
Perché non posi? Perché a' piedi hai l'ale?
Io sono l'Occasione, a pochi nota;
e la cagion, che sempre mi travagli,
è, perché io tengo un piè sopra una rota.

Citazioni[modifica]

  • E tu mentre parlando il tempo spendi, | occupato da molti pensier vani, | già non t'avvedi, lasso, e non comprendi | com'io ti son fuggita dalle mani! (vv. 19-22)

Di Fortuna[modifica]

Incipit[modifica]

Con che rime giammai, o con che versi
canterò io del regno di Fortuna,
e de' suoi casi prosperi, ed avversi?
E come ingiuriosa, ed importuna,
secondo è giudicata quì da noi,
sotto il suo seggio tutto il mondo aduna?

Citazioni[modifica]

  • Questa incostante Dea, e mobil Diva | gl'indegni spesso sopra un seggio pone, | dove chi degno n'è mai non arriva. | Costei il tempo a modo suo dispone; | questa ci esalta, questa ci disface, | senza pietà, senza legge, o ragione. (vv. 34-39)

Dell'Ingratitudine[modifica]

Incipit[modifica]

Giovanni Folchi, il viver mal contento,
pel dente dell'Invidia, che mi morde,
mi darebbe più doglia, e più tormento;
se non fusse che ancor le dolci corde
d'una mia cetra, che soave suona,
fanno le muse al mio cantar non sorde.
Non sì ch'io speri averne altra corona;
non sì ch'io creda, che per me s'aggiunga
una gocciola d'acqua d'Elicona.

Citazioni[modifica]

  • [...] dove men si sa, più si sospetta. (v. 66)
  • Dunque, non sendo Ingratitudin morta | ciascun fuggir le Corti e' stati debbe; | che non c'è via che guidi l'uom più corta | a pianger quel che volle, poi che l'ebbe. (vv. 184-187)

Dell'Ambizione[modifica]

Incipit[modifica]

Luigi, poi che tu ti maravigli
di questo caso, che a Siena è seguito,
non mi par che pel verso il mondo pigli.
E se nuovo ti par quel c'hai sentito,
come tu m'hai certificato, e scritto,
pensa un po' meglio all'umano appetito.

Citazioni[modifica]

  • Qual regione, o qual Città n'è priva? | Qual bosco, qual tugurio? In ogni lato | l'Ambizione, e l'Avarizia arriva. | Queste nel mondo, come l'uom fu nato, | nacquero ancora, e se non fusser quelle, | sarebbe assai felice il nostro stato. (vv. 10-15)

Il principe[modifica]

Incipit[modifica]

Tutti gli Stati, tutti i dominii che hanno avuto, e hanno imperio sopra gli uomini, sono stati e sono o Repubbliche o Principati. I principati sono o ereditari, de' quali il sangue del loro Signore ne sia stato lungo tempo Principe, o e' sono nuovi. I nuovi o sono nuovi tutti, come fu Milano a Francesco Sforza, o sono come membri aggiunti allo stato ereditario del Principe che gli acquista, come è il Regno di Napoli al Re di Spagna. Sono questi dominii, così acquistati, o consueti a vivere sotto un Principe, o usi ad esser liberi; ed acquistansi o con le armi di altri o con le proprie, o per fortuna o per virtù.

Citazioni[modifica]

  • [...] così come coloro che disegnano e paesi si pongono bassi nel piano a considerare la natura de' monti e de' luoghi alti, e per considerare quella de' bassi si pongono alti sopra e monti, similmente, a conoscere bene la natura de' popoli bisogna essere principe, e a conoscere bene quella de' principi bisogna essere popolare. (dedica)
  • [...] gli uomini si debbono o vezzeggiare o spegnere, perché si vendicano delle leggieri offese; delle gravi non possono: sicché l'offesa che si fa all'uomo, deve essere in modo, che ella non tema la vendetta.[12] (cap. III)
  • [...] la guerra non si leva, ma si differisce con vantaggio d'altri; [...]. (cap. III)
  • [...] chi è cagione che uno diventi potente, rovina; perché quella potenza è causata da colui o con industria, o con forza, e l'una e l'altra di queste due è sospetta a chi è diventato potente. (cap. III)
  • È cosa veramente molto naturale e ordinaria desiderare di acquistare, e sempre, quando gli uomini lo fanno che possino, ne saranno laudati e non biasimati; ma quando non possono e vogliono farlo in ogni modo, qui è il biasimo e l'errore. (cap. III)
  • Non si debba mai lasciar seguire uno disordine per fuggire una guerra; perchè ella non si fugge, ma si differisce a tuo disavvantaggio. (cap. III)
  • Chi diviene padrone di una città consueta a vivere libera, e non la disfaccia, aspetti di essere disfatto da quella. (cap. V)
  • [...] camminando gli uomini quasi sempre per le vie battute da altri, e procedendo nelle azioni loro con le imitazioni, né si potendo le vie di altri al tutto tenere, né alla virtù di quelli che tu imiti aggiugnere, debbe uno uomo prudente intrare sempre per vie battute da uomini grandi, e quelli che sono stati eccellentissimi imitare; acciò che, se la sua virtù non vi arriva, almeno ne renda qualche odore: e fare come gli arcieri prudenti, a' quali parendo el loco dove disegnano ferire troppo lontano e conoscendo fino a quanto va la virtù del loro arco, pongono la mira assai più alta che il loco destinato, non per aggiugnere con la loro freccia a tanta altezza, ma per poter con l'aiuto di sì alta mira pervenire al disegno loro. (cap. VI)
  • [...] e senza quella occasione la virtù dell'animo loro si saria spenta, e senza quella virtù l'occasione sarebbe venuta invano. (cap. VI)
  • Tutti li Profeti armati vinsono, e li disarmati rovinarono. (cap. VI)
  • [...] la natura de' popoli è varia, ed è facile a persuadere loro una cosa, ma è difficile fermargli in quella persuasione. (cap. VI)
  • A sì alti esempi io voglio aggiugnere uno esempio minore; ma bene arà qualche proporzione con quelli, e voglio mi basti per tutti li altri simili: e questo è Ierone Siracusano [Gerone II]. Costui di privato diventò Principe di Siracusa; nè ancor egli cognobbe altro dalla fortuna che l'occasione: perché essendo i Siracusani oppressi l'elessono per loro capitano, donde meritò d'essere fatto loro Principe; e fu di tanta virtù ancora in privata fortuna, che chi ne scrive dice, che niente gli mancava a regnare eccetto il Regno. Costui spense la milizia vecchia, ordinò della nuova; lasciò le amicizie antiche, prese delle nuove; e come ebbe amicizie e soldati che fussino suoi, possé in su tale fondamonto edificare ogni edifizio: tanto che lui durò assai fatica in acquistare e poca in mantenere. (cap. VI)
Su Cesare Borgia: «Raccolte adunque tutte queste azioni del Duca, non saprei riprenderlo, anzi mi pare, come io ho fatto, di proporlo ad imitare a tutti coloro, che per fortuna e con l'armi d'altri sono saliti all'imperio. Perché egli avendo l'animo grande, e la sua intenzione alta, non si poteva governare altrimente; e solo si oppose alli suoi disegni la brevità della vita di Alessandro, e la sua infirmità.»
  • Dall'altra parte Cesare Borgia, chiamato dal vulgo Duca Valentino, acquistò lo Stato con la fortuna del Padre, e con quella lo perdette, non ostante che per lui si usasse ogni opera, e facessinsi tutte quelle cose che per un prudente e virtuoso uomo si dovevano fare, per mettere le radici sue in quelli Stati, che l'armi e fortuna di altri gli aveva concessi. (cap. VII)
  • [Su Cesare Borgia] Se adunque si considererà tutti i progressi del Duca, si vedrà quanto lui avesse fatto gran fondamenti alla futura potenzia, li quali non giudico superfluo discorrere, perché io non saprei quali precetti mi dare migliori ad un Principe nuovo, che lo esempio delle azioni sue; e se gli ordini suoi non gli giovarono, non fu sua colpa, perché nacque da una straordinaria ed estrema malignità di fortuna. Aveva Alessandro VI nel voler fare grande il Duca suo figliuolo assai difficultà presenti e future. (cap. VII)
  • [Su Cesare Borgia] Raccolte adunque tutte queste azioni del Duca, non saprei riprenderlo, anzi mi pare, come io ho fatto, di proporlo ad imitare a tutti coloro, che per fortuna e con l'armi d'altri sono saliti all'imperio. Perché egli avendo l'animo grande, e la sua intenzione alta, non si poteva governare altrimente; e solo si oppose alli suoi disegni la brevità della vita di Alessandro, e la sua infirmità. (cap. VII)
  • [...] gli uomini offendono o per paura, o per odio. (cap. VII)
  • Le ingiurie si debbono fare tutte insieme, acciocchè assaporandosi meno, offendino meno; li beneficii si debbono fare a poco a poco, acciocchè si assaporino meglio. (cap. VIII)
  • Perché in ogni città si trovano questi duoi umori diversi, e nascono da questo, che il popolo desidera non esser comandato nè oppresso da' grandi, e i grandi desiderano comandare e opprimere il popolo; e da questi duoi appetiti diversi surge nelle città uno de' tre effetti, o Principato, o Libertà, o Licenza. (cap. IX)
  • [...] quello del popolo è più onesto fine che quel de' grandi, volendo questi opprimere, e quello non essere oppresso. (cap. IX)
  • Ma la poca prudenza degli uomini comincia una cosa, che per sapere allora di buono non manifesta il veleno che v'è sotto, [...]. (cap. XIII)
  • Essendo l'intento mio scrivere cosa utile a chi l'intende, mi è parso più conveniente andare dietro alla verità effettuale della cosa, che all'immaginazione di essa. (cap. XV)
  • Non ci è cosa che consumi sè stessa quanto la liberalità, la quale mentre che tu usi, perdi la facultà di usarla, e diventi o povero o vile, o, per fuggire la povertà, rapace e odioso. (cap. XVI)
  • Nasce da questo una disputa: s'egli è meglio essere amato che temuto, o temuto che amato. Rispondesi, che si vorrebbe essere l'uno e l'altro; ma perché egli è difficile, che e' stiano insieme, è molto più sicuro l'esser temuto che amato, quando s'abbi a mancare dell'un de' duoi. (cap. XVII)
  • E gli uomini hanno men rispetto di offendere uno che si facci amare, che uno che si facci temere; perchè l'amore è tenuto da un vincolo di obbligo, il quale, per essere gli uomini tristi, da ogni occasione di propria utilità è rotto; ma il timore è tenuto da una paura di pena, che non abbandona mai. (cap. XVII)
  • Deve nondimeno il Principe farsi temere in modo, che, se non acquista l'amore, e' fugga l'odio, perché può molto bene stare insieme esser temuto, e non odiato; il che farà, sempreché s'astenga dalla roba de' suoi cittadini, e de' suoi sudditi, e dalle donne loro. (cap. XVII)
  • [...] gli uomini dimenticano piuttosto la morte del padre, che la perdita del patrimonio. (cap. XVII)
  • Quanto sia laudabile in un Principe mantenere la fede, e vivere con integrità, e non con astuzia, ciascuno lo intende. Nondimeno si vede per esperienzia, ne' nostri tempi, quelli Principi aver fatto gran cose, che della fede hanno tenuto poco conto, e che hanno saputo con astuzia aggirare i cervelli degli uomini, ed alla fine hanno superato quelli che si sono fondati in su la lealtà. (cap. XVIII)
  • Pertanto ad un Principe è necessario saper ben usare la bestia e l'uomo. (cap. XVIII)
  • Essendo adunque un Principe necessitato sapere bene usare la bestia, debbe di quella pigliare la volpe e il lione; perché il lione non si defende da' lacci, la volpe non si defende da' lupi. Bisogna adunque essere volpe a cognoscere i lacci, e lione a sbigottire i lupi. (cap. XVIII)
  • Non può pertanto un Signore prudente, nè debbe osservare la fede, quando tale osservanzia gli torni contro, e che sono spente le cagioni che la feciono promettere. (cap. XVIII)
  • Né mai a un Principe mancheranno cagioni legittime di colorare l'inosservanza. (cap. XVIII)
  • [...] sono tanto semplici gli uomini, e tanto ubbidiscono alle necessità presenti, che colui che inganna, troverà sempre chi si lascerà ingannare. (cap. XVIII)
  • [...] gli uomini in universale giudicano più agli occhi che alle mani, perché tocca a vedere a ciascuno, a sentire a' pochi. Ognuno vede quel che tu pari; pochi sentono quel che tu sei [...]. (cap. XVIII)
  • [...] nelle azioni di tutti gli uomini, e massime de' Principi, dove non è giudizio a chi reclamare, si guarda al fine. Facci adunque un Principe conto di vivere e mantenere lo Stato; i mezzi saranno sempre giudicati onorevoli, e da ciascuno lodati; [...]. (cap. XVIII)
  • [...] in Severo fu tanta virtù, che, mantenendosi i soldati amici, ancorché i popoli fossero da lui gravati, poté sempre regnare felicemente; perché quelle sue virtù lo facevano nel cospetto de' soldati e de' popoli sì mirabile, che questi rimanevano in un certo modo attoniti e stupidi, e quelli altri riverenti e satisfatti. (cap. XIX)
  • [...] quelle difese solamente sono buone, certe, e durabili, che dipendono da te proprio, e dalla virtù tua. (cap. XXIV)
  • Nondimanco, perché il nostro libero arbitrio non sia spento, giudico potere esser vero, che la fortuna sia arbitra della metà delle azioni nostre, ma che ancora ella ne lasci governare l'altra metà, o poco meno, a noi. Ed assomiglio quella ad fiume rovinoso, che quando ei si adira, allaga i piani, rovina gli arbori e gli edifici, lieva da questa parte terreno, ponendolo a quell'altra; ciascuno gli fugge davanti, ognuno cede al suo furore, senza potervi ostare; e benché sia così fatto, non resta però che gli uomini, quando sono tempi quieti, non vi possino fare provvedimenti e con ripari, e con argini, immodoché crescendo poi, o egli andrebbe per un canale, o l'impeto suo non sarebbe sì licenzioso, né sì dannoso.
    Similmente interviene della fortuna, la quale dimostra la sua potenzia dove non è ordinata virtù a resistere, e quivi volta i suoi impeti, dove la sa che non sono fatti gli argini, né i ripari a tenerla. (cap. XXV)
  • [...] se a uno, che si governa con rispetto e pazienza, i tempi e le cose girano in modo che il governo suo sia buono, esso viene felicitando; ma se li tempi e le cose si mutano, egli rovina, perché non muta modo di procedere. (cap. XXV)
  • [...] la Fortuna è donna; ed è necessario, volendola tener sotto, batterla, ed urtarla; [...]. (cap. XXV)
  • [...] era necessario che l'Italia si conducesse ne' termini presenti, e che la fusse più schiava che gli Ebrei, più serva che i Persi, più dispersa che gli Ateniesi, senza capo, senz'ordine, battuta, spogliata, lacera, corsa, ed avesse sopportato di ogni sorta rovine. (cap. XXVI)
  • [...] né può essere, dove è grande disposizione, grande difficultà; [...]. (cap. XXVI)

Explicit[modifica]

Quali porte se gli serrerebbono? Quali popoli li negherebbono la obbidienza? Quale invidia se gli opporrebbe? Quale Italiano gli negherebbe l'ossequio? Ad ognuno puzza questo barbaro dominio. Pigli adunque la illustre Casa Vostra questo assunto con quello animo, e con quelle speranze che si pigliano l'imprese giuste, acciocché sotto la sua insegna questa patria ne sia nobilitata, e sotto i suoi auspicii si verifichi quel detto del Petrarca:
Virtù contro al furore
Prenderà l'armi; e fia il combatter corto,
Chè l'antico valore
Negli italici cuor non è ancor morto.
[13]

Citazioni su Il principe[modifica]

  • Il carattere fondamentale del Principe è quello di non essere una trattazione sistematica ma un libro «vivente», in cui l'ideologia politica e la scienza politica si fondono nella forma drammatica del «mito». Tra l'utopia e il trattato scolastico, le forme in cui la scienza politica si configurava fino al Machiavelli, questi dette alla sua concezione la forma fantastica e artistica, per cui l'elemento dottrinale e razionale si impersona in un condottiero, che rappresenta plasticamente e «antropomorficamente» il simbolo della «volontà collettiva». (Antonio Gramsci)
  • Il Principe di Machiavelli ha una concezione e visione volgare del desiderio. (Aldo Busi)
  • In questo manuale matematicamente limpido di una spregiudicata politica di potenza e di successo, il pensiero antitetico a quello erasmico trova la sua formula precisa, quasi come in un catechismo. (Stefan Zweig)
  • Machiavelli è quel gigante di pensiero che tutti sappiamo. Tuttavia il suo ammiratissimo e giustamente celeberrimo libro Il principe non è a mio avviso un'opera così inappuntabile, così incredibilmente sottile, così perfettamente completa come la critica ha stimato e stima. Anzi, considerandola dal punto di vista dell'esattezza e dell'indagine e della compiutezza filosofica, mi risulta qua e là mancante, qua e là deludente. (Dario Bernazza)
  • Machiavelli sa troppo bene che un Marco Aurelio è un fenomeno raro, anzi unico, che è un'eccezione di cui è inutile tenere conto. I Tiberio, i Nerone, i Caligola, ecco la materia della storia. Ogni principe degno di questo nome si avvicina più o meno a loro; ogni principe che conosca il proprio mestiere è un mostro dichiarato o attenuato e corretto. I suoi sudditi lo meritano. Per questo Machiavelli lo mette in guardia contro i pericoli della bontà. Uno Stato non si compone né di angeli, né di agnelli: è la giungla organizzata. Tale è l'idea, talora espressa, talora sottintesa, del Principe. (Emil Cioran)
  • Sono sempre tantissimi i pirla politici che interpretano Il Principe come un trattato scientifico e non come un vaudeville rinascimentale steso da un depresso cortigiano di seconda segata. (Aldo Busi)

Istorie fiorentine[modifica]

Incipit[modifica]

I popoli i quali nelle parti settentrionali di là dal fiume del Reno e del Danubio abitano, sendo nati in regione generativa e sana, in tanta moltitudine molte volte crescono, che parte di loro sono necessitati abbandonare i terreni patrii e cercare nuovi paesi per abitare. L'ordine che tengono, quando una di quelle provincie si vuole sgravare di abitatori, è dividersi in tre parti, compartendo in modo ciascuno, che ogni parte sia di nobili e ignobili, di ricchi e poveri ugualmente ripiena; di poi quella parte alla quale la sorte comanda va a cercare suo fortuna, e le due parti sgravate del terzo di loro si rimangono a godere i beni patrii.

Citazioni[modifica]

Citazioni sulle Istorie fiorentine[modifica]

  • Il capolavoro storico di Machiavelli, la parte veramente geniale della sua opera, è la sezione sulla storia interna di Firenze, dagli inizi fino a circa il 1420 (2° e 3° libro) [...] nell'esposizione della storia più antica, tenuta più nella forma di uno sguardo generale che in quella di una narrazione, ebbe occasione di far fruttare per la storia le qualità che, anche tra i Fiorentini, possiede lui solo: lo sguardo ampio ed il dono di riconoscere i grandi nessi storici, e di inquadrare i fatti singoli in uno sviluppo generale. [...] basandosi sulle sue riflessioni circa i motivi che avevano prodotto l'inferiorità militare dell'Italia, ha mostrato nessi esistenti fra cose molto distanti le une dalle altre, i quali giacciono al di là dei calcoli, e perciò anche al di là dei pensieri, degli uomini della politica pratica assorbiti per lo più dalle cure del giorno. Qui Machiavelli ha pensato come storico, e non solo come politico o diplomatico.
    Perciò diminuì fortemente l'influenza degli individui, per lo meno l'influenza cosciente. (Eduard Fueter)
  • Persino la forma è qui completamente originale, tolte alcune esteriorità. Machiavelli è ancor più moderno degli umanisti. Elimina gli ultimi residui della maniera cronachistica [...] Tentò una composizione reale: i suoi libri corrispondono a raggruppamenti naturali e non sono più sezioni divise in modo puramente esteriore. Le sue introduzioni non sono più pezzi di parata appiccicati, pieni di banalità. La lingua spietatamente realistica rinunzia per lo più alle frasi di abbellimento della rettorica e dice quel che ha da dire senza circonlocuzioni. E dove il suo cuore batte, si eleva ad una eloquenza che fa apparire in tuta la loro nudità le pietose tirate dei letterati. (Eduard Fueter)

La mandragola[modifica]

Incipit[modifica]

Callimaco: Siro, non ti partire, io ti voglio un poco.
Siro: Eccomi.
Callimaco: Io credo che tu ti maravigliassi assai della mia subita partita da Parigi; ed ora ti maravigli sendo io stato qui già un mese senza fare alcuna cosa.
Siro: Voi dite il vero.

Citazioni[modifica]

  • Perché la vita è brieve | e molte son le pene | che vivendo e stentando ognun sostiene; || dietro alle nostre voglie, | andiam passando e consumando gli anni, | ché chi il piacer si toglie | per viver con angosce e con affanni, | non conosce gli inganni | del mondo; o da quai mali | e da che strani casi | oppressi quasi sian tutti i mortali. (Canzone da dirsi innanzi alla commedia, cantata da ninfe e pastori insieme)
  • E' non è mai alcuna cosa sì desperata, che non vi sia qualche via da poterne sperare; e benché la fussi debole e vana, e la voglia e il desiderio, che l'uomo ha di condurre la cosa, non la fa parere così. (Callimaco: atto I, scena I)
  • [...] quando una cosa fa per uno, si ha a credere, quando tu gliene communichi, che ti serva con fede. (Callimaco: atto I, scena I)
  • [...] le donne si sogliono con le buone parole condurre dove altri vuole. (Siro: atto II, scena V)
  • Voi avete ad intender questo, che non è cosa più certa ad ingravidare una donna che dargli bere una pozione fatta di mandragola. Questa è una cosa esperimentata da me dua paia di volte, e trovata sempre vera; e, se non era questo, la reina di Francia sarebbe sterile, ed infinite altre principesse di quello stato. (Callimaco: atto II, scena VI)
  • Le più caritative persone che sieno sono le donne, e le più fastidiose. Chi le scaccia, fugge e fastidii e l'utile; chi le intrattiene, ha l'utile ed e fastidii insieme. Ed è 'l vero che non è el mele sanza le mosche. (Timoteo: atto III, scena IV)
  • [...] tutte le donne hanno poco cervello; e come ne è una che sappi dire dua parole, e' se ne predica, perché in terra di ciechi chi v'ha un occhio è signore. (Timoteo: atto III, scena IX)
  • [...] chi dice che gli è dura cosa l'aspettare, dice el vero. (Callimaco: atto IV, scena IV)
  • E' dicono el vero quelli che dicono che le cattive compagnie conducono gli uomini alle forche, e molte volte uno càpita male cosí per essere troppo facile e troppo buono, come per essere troppo tristo. (Timoteo: atto IV, scena VI)
  • Oh dolce notte, oh sante | ore notturne e quete, | ch'i disïosi amanti accompagnate; | in voi s'adunan tante | letizie, onde voi siete | sole cagion di far l'alme beate. (Canzone dopo il quarto atto)

Explicit[modifica]

Timoteo: Andianne tutti in chiesa, e quivi direno l'orazione ordinaria; dipoi, doppo l'uficio, ne andrete a desinare a vostra posta. Voi, aspettatori, non aspettate che noi usciàno piú fuora: l'uficio è lungo, io mi rimarrò in chiesa, e loro, per l'uscio del fianco, se n'andranno a casa. Valète!

Citazioni su La mandragola[modifica]

  • La Mandragola di Machiavelli vale da sola forse più di tutte le commedie di Aristofane. (Voltaire)
  • La Mandragola è la base di tutta una nuova letteratura. È un mondo mobile e vivace, che ha varietà, sveltezza, curiosità, come un mondo governato dal caso. Ma sotto queste apparenze frivole si nascondono le più profonde combinazioni della vita interiore. L'impulso dell'azione viene da forze spirituali, inevitabili, come il fato. Basta conoscere i personaggi, per indovinare la fine. Il mondo è rappresentato come una conseguenza, le cui premesse sono nello spirito o nel carattere, nelle forze che lo movono. E chi meglio sa calcolarle, colui vince. Il soprannaturale, il maraviglioso, il caso sono detronizzati. Succede il carattere. Quello che Machiavelli è nella storia e nella politica, è ancora nell'arte. (Francesco De Sanctis)
  • Questo frammento appartiene alla Mandragola d'Alesside (142, KOCK), dalla quale, non sapremmo per qual tramite, deve pure aver derivata qualche cosa il capolavoro del Machiavelli. Anche in essa, infatti, si trattava di una donna fatturata con la mandragola; e chi compieva l'operazione poté ben essere un antenato di Callimaco. (Ettore Romagnoli)

La vita di Castruccio Castracani da Lucca[modifica]

Incipit[modifica]

E' pare, Zanobi e Luigi carissimi, a quegli che la considerano cosa maravigliosa, che tutti coloro o la maggiore parte di essi, che hanno in questo mondo operato grandissime cose, e intra gli altri della loro età siano stati eccellenti, abbino avuto il principio e il nascimento loro basso e oscuro, ovvero dalla fortuna fuora d'ogni modo travagliato; perché tutti o e' sono stati esposti alle fiere, o egli hanno avuto sì vile padre, che vergognatisi di quello si sono fatti figliuoli di Giove, o di qualche altro Dio.

Citazioni[modifica]

  • Sendo invitato a cena da Taddeo Bernardi lucchese, uomo ricchissimo e splendidissimo, e, arrivato in casa, mostrandogli Taddeo una camera parata tutta di drappi e che aveva il pavimento composto di pietre fine, le quali, di diversi colori diversamente tessute, fiori e fronde e simili verzure rappresentavano, ragunatosi Castruccio assai umore in bocca, lo sputò tutto in sul volto a Taddeo. Di che turbandosi quello, disse Castruccio: – Io non sapevo dove mi sputare che io ti offendessi meno. (pp. 277-278)
  • [...] la via dello andare allo inferno era facile, poiché si andava allo ingiù e a chiusi occhi. (p. 278)
  • Vedendo che uno aveva scritto sopra alla casa sua in lettere latine che Dio la guardasse dai cattivi, disse: E' bisogna che non vi entri egli. (p. 280)

Lettere[modifica]

Lettera XI a Francesco Vettori

10 dicembre 1513

  • Magnifico ambasciatore. Tarde non furon mai grazie divine. Dico questo, perché mi pareva haver perduta no, ma smarrita la grazia vostra, sendo stato voi assai tempo senza scrivermi; ed ero dubbio donde potessi nascere la cagione. E di tutte quelle mi venivono nella mente tenevo poco conto, salvo che di quella quando io dubitavo non vi havessi ritirato da scrivermi, perché vi fussi suto scritto che io non fussi buon massaio delle vostre lettere; e io sapevo che, da Filippo e Pagolo in fuora, altri per mio conto non le haveva viste.
  • E poiché la fortuna vuol fare ogni cosa, ella si vuole lasciarla fare, stare quieto e non le dare briga, e aspettar tempo che la lasci fare qualche cosa agl'huomini; e all'hora starà bene a voi durare più fatica, vegliar più le cose, e a me partirmi di villa e dire: eccomi.
  • Venuta la sera, mi ritorno a casa ed entro nel mio scrittoio; e in sull'uscio mi spoglio quella veste cotidiana, piena di fango e di loto, e mi metto panni reali e curiali; e rivestito condecentemente, entro nelle antique corti delli antiqui huomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo che solum è mio e ch'io nacqui per lui; dove io non mi vergogno parlare con loro e domandarli della ragione delle loro azioni; e quelli per loro humanità mi rispondono; e non sento per quattro hore di tempo alcuna noia, sdimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte: tutto mi transferisco in loro.
  • E della fede mia non si doverrebbe dubitare, perché, havendo sempre observato la fede, io non debbo imparare hora a romperla; e chi è stato fedele e buono quarantatré anni, che io ho, non debbe poter mutare natura; e della fede e bontà mia ne è testimonio la povertà mia.

Incipit di alcune opere[modifica]

Favola di Belfagor arcidiavolo[modifica]

Leggesi nelle antiche memorie delle Fiorentine cose come già s'intese per relazione d'alcuno santissimo uomo, la cui vita appresso qualunque in quelli tempi viveva era celebrata, che, standosi astratto nelle sue orazioni vide, mediante quelle, come andando infinite anime di quelli miseri mortali, che nella disgrazia di Dio morivano, allo Inferno, tutte o la maggior parte si dolevono, non per altro che per aver tolta moglie, essersi a tanta infelicità condotte. Donde che Minos, e Radamanto, insieme con gli altri Infernali Giudici n'avevano maraviglia grandissima; e non potendo credere queste calunnie, che costoro al sesso femmineo davano, esser vere, e crescendo ogni giorno le querele, ed avendo di tutto fatto a Plutone conveniente rapporto, fu deliberato d'aver sopra questo caso con tutti gli Infernali Principi maturo esamine, e pigliarne dipoi quel partito, che fusse giudicato migliore per iscuoprire questa fallacia, e conoscerne in tutto la verità.

Asino[modifica]

I varj casi, la pena e la doglia
che sotto forma d'un Asin soffersi,
canterò io, purché fortuna voglia.
Non cerco ch'Elicona altr'acqua versi,
e Febo posi l'arco, e la faretra,
e con la lira accompagni i miei versi;
sì perché questa grazia non s'impetra
in questi tempi; sì perch'io son certo,
che al suon d'un raglio non bisogna cetra.
Né cerco averne prezzo, premio o merto;
ed ancor non mi curo, che mi morda
un detrattore, o palese, o coperto,
ch'io so ben quanto gratitudo è sorda
a' preghi di ciascuno; e so ben quanto
de' benefizj un Asin si ricorda.

Legazione al duca Valentino[modifica]

Trovandomi io al partire di costì non molto bene a cavallo, e parendomi che la commissione mia ricercasse celerità, montai a Scarperia in poste, e ne venni senza intermissione a questa volta.
[citato in Fruttero & Lucentini, Íncipit, Mondadori, 1993]

Citazioni su Niccolò Machiavelli[modifica]

  • A tanto nome, nessun elogio adeguato.
Tanto nomini nullum par elogium. (inciso nel monumento eretto a Machiavelli nel 1787 in Santa Croce[16])
  • Cristo ha ragione e Machiavelli vince. (Clemente Rebora)
  • Di Machiavelli si ricorda con proterva inesattezza l'adagio di comodo maneggio individuale secondo cui il fine giustifica i mezzi, ma si ignora che l'intero corpo della sua riflessione fa perno sulla necessità di un elemento fiduciario fra governanti e governati e sulla convinzione che solo un solido apparato militare nazionale ne sia il garante interno ed esterno. (Walter Barberis)
  • Dopo Aristotele e Polibio, Machiavelli è il primo in cui si trovi l'avviamento ad una considerazione storico-naturale della storia. (Eduard Fueter)
  • Due piaghe che oggi pur troppo, spero per breve tempo, contaminano le classi più agiate e minacciano di sviare il progresso Italiano: il Machiavellismo e il Materialismo. Il primo, travestimento meschino della scienza d'un Grande infelice[17], v'allontana dall'amore e dall'adorazione schietta e lealmente audace della Verità. (Giuseppe Mazzini)
  • Fra tutti coloro che s'immaginavano di poter costruire uno Stato, il Machiavelli è senza paragone il più grande. Egli usa delle forze esistenti come di forze vive ed attive, le alternative che ci pone dinanzi sono giuste e grandiose, e non cerca mai d'illudere né sé stesso, né gli altri. (Jacob Burckhardt)
  • Il mondo è divenuto più simile a quello di Machiavelli. (Bertrand Russell)
  • Lo snobismo è ed è sempre stato una debolezza umana di tutti i tempi e di tutti i paesi. Quando il Machiavelli era ospite di casa Gismondi, vedendo che era tenuto in poco conto, si fece mandare, a mezzo del Guicciardini, un pacco di lettere coi suggelli papali, alla vista dei quali i suoi ospiti cambiarono subito linguaggio e maniere e lo trattarono con ogni riguardo e deferenza. (Mario Borsa)
  • Machiavelli, che passa per il genio della politica, per me è il contrario, in quanto ritiene possibile costruire lo Stato sul delitto, è l'incarnazione del nostro infantilismo politico. (Augusto Guerriero)
  • Machiavelli è il primo grande pensatore politico italiano completamente e definitivamente affrancato da ogni dipendenza culturale dalla teologia e dalla cultura cattolica: è anche il primo pensatore politico europeo interamente laico, che non fa più ricorso alle sacre scritture, cui si riferiranno ancora Hobbes e Locke. (Umberto Cerroni)
  • Machiavelli è un grande, solitario testimone del tramonto politico di una civiltà intellettuale altissima. Ha in sé qualcosa di Dante, appassionato politico e sdegnoso esule, e di Lutero. È l'ultima grande voce della nostra tradizione realistica e il primo riformatore moderno della coscienza italiana. (Umberto Cerroni)
  • Machiavelli scriveva rivolgendosi solo a un certo numero di iniziati. I dottrinari del realismo politico parlano al pubblico. (Georges Bernanos)
  • Non siamo un popolo né di santi né di poeti né di artisti né di navigatori: siamo un popolo di pesci in barile. Il nostro modello non è il Machiavelli del «fine che giustifica i mezzi» ma il Guicciardini del «proprio particulare». (Roberto Gervaso)
  • Quel grande | che temprando lo scettro a' regnatori | gli allòr ne sfronda, ed alle genti svela | di che lagrime grondi e di che sangue. (Ugo Foscolo)
  • Teorico politico; uomo moderno perché esterna una concezione dello Stato ribelle alla trascendenza e pensa un'arte politica organizzatrice della pratica. (Piero Gobetti)
  • Un'asinina lettura del Machiavelli gli attribuisce la formula: il fine giustifica i mezzi. In realtà, per Machiavelli è il fine a imporre la sua forma ai mezzi. (Renato Farina)

Francesco De Sanctis[modifica]

  • Fra tanto infuriare di prose rettoriche e poetiche comparve la prosa del Machiavelli, presentimento della prosa moderna. Qui l'uomo è tutto, e non ci è lo scrittore, o ci è solo in quanto uomo. Il Machiavelli sembra quasi ignori che ci sia un'arte dello scrivere, ammessa generalmente e divenuta moda o convenzione. Talora ci si prova, e ci riesce maestro: ed è, quando vuol fare il letterato anche lui. L'uomo è in lui tutto. Quello che scrive, è una produzione immediata del suo cervello, esce caldo caldo dal di dentro, cose e impressioni spesso condensate in una parola. Perché è un uomo che pensa e sente, distrugge e crea, osserva e riflette, con lo spirito sempre attivo e presente. Cerca la cosa, non il suo colore; pur la cosa vien fuori insieme con le impressioni fatte nel suo cervello, perciò naturalmente colorita, traversata d'ironia, di malinconia, d'indignazione, di dignità, ma principalmente lei nella sua chiarezza plastica.
  • Il Machiavelli va più in là. Egl'intravede una specie di fisica sociale, come si direbbe oggi, un complesso di leggi che regolano non solo gl'individui, ma la società e il genere umano. Perciò patria, libertà, nazione, umanità, classi sociali sono per lui fatti non meno interessanti che le passioni, gl'interessi, le opinioni, le forze che movono gl'individui. E se vogliamo trovare lo spirito o il significato di questa epoca, molto abbiamo ad imparare nelle sue opere. Indi è che come carattere morale, il segretario fiorentino ispira anche oggi vive simpatie in tutti gl'intelletti elevati, che sanno mirare al di là della scorza nel fondo delle sue dottrine, e come forza intellettuale, unisce alla profonda analisi del Guicciardini una virtù sintetica, una larghezza di vista, che manca in quello. Lui, è un punto di partenza nella storia, destinato a svilupparsi; l'altro è un bel quadro, finito e chiuso in sé.
  • Quando Machiavelli scrivea queste cose, l'Italia si trastullava ne' romanzi e nelle novelle, con lo straniero a casa. Era il popolo meno serio del mondo e meno disciplinato. La tempra era rotta. Tutti volevano cacciar lo straniero, a tutti puzzava il barbaro dominio, ma erano velleità. E si comprende come il Machiavelli miri principalmente a ristorare la tempra attaccando il male nella sua radice.

Note[modifica]

  1. Da Ritratto di cose di Francia.
  2. Da Epigrammi. Citato in Giuseppe Fumagalli, Chi l'ha detto?, Hoepli, 1921, p. 506.
  3. Da Ritratto delle cose della Magna.
  4. Cfr. Giuseppe Fumagalli, Chi l'ha detto?, Hoepli, 1921, p. 478.
  5. Cfr. La mente di un uomo di Stato, cap. V, IX: «Dalla buona educazione nascono i buoni esempi.»
  6. Cfr. La mente di un uomo di Stato, cap. V, VIII: «Dalle buone leggi nasce la buona educazione.»
  7. Cfr. La mente di un uomo di Stato, cap. II, III: «Le armi si debbono riservare in ultimo luogo, dove, e quando gli altri modi non bastino.»
  8. Cfr. La mente di un uomo di Stato, cap. XI, XX: «Gli uomini non buoni temono sempre che altri non operi contro di loro quello che pare loro meritare.»
  9. Cfr. Divina Commedia, Inferno, XX canto, v. 130.
  10. Cfr. Divina Commedia, Inferno, XXVIII canto, v. 27.
  11. Cfr. Divina Commedia, Inferno, XXV canto, v. 2.
  12. Citato in Criminal Minds, stagione 6, episodio 6, La notte del diavolo: «Niccolò Machiavelli ha scritto: "L'offesa che si fa all'uomo deve essere tanto grande da non temere la vendetta".»
  13. Cfr. Francesco Petrarca, Canzoniere, CXXVII, Italia mia, benché 'l parlar sia indarno: «Vertú contra furore | prenderà l'arme, et fia 'l combatter corto: | ché l'antiquo valore | ne gli italici cor' non è anchor morto.»
  14. Cfr. La mente di un uomo di Stato, cap. II, XII: «Si ricordino i prìncipi, che si cominciano le guerre quando altri vuole, ma non quando altri vuole si finiscono.»
  15. Cfr. La mente di un uomo di Stato, cap. II, IX: «Quella guerra è giusta, che è necessaria.»
  16. Citato in Giuseppe Fumagalli, Chi l'ha detto?, Hoepli, 1921, pp. 52-53.
  17. Il Machiavelli per le disavventure incontrate come uomo «pubblico». [Nota del curatore del libro]

Bibliografia[modifica]

  • Niccolò Machiavelli, Clizia, in Niccolò Machiavelli: Tutte le opere, Sansoni editore, 1971.
  • Niccolò Machiavelli, Decennali, in Opere di Niccolò Machiavelli, Firenze, Gaetano Cambiagi, 1782, volume VI, pp. 351-376.
  • Niccolò Machiavelli, Del modo di trattare i popoli della Valdichiana ribellati, in Opere di Niccolò Machiavelli, Firenze, Gaetano Cambiagi, 1782, volume II, pp. 123-127.
  • Niccolò Machiavelli, Dell'arte della guerra, in Opere di Niccolò Machiavelli, Firenze, Gaetano Cambiagi, 1782, volume II, pp. 177-387.
  • Niccolò Machiavelli, Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, in Tutte le opere di Niccolò Machiavelli, a cura di Mario Martelli, Sansoni Editore, Firenze, 1971.
  • Niccolò Machiavelli, Discorso intorno alla nostra lingua, in Opere di Niccolò Machiavelli, Firenze, Gaetano Cambiagi, 1782, volume VI, pp. 115-130.
  • Niccolò Machiavelli, Favola di Belfagor arcidiavolo, in Opere di Niccolò Machiavelli, Firenze, Gaetano Cambiagi, 1782, volume VI, pp. 131-141.
  • Niccolò Machiavelli, I capitoli, in Opere di Niccolò Machiavelli, Firenze, Gaetano Cambiagi, 1782, volume VI, pp. 412-431.
  • Niccolò Machiavelli, Il Principe, Italia, 1814.
  • Niccolò Machiavelli, Istorie fiorentine, in Niccolò Machiavelli: Tutte le opere, Sansoni editore, 1971.
  • Niccolò Machiavelli, L'Asino, in Opere di Niccolò Machiavelli, Firenze, Gaetano Cambiagi, 1782, volume VI, pp. 377-411.
  • Niccolò Machiavelli, La mandragola, a cura di Guido Davico Bonino, Einaudi, Torino, 1964.
  • Niccolò Machiavelli, La vita di Castruccio Castracani da Lucca, in Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, Nicolò Bettoni, Milano, 1824, pp. 243-282.
  • Niccolò Machiavelli, Lettere, in Opere, a cura di Mario Bonfantini, R. Ricciardi Editore, Milano-Napoli, 2006.

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