Carlo del Balzo
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Carlo del Balzo (1853 – 1908), scrittore, politico e letterato italiano.
Napoli e i napoletani
[modifica]- Se sogno Roma, vedo una piazza infuocata, un obelisco, una fontana, una rovina e una donna formosa; se penso a Firenze, un bel palazzo, una bella via, una bella statua; se penso a Venezia, un canale, una gondola, un palazzo antico, e una schiera di colombi che svolazza intorno a un campanile; se penso a Milano, un masso gigantesco di marmo scolpito, un velo nero sopra una treccia bionda, una piazza animata, una via lontana e quieta, e poi, in là, una sterminata pianura. Ma quando sogno Napoli, vedo una gran luce, un grande azzurro di mare e di cielo m'abbaglia gli occhi e mi sento trascinato da quella vita, che mai non resta, in quel fragore perenne.
Citazioni
[modifica]- Qualunque giorno, a Napoli, vi parrà un giorno straordinario. In prima vi sentirete stordito, in mezzo a gente che non parla ma urla, che gestisce, tanto vivacemente, da parere sul punto di venire alle mani; ma poi, a poco a poco, vi piacerà tanta confusione faccendiera, e sentirete scorrervi più velocemente il sangue nelle vene, e, senza volerlo, vi butterete dietro le spalle ogni cura, e vi parrà che tutta quella gente sia uscita di casa per farvi festa, e in mezzo a quell'aria calda, all'espansione che indovinate intorno a voi, sentirete anche voi il prurito dell'espansione. (p. 2)
- Dopo tanti anni vissuti in Napoli, dopo avervi passato l'adolescenza, a poco a poco, vi ci affezionate con certe voci, con le più simpatiche, con quelle che hanno una certa cadenza graziosa, e le udite con piacere; certe volte, forse, vi lasciano nell'animo un non so che di malinconia, specialmente la sera, in certe ore, come quando passa la cantilena del lupinaio o del maruzzaio, verso la mezzanotte; ma quasi sempre vi distraggono, vi consolano, vi par di udire la voce di un compagno, di un amico, di uno che soffra e speri come voi. (p. 12)
- Napoli è la città allegra per eccellenza. Il lustrascarpe, alla cantonata, tinto, cencioso, aggrinzito, sorride anche lui, e, battendo la spazzola sul dorso della cassetta, grida con tanto di voce: U polimmo![1] e quasi vi pare che sia quello l'ultimo giorno della sua misera vita. Il lazzarone, l'individuo più povero della plebe, con un sorriso arguto sulle labbra e la malizia negli occhi, passa altiero accanto al gran signore, più pronto a ferirlo con dieci epigrammi che a scaraventargli in faccia una bestemmia. L'opulenza e la miseria passano, l'una accanto all'altra, senza guardarsi in cagnesco. Questa tinta generale di allegria, di rassegnazione confidente, di balda giovinezza, costituisce il fascino del movimento e della vita napoletana, la quale ha in se un non so che d'elettricismo, che vi scuote, e, correndovi tutte le fibre, vi rinvigorisce, ne scaccia la tristezza, vi tuffa in un' ora d'oblio. La vita nostra non è monotona e pesante, come quella di un grande stabilimento meccanico, che vi rimbomba nell'orecchio, vi sorprende col suo ordine, e, dopo un pezzo, con l'eguale e misurato attrito di leve, di corregge, di ruote, vi ammalinconisce e vi fa desiderare l'aperto; essa, al contrario, è quella ansiosa e febbrile di un veglione, che vi mette addosso la febbre dell'emozione, vi pizzica le gambe, e vi circonda il cervello di un'atmosfera satura di forza alcoolica. E questa vita di Napoli è immensa, indescrivibile, anche con tutto il colore della scuola veneta; è una confusione rumorosa, quasi eguale di giorno e di notte; e un miscuglio di centomila voci diverse di un esercito di venditori ambulanti; è lo scalpiccio affrettato di un popolo che si affolla ciarliero, vivace, chiassoso, per le sue vie lunghe, strette e serpeggianti; è un rimbombo fragoroso di carrozze innumerevoli, che s'incrociano, si rasentano, s'inseguono, e la sera sembrano tanti fuochi fatui; è l'onda di un gran fiume perennemente ingrossato dalle pioggie e dalle nevi de' monti vicini. Una vita immensa in un ozio immenso. (pp. 17-18)
- [...] in fondo è di buona pasta il nostro popolo così spesso calunniato, e molti dei suoi difetti sono il funesto retaggio di lunghi secoli di servitù e prepotenze d'ogni specie: e pensate che se tanti secoli d'abbrutimento non gli hanno potuto spegnere molti grandi pregi, è segno che la marca di buona fabbrica, non è falsa. (p. 67)
- La chiesa di Santa Maria del Carmine, visitata, un tempo, da cardinali, da baroni, da grandi artisti, che vi entravano, riverenti, per circondarsi dell'aura popolare, ora ha perduto ogni splendore.
Immaginate che una donna bella, celebre e ricca sia stata sformata dall'ingiuria del tempo e degli uomini, e indossi appena pochi cenci, tra i quali comparisca ancora qualche striscia d'oro dell'antica opulenza, e voi avrete un'idea della chiesa del Carmine quale è oggi. La sua storia è varia, drammatica, come la storia avventurosa di una donna bella e infelice. I cadaveri sformati di Corradino e di Federico, in fretta e in furia, appestati di scomunica, furono gettati, giù, senza preci e senza pianto, in una povera fossa, scavata in un luogo prossimo alla piazza, chiamato il Campo Moricino. Margherita, la povera madre di Corradino, pazza quasi per dolore, accorse colà, tenuta in vita dal solo alimento della speranza di vedere il cadavere del figlio e acconciargli una onorevole e lagrimata sepoltura; e, irradiata la sua fronte di madre da questa suprema speranza e dal gran dolore, tanto pregò, tante lagrime sparse, tant'oro gettò nelle mani de' frati carmelitani che li commosse, li tirò a lei. E i frati e il suo dolore piegarono Carlo II d'Angiò, che ordinò si esaudisse il voto della misera. In quel Campo Moricino esisteva una modesta cappella, votata a Santa Maria la Bruna. Margherita vi eresse un tempio. (pp. 81-82) - San Carlino è uno stambugio, San Carlino è un forno, è un teatro impossibile, ma noi altri Napoletani amiamo San Carlino, e, a dirla schietta, quando passiamo per la piazza del Municipio e guardiamo la modesta e piccoletta facciata del regno di Pulcinella, pensando che dovrà sparire per dare agio alla piazza di farsi più bella, sentiamo una strappata al cuore, e tiriamo innanzi, brontolando. È un vecchio amico della nostra infanzia e della nostra adolescenza. Fino a sedici anni siamo andati a ridere con Pulcinella a San Carlino, dai sedici anni in qua siamo andati ai Fiorentini, quando i Fiorentini erano i Fiorentini. Ora andiamo al Sannazzaro, dorato ed elegante, ma con l'animo freddo e il sorriso canzonatorio sul labbro, pronti a criticare ogni cosa, elegantemente annoiati, e se vogliamo rifarci un'ora dell'adolescenza, fiduciosa ed espansiva, ci tocca di scendere nello stambugio di San Carlino, rivedere quei palchetti stretti come gabbie, quelle sedie chiuse, troppo chiuse, rivedere quel piccolo telone, riudire quell'orchestra in miniatura, e rivedere infine il nostro Pulcinella e certi faccioni giovialoni di operai, che vengono a dimenticare i guai in una risata lunga e sonora.
Sono lì tutti i nostri ricordi infantili, quando eravamo felici se la mamma ci concedeva di andarci a sedere, accompagnati dalla cameriera, in quelle sedie strette strette, dove ci credevamo sopra un trono. (p. 107) - [...] Antonio Petito, il Pulcinella[2] più brioso, più spiritoso che siasi visto mai, per cui chi diceva Antonio Petito, diceva Pulcinella, e chi diceva Pulcinella, pareva pronunziasse il nome di Antonio Petito. (p. 108)
- Pulcinella, nato in Acerra da Paolo Cinella, come ci racconta la tradizione, si ficca un po' dappertutto nella vita del popolo napoletano. Pulcinella, col suo berrettone piramidale di lana bianca, con la sua maschera nera dal gran naso, la quale, arrestandosi al labbro superiore, concilia la massima immobilità con la massima mobilità, con la sua camicia bianca e i suoi pantaloni bianchi, più che una maschera fredda ed insipida, è una persona viva ed onnipresente.
Pulcinella è vivo e tutte le altre maschere sono morte. Pulcinella è vivo e Stenterello è morto; Pulcinella è vivo ed è morto Gianduia, ed è morto Arlecchino, ed è morto Pantalone. Oh bella! indaghiamo, un po' insieme, perché Pulcinella è rimasto re assoluto della scena popolare. La ragione è ovvia ed è questa: Pulcinella è la più completa rappresentazione del grottesco.
Mi pare che tutti ora ci siamo intesi sul significato di questa parola. Il grottesco incomincia quando il serio si mesce col ridicolo; quando la figura muore nella caricatura; quando, a dirla con un pittore, alla figura si danno le grucce. Pulcinella è vivo, perché è la caricatura più completa de' pregiudizi, de' vizi e delle abitudini della plebe; perché, in fondo in fondo, al di sotto della sua camicia bianca, si vede l'uomo, torturato dalla lotta di ogni giorno; perché al di sotto della caricatura scappano ancora i lineamenti della figura. E ciascuno, qua e là, vi può leggere un po' di storia umana. (pp. 108-109) - Tutte le altre maschere rappresentavano una parte, sostenevano una fatica, come si direbbe in gergo teatrale; Pulcinella, al contrario, rappresenta tutte le parti, e sostiene tutte le fatiche. Egli è un carattere che non ha carattere, appunto perché non deve esprimere la caricatura di questo e di quello , ma la caricatura dell'uomo. Egli in un momento è furbo, in un altro momento è ottuso; è capace di rubare, senza scrupoli, il suo padrone, ma, un' altra volta, divide con il primo venuto la poca moneta che si trova in saccoccia; ha paura del diavolo, crede ai miracoli, quando gli torna, mena in canzone tutto questo mondo misterioso e spaventevole; ora è insolente ed ora timido; ora ingenuo ed ora consumato nelle arti della seduzione; è geloso e si burla di chi si mostra geloso; è sensuale, ma è capace di sacrificarsi per la fanciulla che ama; ora è egoista ed ora spende le sue astuzie per difendere chi è debole; non sa nulla e fa tutto; è intollerante di freno, eppure serve chi meglio lo paga; lascia la livrea e fa il medico; lascia di fare il medico e fa il poeta, e, se gli capita, anche l'uomo celebre, e sempre per gabbare il prossimo e campar la vita. E cosa è questo guazzabuglio di vizi e di virtù, che cosa è questa perpetua trasformazione? È il cuore umano, nel quale chi crede di sapervi leggere meglio, non sa nemmeno compitarvi; è la lotta per l'esistenza. È la vita umana, sintetizzata in un solo attore, più simbolo che maschera, che ride, ride sempre, perché ridendo può dire la verità. (pp. 109-110)
- Pulcinella è il poeta satirico del popolo. Amleto pensa ed esclama scoraggiato: È questione di essere o di non essere! Pulcinella ride, e, una volta che è, pensa di essere il meglio che è possibile. (p. 110)
- [...] ci è invece una maschera nuova: Sciosciammocca, un giovinastro cretino che ripete tre o quattro volte la medesima parola, e fa delle smorfie caricate, un carattere assurdo, assai poco napoletano, convenzionale, che si mantiene pel gran talento di Eduardo Scarpetta. Pulcinella vi fa ridere e quel riso vi fa buon sangue, ma dopo il riso che vi provoca Sciosciammocca, voi vi sentite irritato o nauseato, come dopo di aver detto una bugia o dopo di essere stato in cattivo luogo. Sciosciammocca morirà con Eduardo Scarpetta, e Pulcinella non è morto con Antonio Petito, che pure ne avea fatto una creazione davvero, profondamente artistica, che difficilmente potrà essere rifatta. (p. 116)
- Solo in Pulcinella si sente tutta la vita e si vede tutto l'uomo. (p. 116)
- San Carlo era ed è ancora il sogno di vecchi e giovani compositori; i suoi applausi equivalgono le corone di alloro che il popolo greco concedeva ai suoi poeti nei giuochi olimpici. San Carlo ha le sue gloriose tradizioni, la sua storia di trionfi, come un vecchio castello del medio-evo è circondato dalle sue famose leggende. Sulle scene di San Carlo, armonico per eccellenza a tutti gli echi vocali e strumentali, si son combattute le più grandi battaglie dell'arte e vi hanno guadagnato il bastone di maresciallo quasi tutti i più celebri compositori. Sulle sue scene gli esordienti, applauditi, nacquero grandi; fischiati, morirono nascendo. (p. 132)
- Il povero scrivano è magro come il suo tavolino, spesso inforca occhiali, ed ha il collo infasciato con una larga cravatta di lana che tende, evidentemente, all'anarchia, i suoi abiti, rattoppati, armonizzano con la veste del tavolino e sono una riconferma che le lettere non dànno pane a discrezione. Lo scrivano, seduto innanzi al suo tavolino, col chiasso della via San Carlo da una parte, e il via vai del teatro da un'altra, d'inverno e di estate, gelato dalla tramontana o bruciato dalla canicola, aspetta imperterrito i suoi avventori, instancabile estensore di una letteratura condannata a non lasciare alcun vestigio di sè, tranne la scarsa soddisfazione dello stomaco di chi la scrive. Povero autore letterato, che è trascinato dalla posizione delle cose ad odiare a morte il maestro elementare, che, magro ed affamato come lui, gli assottiglia, ogni giorno, le schiere dei suoi clienti. (p. 135)
- Oh di quanti reati contro la grammatica e il buon senso quel suo calamaio e quelle sue penne sono stati inconsci complici, avendo rivali in questo, coll'aggravante del dolo, certe penne velenose, che struggendosi nella rabbia dell'impotenza di fare, si affannano a togliere quella fama che esse non hanno.
Eppure questi poveri scrivani, che mettono insieme una lettera per cinque soldi, quanto sono più utili di quegli altri scrivani! Se essi commettono molti errori di sintassi o di lingua, fanno spesso sapere ad una bella fanciulla lontana che il suo innamorato, che fa il soldato, le vuole ancora bene; o annunziano ad una povera vecchia che il figliuolo sta sano e le manda una piccola somma, messa su a furia di privazioni; o fanno sapere ad un giovinetto, che lavora in estranei paesi, che la mamma pensa sempre a lui e che troverà al suo ritorno la sua casetta rifatta. Oh quanti dolori trovano sfogo per quella povera penna dello scrivano! e quanti segreti le sono confidati, segreti che non sono traditi, perché molti e di gente molta e sconosciuta! (pp. 135-139) - Talvolta, passando di là e vedendo che una servetta china il capo in segno di assentimento allo scrivano che legge, ecco, dite tra voi, due persone contente; ma quando vi accorgete che un soldato o un pescivendolo fa segno che non s'è scritto ciò che egli ha detto, non sorridete, compiangendo quel povero letterato, che si curva di nuovo per rendere meglio il pensiero del suo cliente, perché anche a noi che scriviamo per le stampe, direbbe il Manzoni, più d'una volta accade di esprimerci male; e si tratta di pensieri nostri! Il povero scrivano può proprio invocare il traduttore traditore. (p. 139)
- [La Basilica di Santa Restituta] Questa cappella è la più antica fra le cappelle della cattedrale. Essa fu fondata sulle rovine del tempio d'Apollo, da Costantino, nella prima metà del quarto secolo, ed esisteva già, come basilica, da circa quattro secoli, quando il vescovo Stefano, sulle vicinissime rovine del tempio di Nettuno, erigeva la cappella di Santa Stefania che, allargandosi a poco a poco, doveva diventare la cattedrale che ora si vede.
Questo cappellone di Santa Restituta, che contiene otto cappelle laterali, diviso in tre navate da colonne di granito, svelte, antichissime, con eccentricità e bellezze di vari ordini di architettura, con le mura in fondo trasudanti umidità, con la sua veste secolare, ha un'aria di vero misticismo e di un piccolo museo inestimabile, accumulatosi, a poco a poco, attraverso mille vicende. E bene in esso sono tumulati il Mazzocchi, l'Egizio, l'Ignarra, il Bonanno, il Ciampitti, il De Iorio, canonici ai tanti non simili, che tra un salmo e l'altro ricercarono le antiche carte, illustrarono i nostri monumenti, studiarono i nostri costumi, e, con la sapienza latina, corressero i rigori della liturgia. Innamorati delle cose napoletane bene stanno tra dipinti di Silvestro Buono, di Andrea da Salerno, del Curia, e di Luca Giordano, che, nel soffitto, alla brava, con fantasticherie mitologiche, mostra santa Restituta nella barca leggendaria, flagellata dalla tempesta; poderoso affresco che fa contrasto con la lapide al centro del pavimento, dove si veggono, nella loro rigidità ascetica, i ritratti scolpiti di antichi canonici, ivi sepolti. (p. 275)
Note
[modifica]Bibliografia
[modifica]- Carlo del Balzo, Napoli e i napoletani, opera illustrata da Armenise, Dalbono e Matania, Fratelli Treves, Editori, Milano, 1885.
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