Franco Mistrali
Luigi Francesco Corrado (Franco) Mistrali (1833 – 1880), giornalista, scrittore e storico italiano.
Da Palermo a Gaeta: storia popolare della campagna dell'Italia meridionale
[modifica]Nelle poche e affrettate pagine che abbiamo scritte sulla gloriosa epopea di Giuseppe Garibaldi noi ci siamo fermati a Messina.
Presaghi quasi del futuro per la coscienza negli alti destini d'Italia non dubitammo allora di predire che avresslmo in breve ripresa la penna per compier l'opera di narrare al popolo dopo la liberazione di Palermo la liberazione di Napoli; dopo il riscatto della Sicilia il riscatto del regno meridionale; dopo i miracoli di Calatafimi e di Milazzo i miracoli di Piale, di Capua e del Volturno.
Ora legati dalla promessa pel compimento delle previdenze nostre; ora che l' eroe ci grandeggia dinanzi gigante sull'umile suo scoglio di Caprera gittando sulla terra e sul mare una di quelle ombre che sono privilegio dei colossi isterici, da Alessandro a Cesare e a Napoleone; ora, noi ci apprestiamo a sciogliere il voto disegnando a grandi tratti il quadro miracoloso a cui il forte Nizzardo legò il suo nome, che sarà pure il nome del secolo.
Passata la generazione che visse contemporanea alle grandi imprese, cessate le ire, morte cogli uomini le passioni che accecano, sarà opera grande di grande ingegno questo racconto.
La imparzialità dello storico libero dalle presenti pastoje, potrà, dicendo il vero, ristabilire equamente giudici di cose e di persone.
Citazioni
[modifica]- La severa uguaglianza della morte ridarà a ciascuno il suo: la codardia della attossicata calunnia compagna infesta della vita rifugge dalla maestà dei sepolcri. (p. 6)
- L'ingratitudine dei popoli ha questo di buono che essa muore colla generazione ingrata a cui si accompagna inesorabile onta funerale. (p. 6)
- Maso Aniello il pescatore di Amalfi, il forte popolano di mercato, sorge a personificare l'onnipotenza della rivoluzione.
Sorge, combatte, trionfa.
L'albagia dello straniero si piega dinanzi al capitano vincitore della libertà.
La fierezza castigliana si umiglia dinnanzi al pescatore fatto padrone di un regno. (pp. 6-7) - [Caprera] Qual regno della terra sarà maggiore di te o perduta isoletta? (p. 8)
- Ora da Caprera sull'ala degli itali venti due grandi sventure ti mandano ricordanza di sé:
Roma e Venezia.
Roma, la eterna Solima delle genti latine: la madre di quel Scipione e di quel Cincinnato che il tuo genio ti fece parenti: Roma che dettò all'universo la ragione della civiltà: Roma che piange l'onta secolare di una corrotta teocrazia: Roma che ti ricorda sulle sue mura, più grande nella disfatta di quello che fosse mai capitano nella vittoria. (p. 8) - Molti uomini hanno colla potente individualità rifatto un regno e risuscitata una nazione, ma da Cristo in poi, o Giuseppe Garibaldi, tu sei l'unico che abbia impugnata la gran causa di tutta quanta l'umanità. (p. 9)
- Un uomo insigne per ingegno e per devozione alla patria vive ancora bandito dalla sua terra. Calunniato e levato a cielo ad un tempo, Giuseppe Mazzini ebbe forse, come tutti gli uomini grandi e superiori alla comunanza delle genti, la sventura somma di non essere compreso né da' suoi adoratori né da' suoi detrattori. I detrattori ce lo dipingono un pazzo utopista che fa della politica una scienza astrusa peggiore dell'algebra; gli adoratori invece, [...], non giurano che in nome suo, non parlano che a frasi inventate da lui, non ammettono altri al mondo che lui, e fanno di un uomo eminente e di ingegno sovrano la meschina figura di un profeta spostato. (p. 34)
- È molte volte vano parlare di pacato animo e di giusto criterio in mezzo alle fazioni, dove soventi quella fazione che ha il potere di fatto nelle mani con malo modo se ne giova a soperchiare e a vincere se non per diritto per forza. (p. 42)
- Napoli è uno strano paese!
Disteso come un Re orientale sul tappeto del più bel verde che si possa vedere, coi piedi sull'azzurro e limpido Tirreno col capo sul fianco dell'ardente Vesuvio, non v'ha città al mondo che possa rivaleggiare colla capitale della Italia del mezzodì.
Non v'ha mare più ridente, non v' ha cielo più sereno, non v'ha terra più feconda di frutti e di fiori.
Tutto è bello e tutto è grande qui. Questo popolo che sonnecchia, che si lascia calpestare con una pazienza che ha del dromedario del deserto il quale soccombe sotto al peso senza muover lamento, quando l'ora della rivoluzione lo ha scosso diventa d'un tratto tigre e pantera.
Non v'ha gente al mondo che sia stata oppressa di più.
La tirannide dei Viceré Spagnuoli avea appena lasciato a quel popolo gli occhi per piangere. (p. 43) - II miracolo di San Gennaro fu sempre e sarà per molto tempo, un affare[1] maggiore per la grande famiglia del popolo napoletano.
Lo sanno tutti i Governi che hanno regnato su quella terra, dove è più facile tiranneggiare gli uomini che emanciparli.
II regno Borbonico fu più che altro una serie di supplizii.
Un mare di sangue affogava quella dinastia, abborrita più per legittima rivendicazione di tanti martiri che per senso perfetto di nazionalità.
Francesco II salito giovanotto al trono poteva salvarsi. (p. 44)
Note
[modifica]- ↑ Nella fonte: un'affare
Bibliografia
[modifica]- Franco Mistrali, Da Palermo a Gaeta: storia popolare della campagna dell'Italia meridionale, Francesco Pagnoni Tipografo Editore, Milano, 1861.
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