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Joseph Roth

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Joseph Roth, 1918

Joseph Roth (1894 – 1939), scrittore e giornalista austriaco.

Citazioni di Joseph Roth

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  • Ci vuole molto tempo prima che le persone trovino la loro faccia. Non sembrano nate col loro viso, con la loro fronte, col loro naso, coi loro occhi. Acquistano tutto con l'andar del tempo, ed è una cosa lunga, si deve aver pazienza finché non hanno cercato e messo insieme quel che va bene.[1]
  • Così era allora! Tutto ciò che cresceva aveva bisogno di tanto tempo per crescere; e tutto ciò che finiva aveva bisogno di lungo tempo per essere dimenticato. Ma tutto ciò che un giorno era esistito aveva lasciato le sue tracce, e in quell'epoca si viveva di ricordi come oggigiorno si vive della capacità di dimenticare alla svelta e senza esitazione.[2]
  • E allora, in quel giorno[3] percepii per la prima volta (e per l'unica volta) la verità della metafora così spesso e banalmente abusata: il cielo piange. Il mio cuore, certamente più piccolo del cielo, allora piangeva in modo più violento di lui; e neppure l'imperialregio regolamento di servizio, che allora regolava, reprimeva, mitigava i miei sentimenti, poteva impedirmi di piangere.[4]
  • Ecco quel che sono veramente; cattivo, sbronzo, ma in gamba.[5]
  • I più pericolosi animali da preda della civiltà, le grandi bobine di carta da giornale.[6]
  • Passato è il tempo delle gesta eroiche: questo è il tempo dei diligenti lavori burocratici. Passato è il tempo delle epopee: questo è il tempo delle statistiche.[7]

Confessione di un assassino

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Alcuni anni fa abitavo nella rue des Quatre-Vents. Di fronte alle mie finestre c'era il ristorante russo Tari-Bari. Spesso andavo lì a mangiare.[8]

Citazioni

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  • La vita privata, ciò che è semplicemente umano, è più importante, più grande, più tragico di tutto ciò che è pubblico. E questo può forse sembrare assurdo agli orecchi di oggi. Ma è quel che credo, quel che crederò fino alla mia ultima ora. (p. 16)
  • Era una magnifica giornata di primavera quando arrivai. Per la prima volta vedevo una grande città. Non era una metropoli russa qualsiasi: in primo luogo aveva un porto, e inoltre la maggior parte delle strade e dei giardini, come già avevo udito, era stata progettata, in tutto e per tutto, su modelli europei. Forse Odessa non poteva essere paragonata a Pietroburgo, quella Pietroburgo che viveva nella mia immaginazione. Ma anche Odessa era una grande, gigantesca città. Era sul mare. Aveva un porto. (p. 28)
  • A quei tempi volevo ancora l'inferno sulla terra, ero cioè assetato di giustizia. E colui che vuole la giustizia assoluta è preda della sete di vendetta. (p. 55)
  • Solo molto più tardi ho imparato che le parole sono più potenti delle azioni – e spesso rido quando sento l'amata frase: "Fatti e non parole!". Quanto sono deboli i fatti! Una parola rimane, un fatto passa! Di un fatto può essere autore anche un cane, ma una parola può essere pronunciata soltanto da un uomo. (p. 57)
  • Che cosa me ne importa dei grandi di questo mondo? (pp. 76-77)
  • La bellezza appare sempre degna di fede. Il diavolo, che determina il giudizio degli uomini sulle donne, lotta fianco a fianco di quelle belle e piacenti. Alla verità di una donna brutta si crede di rado, ma con una donna bella si crede a tutto ciò che può inventare. (p. 103)

Il giorno stesso lasciavo il mio appartamento nella rue des Quatre-Vents. Non ho più rivisto Golubcik e nemmeno uno di quegli uomini che avevano ascoltato la sua storia. (p. 156)

Ebrei erranti

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Questo libro rinuncia al plauso e al consenso, come pure alla protesta e persino alla critica di coloro che detestano, disprezzano, odiano e perseguitano gli ebrei orientali. Né si rivolge a quegli ebrei occidentali che, solo perché cresciuti fra ascensore e water-closet, si credono in diritto di raccontare storielle insulse su pidocchi rumeni, cimici galiziane e pulci russe. Questo libro rinuncia a quei lettori «obiettivi» che dall'alto delle torri traballanti della civiltà occidentale sbirciano con comoda e acida benevolenza il vicino Oriente e i suoi abitanti; che per puro umanitarismo deplorano l'insufficienza delle fognature e per timore di essere contagiati rinchiudono gli emigranti poveri in baracche in cui la soluzione di un problema sociale è affidata alla morte in massa. Questo libro non vuole essere letto da coloro che rinnegano i propri padri o antenati scampati alle baracche per puro caso. Né è scritto per quei lettori che accuserebbero l'autore di trattare il suo tema con amore invece che con quella «obiettività scientifica» che è anche detta noia.
A chi dunque è destinato questo libro?

Citazioni

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  • La beneficenza appaga in primo luogo lo stesso benefattore.
  • La gioia può essere violenta non meno del dolore.
  • Religione e buona creanza proibiscono qualsiasi violenza, proibiscono insurrezioni e rivolte e persino manifestazioni esplicite di odio e di rancore.
  • Per gli artisti il mondo è uguale dappertutto.
  • Tutti dovrebbero guardare con rispetto come un popolo venga liberato dall'umiliazione di infliggere la sofferenza; come la vittima sia riscattata dal suo tormento e l'aguzzino dalla maledizione, che è peggio di qualsiasi tormento.

Se la questione ebraica verrà risolta in Russia essa sarà risolta per metà in tutti i paesi. (Emigranti ebrei dalla Russia quasi non ce ne sono ancora, ci sono piuttosto immigranti ebrei). Il fideismo delle masse sta diminuendo a rapidi passi, le solide barriere della religione stanno cadendo, le più fragili barriere nazionali le sostituiscono con difficoltà. Ammesso che questo processo continui, l'epoca del sionismo passerà, come l'epoca dell'antisemitismo – e così pure, forse, quella dell'ebraismo. Alcuni saranno contenti, altri si rammaricheranno. Ma tutti dovrebbero guardare con rispetto come un popolo venga liberato dall'umiliazione di soffrire e un altro popolo dall'umiliazione di infliggere la sofferenza; come la vittima sia riscattata dal suo tormento e l'aguzzino dalla maledizione, che è peggio di qualsiasi tormento.
È questa una grande impresa della rivoluzione russa.

Il profeta muto

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La notte di San Silvestro fra il 1926 e il 1927 mi trovavo con alcuni amici e conoscenti nella camera numero nove dell'Hotel Bolshaja Moskovskaja a Mosca. Per alcuni dei presenti questo modo di festeggiare, in privato, l'inizio dell'anno nuovo era il solo possibile. Non erano certo i loro princìpi a trattenerli dal dare pubblica dimostrazione della voglia di far festa. Ma dovevano stare attenti e temere l'attenzione altrui. Non potevano né mescolarsi agli stranieri, né ai cittadini del paese, e per quanto l'uno o l'altro di loro, per amore della propria idea, avesse già svolto spesso e a lungo la funzione dell'osservatore, stava ora bene in guardia, e con ragione, per non diventare lui stesso oggetto di osservazione.

Citazioni

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  • Anche lì, quelli del posto mostravano odio verso gli immigrati; ogni nuovo povero che arrivava – e ogni settimana ne arrivavano – era accolto con la stessa ostilità con cui un tempo loro stessi erano stati accolti.
  • Aveva appena superato una barriera. Grazie a un ridicolo esame era ormai socialmente abile. Poteva diventare tutto: un difensore dell'umanità, ma anche il suo oppressore; un generale e un ministro; un cardinale, un uomo politico, un tribuno del popolo.
  • Solo negli occhi di alcuni studenti ebrei brillava un'intelligente, astuta o anche folle afflizione. Ma era la tristezza del sangue, di tutt'un popolo, trasmessa in eredità all'individuo e da questi acquisito senza rischio.
  • E, simili a due giovanotti di mondo, parlarono di cravatte, cappelli, giacche a doppio petto e a un petto, come se non ci fosse la guerra e come se non fossero lì per aspettare la rivoluzione.
  • È più facile morire per le masse che viverci insieme.
  • La vita sta nei concetti come un bambino cresciuto negli abiti troppo corti. Un'unica ora di vita è fatta di migliaia di inesplicabili impulsi dei nervi, dei muscoli, del cervello, e un'unica, grossa, vuota parola pretende di esprimerli tutti.
  • «È misterioso,» disse Berzejev a Friedrich quando furono nella loro camera d'albergo «come i singoli, che però formano la massa, rinuncino alle loro qualità, perdano persino i loro istinti primari. Il singolo ama la propria vita e teme la morte. Tutti insieme fanno spreco della vita e disprezzano la morte. Il singolo non vuole andar soldato né pagare le tasse. Insieme, vanno volontari e vuotano le loro tasche. E una cosa è autentica come l'altra».
  • Non era in grado di capire la stretta relazione fra patriottismo e rischio della vita. Non si rendeva conto che la morte, e non l'offerta di un diversivo, era l'immediata conseguenza della guerra. A stento sapeva – come del resto molti suoi pari – che la locuzione «Caduto sul campo dell'onore» significava anche l'irrimediabile fine del caduto.
  • [Kargan scrive a Hilde] Se le dico che non andrò soldato per combattere a pro del Suo Francesco Giuseppe, dell'industria bellica francese, dello Zar, del Kaiser Guglielmo, non è che io tema per la mia vita, ma che la voglio conservare per una guerra migliore. Questa guerra io l'aspetterò in Svizzera. Sarà una guerra contro la società, contro le patrie, contro i poeti e i pittori che frequentano la Sua casa, contro le care famiglie, contro la falsa autorità dei padri e la falsa ubbidienza dei figli, contro il progresso e contro la Sua emancipazione, insomma contro la borghesia.
  • C'era la parola «libertà»! Una parola incommensurabile come il cielo, irraggiungibile da mano umana come un astro. Eppure creata dalla brama degli uomini, che hanno sempre e sempre di nuovo cercato di afferrarla, e intrisa del sangue vermiglio di milioni di morti.
  • Con quella fulminea intelligenza di cui si è dotati solo nei momenti di pericolo mortale, lui comprese le leggi sconosciute della strategia militare.
  • Non sapeva che i corrispondenti di dieci grandi giornali telegrafavano il suo nome ogni volta che non sapevano cos'altro comunicare, e che di lui s'impadroniva la potente macchina dell'opinione pubblica, quel meccanismo che fabbrica sensazioni, il materiale grezzo della storia mondiale.
  • Non sapeva che per fare buoni affari ci volevano generazioni di gente martoriata e pogromizzata, di avi rinchiusi nel ghetto e costretti a fare i banchieri.
  • Come gli ebrei, che si voltano sempre a oriente quando pregano, i rivoluzionari andavano sempre verso destra quando cominciavano a esercitare un'attività pubblica.
  • La rivoluzione restava sempre a sinistra, solo i suoi rappresentanti si spostavano sempre a destra.
  • Imparò a conoscere per la prima volta in vita sua la malattia, la benefica coercizione delle sue mani delicate, la sensazione meravigliosamente ingannevole di potersi alzare, ma di non volersi sollevare dal letto, la capacità di stare disteso e allo stesso tempo di librarsi, la forza che viene dall'abbandono come la grazia dalla sventura, e il muto dialogo con il cielo, che vasto e grigio empiva la finestra della stanza situata in alto, unico ospite dal mondo esterno.
  • La fisarmonica riversava allegre marce nella sala illuminata, era lo strumento della sfrenata malinconia.
  • La gioia di avere un tempo sofferto per una grande idea e per l'umanità continua a determinare le nostre decisioni anche dopo molto tempo che il dubbio ci ha reso chiaroveggenti, consapevoli e senza speranza.

Poiché, secondo la nostra opinione, si addice all'uomo deluso reprimere la propria nostalgia per la solitudine e resistere con coraggio al vuoto chiassoso del presente. Per gli spettatori convinti e senza speranze come Friedrich esso ha disponibili tutte le gioie: l'odore marcio d'acqua e pesci nelle viuzze tortuose delle vecchie città portuali, lo splendore paradisiaco di luci e specchi nelle cantine dove ballano ragazze imbellettate e azzurri marinai, il giubilo malinconico della fisarmonica, organo profano del piacere popolare, il pazzo e bel frastuono delle grandi strade e piazze, fiumi e laghi d'asfalto, i segnali luminosi verdi e rossi nelle stazioni, vestiboli di vetro della nostalgia. E infine l'aspra e fiera malinconia di un solitario che vaga ai margini delle gioie, delle follie e dei dolori...

La Cripta dei Cappuccini

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Il nostro nome è Trotta. La nostra casata è originaria di Sipolje, in Slovenia. Casata, dico; perché noi non siamo una famiglia. Sipolje non esiste più, da tempo ormai. Oggi, insieme con parecchi comuni limitrofi, forma un centro più grosso. Si sa, è la volontà dei tempi. Gli uomini non sanno stare soli. Si uniscono in assurdi aggruppamenti, e soli non sanno stare neanche i villaggi. Nascono così entità assurde. I contadini sono attratti dalla città e gli stessi villaggi aspirano per l'appunto a diventare città.

Citazioni

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  • Aveva una voce profonda e morbida. (Io non posso soffrire le voci femminili acute e stridule). Il suo parlare mi ricordava una sorta di smorzato tubare, contenuto, casto e nondimeno torrido, un mormorare di fonti sotterranee, il lontano rullare di treni lontani, che talvolta si sente nelle notti insonni, e la più banale delle sue parole acquistava per me, grazie a questa profondità del timbro col quale veniva pronunciata, la pienezza, il vigore espressivo di un remoto linguaggio primitivo, non esattamente comprensibile ma certo chiaramente intuibile, scomparso, forse una volta vagamente inteso in sogno. (cap. V, p. 21)
  • Diceva «i miei ebrei polacchi» con lo stesso tono col quale tante volte in mia presenza aveva detto: i miei beni, i miei van Gogh, la mia collezione di strumenti musicali. Avevo la chiara sensazione che, almeno in parte, tenesse in così gran conto gli ebrei perché li considerava una sua proprietà. Pareva quasi che fossero venuti al mondo in Galizia non per volontà di Dio, ma perché egli li aveva personalmente ordinati all'Onnipotente, così come era solito ordinare tappeti persiani al noto commerciante Pollitzer, pappagalli all'uccellaio italiano Scapini e rari strumenti antichi al liutaio Grossauer. (cap. VI, p. 31)
  • Mentre statuisce dei peccati, già li perdona. Non ammette assolutamente uomini perfetti: questo è il suo contenuto eminentemente umano. I suoi figli perfetti essa li santifica. Con questo ammette implicitamente l'imperfezione degli uomini. Anzi, ammette l'inclinazione al peccato nella misura in cui non considera più come umani quegli esseri che al peccato non sono soggetti: questi diventano beati o santi. Con ciò la Chiesa romana dà testimonianza della sua fondamentale propensione al perdono, alla remissione. (cap. VII, p. 36)
  • La nostra vita prima della guerra era idilliaca e già un viaggio nella lontana Zlotogrod sembrava a noi tutti un'avventura. (cap. VIII, p. 38)
  • Pure, per quanto fossi preparato all'ignoto, e anzi a qualcosa di estremamente remoto, il più mi parve consueto e familiare. Solo molto più tardi, molto tempo dopo la grande guerra che giustamente, a mio parere, viene chiamata "guerra mondiale", e non già perché l'ha fatta tutto il mondo, ma perché noi tutti, in seguito ad essa, abbiamo perduto un mondo, il nostro mondo, solo molto più tardi, dicevo, dovevo accorgermi che perfino i paesaggi, i campi, le nazioni, le razze, le capanne e i caffè del genere più diverso e della più diversa origine devono sottostare alla legge del tutto naturale di uno spirito potente che è in grado di accostare ciò che è distante, di rendere affine l'estraneo e di conciliare l'apparentemente divergente. Parlo del frainteso e anche abusato spirito della vecchia monarchia, che in questo caso faceva sì che io fossi di casa a Zlotogrod non meno che a Sipolje o a Vienna. (cap. IX, p. 44)
  • Sopra i calici dai quali noi bevevamo la morte invisibile incrociava già le sue mani ossute. (cap. IX, p. 46)
  • Nel momento in cui fu lì, inevitabile, davanti a me, capii subito – e credo che anche tutti i miei amici l'avessero capito all'istante come me – che perfino una morte assurda era preferibile a una vita assurda. (cap. XI, p. 53)
  • Svaniti e dimenticati al cospetto della morte erano tutti i miei stolti timori per le stolte beffe dei miei amici. (cap. XIII, p. 61)
  • Per prima cosa, com'era ovvio, ritornai a casa, da mia madre. Era chiaro che non doveva quasi più contare di rivedermi, ma si comportò come se mi avesse aspettato. È uno dei segreti delle madri: non rinunciano mai alla speranza di rivedere i loro figli, non solo quelli creduti morti, ma anche quelli morti per davvero; e se fosse possibile che un figlio morto risorgesse davanti a sua madre, lei se lo stringerebbe così naturalmente fra le braccia, come se non fosse ritornato dal mondo di là, ma da una delle lontane contrade di questo mondo. Sempre una madre aspetta il ritorno di suo figlio, del tutto indifferente se questi se n'è andato in un paese lontano, in uno vicino o nella morte. (cap. XIII, pp. 62-63)
  • Avrei voluto buttarmi in ginocchio dalla commozione. Ma allora ero ancora troppo giovane per dimostrare commozione senza vergogna. E da quella volta mi sono reso conto che bisogna essere ben maturi e perlomeno avere molta esperienza per mostrare un sentimento senza l'impedimento della vergogna. (cap. XIII, p. 64)
  • Attraverso i tendaggi di seta rosso scuro la luce del giorno, delicatamente smorzata, fluiva nella stanza come un ospite silenzioso, quasi in abito da cerimonia. Anche la mano pallidissima di mia madre riluceva rossastra in una sorta di scarlatto verecondo, una mano benedetta in un guanto trasparente di filtrato sole. (1998, cap. XIII, p. 69)
  • Ma c'era Elisabeth. C'era il suo sorriso, che mandava come una luce davanti a lei e incontro a me, una luce, nata da lei e apparentemente eterna, giacché di continuo si rigenerava, una gioia argentina che pareva squillare per quanto fosse muta. (cap. XIV, p. 68)
  • Ma in noi, la generazione fin dalla nascita votata alla guerra, l'istinto di procreare si era visibilmente spento. (cap. XV, p. 71)
  • La variopinta allegrezza della città capitale e residenza imperiale si nutriva molto chiaramente – mio padre l'aveva detto tante volte – del tragico amore dei paesi della Corona per l'Austria: tragico, perché eternamente non ricambiato. (cap. XV, p. 75)
  • L'illecito ha vita corta, il lecito è a priori già di per sé duraturo. (cap. XVIII, p. 87)
  • La mia vecchia mamma, col suo vecchio bastone nero, teneva lontano il disordine. (cap. XXIII, p. 119)
  • Ma io dovevo difendere Elisabeth, cosa avrebbe pensato mia madre se io non lo facevo? Era mia moglie, tornavo ora dal nostro amplesso, sentivo ancora nel cavo della mano la levigata freschezza del suo seno giovane, respiravo ancora il profumo del suo corpo, ancora si rifletteva nei miei occhi l'immagine del suo volto con gli occhi semichiusi persi nella beatitudine, e sulla mia bocca posava il sigillo delle sue labbra. Dovevo difenderla – e mentre la difendevo cominciai ad amarla di nuovo. (cap. XXVI, p. 137)
  • Tutti noi avevamo perso rango e posizione e nome, casa e denaro e valori: passato, presente, futuri. Ogni mattina quando aprivamo gli occhi, ogni notte quando ci mettevamo a dormire imprecavamo alla morte che invano ci aveva attirato alla sua festa grandiosa. E ognuno di noi invidiava i caduti. Riposavano sotto terra e la primavera ventura dalle loro ossa sarebbero nate le violette. Noi invece eravamo tornati a casa disperatamente sterili, coi lombi fiaccati, una generazione votata alla morte, che la morte aveva sdegnato. Il reperto della commissione di arruolamento era irrevocabile. Diceva: «Giudicati inabili alla morte». (cap. XXVI, p. 141)
  • Scherzavamo e ridevamo spesso. Spendevamo del denaro che a malapena ci apparteneva ancora, ma che pure a malapena aveva ancora un valore. Si dava a credito e si prendeva a credito, accettavamo doni e ne facevamo, restavamo debitori e pagavamo debiti altrui. Così vivranno gli uomini il giorno prima del giudizio universale, succhiando nettare dai fiori velenosi, lodando il sole che si spegne come dispensatore di vita, baciando la terra che si dissecca come madre della fertilità. (cap. XXVII, pp. 143-144)
  • Com'è caritatevole la natura! I malanni che essa regala alla vecchiaia sono una grazia. Oblio ci regala, sordità e occhi deboli, quando si diventa vecchi; un poco di confusione anche, poco prima della morte. Le ombre da cui questa si fa precedere sono fresche e caritatevoli. (cap. XXVIII, p. 158)
  • Allora seppi per la prima volta perché le donne amano case e stanze più dei loro mariti. Per prima cosa, le donne preparano il nido per la discendenza. Con inconscia malizia avviluppano l'uomo in una rete inestricabile di piccoli doveri quotidiani, ai quali egli non sfuggirà più. Dormivo dunque nella nostra casa, a fianco di mia moglie. Era la mia casa. Era mia moglie. Sì, il letto diventa una casa segreta dentro la casa in vista, la casa palese, e la donna che lì ci aspetta la si ama semplicemente perché è lì disponibile. È lì e disponibile, a ogni ora della notte, in qualunque momento si torni a casa. Di conseguenza la si ama. Si ama ciò che è sicuro. Si ama in ispecie ciò che aspetta, ciò che pazienta. (cap. XXX, p. 165)
  • «Questo è solo un caldarrostaio,» disse Chojnicki «ma vedete? È addirittura un mestiere simbolico. Simbolico per la vecchia monarchia. Questo signore ha venduto le sue castagne ovunque, in metà dell'Europa si può dire. Dappertutto, ovunque si mangiassero le sue caldarroste, era Austria, governava Francesco Giuseppe. Oggi niente più caldarroste senza visto. Che razza di mondo! Me ne infischio della vostra pensione. Io vado a Steinhof, da mio fratello!». (cap. XXX, p. 168)
  • Sono esistiti milioni e miliardi di padri, dacché esiste il mondo. Io ero uno fra miliardi. Ma nell'istante in cui potei prendere fra le braccia mio figlio, provai un lontano riflesso di quella ineffabile sublime beatitudine che dovette colmare il Creatore il sesto giorno, quando Egli vide la sua opera imperfetta pur tuttavia compiuta. Mentre tenevo fra le mie braccia quella cosina minuscola, urlante, brutta e paonazza, sentivo chiaramente quale mutamento stava avvenendo in me. Per piccola, brutta e rossastra che fosse la cosa fra le mie braccia, da essa emanava una forza indicibile. E più: era come se in questo povero tenero corpicino si fosse accumulata tutta la mia forza, come se tenessi in mano me stesso e il meglio di me. (cap. XXXI, p. 172)
  • Io vendetti la casa. Mantenni solo la pensione.
    Fu come se la morte di mia madre avesse cacciato tutti i miei amici da casa nostra. Se ne andarono, uno dopo l'altro. Ormai ci incontravamo solo al caffè Wimmerl.
    Mio figlio soltanto viveva ancora, per me. «Chi uccide» aveva detto Manes Reisiger «sarà ucciso».
    Non mi curai più del mondo. Mio figlio lo mandai dal mio amico Laveraville a Parigi.
    Restai solo, solo, solo.
    Andavo alla Cripta dei Cappuccini. (cap. XXXIII, pp. 182-183)
  • Escluso in mezzo ai vivi significa qualcosa come: extraterritoriale. Ero appunto un extraterritoriale in mezzo ai vivi. (cap. XXXIV, p. 187)
  • Io non amo le bestie e ancor meno quelle persone che amano le bestie. In tutta la mia vita mi è sembrato che le persone che amano le bestie sottraggano una parte dell’amore agli uomini, e particolarmente giustificato mi è apparso il mio punto di vista quando per caso ho saputo che i tedeschi del Terzo Reich amano i cani lupo, i cani da pastore tedeschi. (1998, cap. XXXIV, p. 194)

L'alba spuntava su quelle croci totalmente estranee. Trascorreva un vento leggero e faceva dondolare i vecchi lampioni che ancora non si erano spenti, non questa notte. Camminavo per strade deserte, con un cane sconosciuto. Era deciso a seguirmi. Dove? – Io ne sapevo quanto lui.
La Cripta dei Cappuccini, dove giacciono i miei imperatori, sepolti in sarcofaghi di pietra, era chiusa. Il frate cappuccino mi venne incontro e disse: «Che cosa desidera?».
«Voglio visitare il sarcofago del mio imperatore Francesco Giuseppe» risposi.
«Dio la benedica!» disse il frate, e fece sopra di me il segno della croce.
«Dio conservi!» gridai.
«Zitto!» disse il frate.
Dove devo andare, ora, io, un Trotta?...

La leggenda del santo bevitore

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Una sera di primavera dell'anno 1934 un signore di età matura scese gli scalini di pietra che da uno dei ponti della Senna conducono alle rive del fiume. Là sono soliti dormire, o meglio accamparsi, i vagabondi di Parigi, cosa nota quasi a tutti, ma che pur merita ricordare in questa occasione.
Uno di tali vagabondi veniva per caso incontro al signore maturo che, del resto, era vestito bene e dava l'impressione di un viaggiatore curioso di visitare i luoghi caratteristici di una città straniera.

Citazioni

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  • Conceda Dio a tutti noi, a noi bevitori, una morte così lieve e bella!

Incipit di alcune opere

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Giobbe

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Molti anni fa viveva a Zuchnow un uomo che si chiamava Mendel Singer.
Era devoto, timorato di Dio e simile agli altri, un comunissimo ebreo.
Esercitava la semplice professione del maestro. Nella sua casa, che consisteva tutta in un'ampia cucina, faceva conoscere la Bibbia ai bambini. Insegnava con onesto zelo e senza vistosi successi. Migliaia e migliaia prima di lui avevano vissuto e insegnato nello stesso modo.

Il peso falso

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C'era una volta nel distretto di Zlotogrod un verificatore di pesi e delle misure che si chiamava Anselmo Eibenschütz. Egli aveva l'incarico di controllare i pesi e le misure dei negozianti in tutta quella regione. A determinati intervalli Eibenschütz andava dunque da bottega in bottega all'altra a esaminare i metri, le bilance, i pesi. L'accompagnava un sergente dei gendarmi fieramente armato. Così lo stato dava a conoscere che all'occorrenza avrebbe punito a mano armata i falsari, fedele al detto della Sacra Scrittura, secondo il quale chi è falsario è ladro...[9]

Viaggio in Russia

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Signori, questa sera mi sforzerò di dimostrarvi che la borghesia è immortale. La più crudele di tutte le rivoluzioni, la rivoluzione bolscevica, non è stata in grado di annientarla. E non basta: questa crudele rivoluzione bolscevica ha creato il proprio borghese.

Note

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  1. Da Fuga senza fine, cap. XXII.
  2. Da La Marcia di Radetzky, cap VIII.
  3. Giorno della sepoltura dell'imperatore Francesco Giuseppe I nella Cripta dei cappuccini.
  4. Da Autodafé dello spirito.
  5. Dall'appunto autografo a un ritratto dell'amica Mies Blomsma, Parigi, novembre 1938; da La leggenda del santo bevitore, traduzione di Chiara Colli Staude, Adelphi, Milano, 2012, tavola fuori testo.
  6. Da Tarabas.
  7. Da Viaggio in Russia.
  8. Citato in Giacomo Papi, Federica Presutto, Riccardo Renzi, Antonio Stella, Incipit, Skira, 2018. ISBN 9788857238937
  9. Citato in Fruttero & Lucentini, Íncipit, Mondadori, 1993.

Bibliografia

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  • Joseph Roth, Autodafé dello spirito, a cura di Susi Aigner, Castelvecchi, 2013.
  • Joseph Roth, Confessione di un assassino, raccontata in una notte, traduzione di Barbara Griffini, Adelphi, 1982.
  • Joseph Roth, Ebrei erranti, traduzione di Flaminia Bussotti, Adelphi, 1985.
  • Joseph Roth, Fuga senza fine, traduzione di Maria Grazia Mannucci, Adelphi, Milano, 2012. ISBN 978-88-459-7188-4
  • Jospeh Roth, Giobbe. Romanzo di un uomo semplice, traduzione di Laura Terreni, Bompiani, 1977.
  • Joseph Roth, Il peso falso (Das Falsche Gewicht), traduzione di Ervino Pocar, Arnoldo Mondadori Editore, 1980.
  • Joseph Roth, Il profeta muto (Der stumme Prophet), traduzione di Laura Terreni, Adelphi Edizioni, 1978.
  • Joseph Roth, La Cripta dei Cappuccini (Die Kapuzinergruft), traduzione di Laura Terreni, La Biblioteca di Repubblica, 2002. ISBN 84-8130-480-8
  • Joseph Roth, La Cripta dei Cappuccini, traduzione di Laura Terreni, Adelphi, Milano, 19987. ISBN 88-459-0712-0
  • Joseph Roth, La leggenda del santo bevitore (Die Legende vom heilingen Trinker), traduzione di Chiara Colli Staude, Edizioni CDE, Milano, 1988.
  • Joseph Roth, La Marcia di Radetzky, traduzione di Laura Terreni e Luciano Foà, Adelphi, Milano, 2011. ISBN 978-88-459-7013-9
  • Joseph Roth, Tarabas. Un ospite su questa terra, traduzione di Luciano Fabbri, Adelphi, Milano, 2015. ISBN 978-88-459-7715-2
  • Joseph Roth, Viaggio in Russia, traduzione di Andrea Casalegno, Adelphi, 1981.

Altri progetti

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Opere

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