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Margarete Wallmann

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Margarete Wallmann

Margarete Wallmann detta anche Margarethe, Margherita o Margarita (1904 – 1992), ballerina, coreografa e regista d'opera austriaca.

Balconate del cielo

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Da quando datano i miei più lontani ricordi, fin dala mia più tenera infanzia, ho sempre desiderato diventare ballerina.. Ballerina o monaca.
Quando andavamo a spasso per le strade di Vienna, se accadeva che incontrassimo le suore di un convento, chiedevo a mia madre in tono semplice:
«Mamma, comprami un abito lungo, lo voglio proprio preciso a quello!» Contrariata, lei si limitava a commentare con un sospiro: «Questa bambina è proprio strana! Vorrebbe esser sempre vestita come sua nonna!...»

Citazioni

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  • Negli anni della mia giovinezza è esistito per me un unico musicista degno di figurare nel Parnaso dei direttori d'orchestra: Bruno Walter. Una predilizione dovuta alle sue sublimi qualità d'interprete, certo, ma anche alla sua superiore spiritualità, alla sua cultura di portata universale, all'etica trascendentale che emanava dalle sue esecuzioni. (p. 9)
  • Gustav Mahler è stato il primo fra i grandi direttori ad aver compreso la necessità d'identificare al massimo ciò che si vede e ciò che si sente. Nel corso di tutta la sua vita, Walter non ha cessato di sviluppare questo concetto, e debbo a lui se, all'alba della mia carriera di regista, ho pienamente percepito il senso della «visione» mahleriana. (p. 13)
  • Durante l'intervallo di uno spettacolo, per il quale si era prodigato senza risparmio come sempre fino al limite delle sue energie, Bruno Walter aveva l'abitudine di cambiare la camicia. Felix von Weingartner, direttore d'orchestra dai nobili atteggiamenti ma glaciale nel suo approccio sia con l'opera, sia coi colleghi, si permise questa ironica osservazione:
    «Lei mi sorprende, Herr Professor Walter. Io posso dirigere sei volte I Maestri Cantori [Richard Wagner] senza sentire il bisogno di cambiare camicia!»
    «Caro collega,» rispose Walter sorridendo, «ecco in che cosa consiste la differenza fra lei e me.»
  • Il motto coniato da Federico III nel 1450: «Bella gerant alii tu Felix Austria nube» («Altri ordiscono guerre; tu, felice Austria, celebri connubi».) e che da allora ha guidato tutta la politica della casa di Asburgo, a distanza di quasi cinque secoli si sarebbe rivelato significativo anche nel mio piccolo destino personale. È stata la Felix Austria, infatti, a sposarmi «indissolubilmente». (p. 17)
  • Quando divenni la loro direttrice, lo Staatsopernballett andava giustamente famoso per il suo fascino e la sua eleganza prettamente viennesi. Famiglie quali i Birckmayer, i Fränzel, i Raimund, vi facevano parte da tre generazioni. Quando nei primi tempi della mia carica direttiva mi capitò di complimentare un giovane ballerino di particolare talento, cercarono di convincermi:
    «Lei dovrebbe vedere suo nonno: è molto bravo!»
    «Suo nonno? Dov'è?» chiesi, stupefatta.
    «Ma qui, naturalmente! Fa parte del corpo di ballo!» In una siffatta compagine artistica i legami sembravano inestricabili: il più giovane allievo della scuola di ballo, che avevo scambiato per il figlio del ballerino, era in realtà suo fratello, minore di lui di quarant'anni. (p. 19)
  • La danza fine a se stessa non mi ha attratto mai. La danza mi appassionava solo se poteva servire a esprimere un'azione, un messaggio, di qualunque indole essi fossero. (p. 21)
  • Quanto a Furtwängler, ricordo un buffo incidente occorso durante una prova del baccanale (versione di Parigi) del Tannhäuser [Richard Wagner], da lui diretto. Avevo già cominciato a provare le evoluzioni coreografiche – alquanto osées, per l'anno 1935 – quando all'improvviso Furtwängler salì sul palcoscenico e sedette su uno sgabello, la partitura posata sulle ginocchia, nel bel mezzo della scena.
    «Dottor Furtwängler, lei non può starsene qua! Si porti al proscenio, per favore! Ho bisogno di tutto lo spazio possibile per il baccanale!»
    «Ma è proprio per questo che sono venuto a sedermi qui!»
    Credevo che scherzasse, invece non si mosse. E la risposta mi lasciò perplessa. (p. 25)
  • Se ripenso ai molti, eccezionali cantanti che si esibirono in quegli anni allo Staatsoper, nessuna voce risuscita in me tanta commozione quanto quella di Lotte Lehmann. La purissima intonazione di quel grande soprano lirico, la sua commovente umanità, la dizione impeccabile, sono per me indimenticabili. Ogni qualvolta mi è accaduto di riascoltare un'altra Leonora nel Fidelio [Ludwig van Beethoven], solo lei e il suo timbro inimitabile risuonavano distintamente nel mio cuore. (p. 25)
  • Quando l'evocazione suscita in noi un certo stato d'animo, ci si accorge di aver detto abbastanza. (p. 49)
  • Quando Toscanini dirigeva, era come il destino che colpisce, infallibile, inesorabile. Il suo senso innato del ritmo, la sua memoria erano prodigiosi. Opere, o concerti, li dirigeva tutti a memoria, senza partitura. (p. 53)
  • La prima volta che la vidi fu nello studio del capo-scenografo della MGM, Cedric Gibbons. Strettamente avvolta in una specie di tuta, in pantaloni, il capo coperto da un turbante che le nasconde i capelli, gli occhi protetti da grandi occhiali neri, appare così decisa a «difendersi» da ogni assalto indiscreto che perfino mio marito non la riconosce. La conversazione verte sulla scelta degli abiti che dovrebbe indossare, ma lei non apre bocca, o quasi. Molto riservata, in ogni circostanza, sa come preservare il mito del suo mistero. Quando si gira, se ne sta rinchiusa nella sua roulotte, o nel camerino, fino all'ultimo, affidando alla sua controfigura la prova di tutti gli spostamenti, di tutte le posizioni. In tal modo la sua «apparizione» dà luogo a un effetto per così dire moltiplicato. Sebbene la sua controfigura sia una splendida donna, vestita e pettinata esattamente come lei, il fascino che irradia Greta Garbo non conosce uguali. (p. 76)
  • La prima esecuzione di Atlántida [Manuel de Falla], in forma puramente sinfonica, si tenne nel 1961 al Teatro Liceo di Barcellona. Quella sera stessa c'incontrammo con l'ex re d'Italia Umberto e con Salvador Dalí, che aspirava a realizzare i bozzetti per la rappresentazione scenica dell'opera alla Scala. Era appena giunto da Venezia, dove aveva allestito un balletto con Ludmilla Čerina risoltosi in un clamoroso scandalo.
    «È stata una vera battaglia, Maestà!» dichiarò lui, tutto fiero.
    «Vinta... o perduta?» chiese maliziosamente il re.
    Alla fine la Scala, preoccupata, rinunciò a Dalí e le scene vennero affidate a Nicola Benois che si ispirò ai bozzetti creati da José-Maria Sert nel 1926 per il primo progetto dell' Atlántida. (p. 90)
  • La collaborazione più straordinaria, più significativa che ebbi in quegli anni fu quella di Manuel De Falla il quale, esule dalla Spagna franchista, viveva ad Alta Gracia, nei dintorni di Córdoba, dove spesso gli facevo visita. Fu laggiù che suonò per me al pianoforte i brani già completati della sua Atlántida: Il Prologo (l'Atlantida Sommersa), il Sogno di Isabella, le Caravelle, il Salve sul mare, la Scoperta del Nuovo Mondo. Procedeva nella composizione con estrema lentezza, dovuta non soltanto al suo scrupolo di artista ma anche al suo carattere meditativo. Una volta mi confidò che, se componeva sedici battute durante la notte, l'indomani ne cancellava ventiquattro. (p. 90)
  • Manuel De Falla, magro, ascetico, conduceva un'esistenza improntata a estrema semplicità e alla rinuncia di tutto il superfluo. Per giunta, negli anni di guerra non ebbe la possibilità di riscuotere i diritti d'autore: cosicché, dotato com'era di una profonda istintiva vocazione alla modestia, il suo modo di vivere evocava quello di Gandhi. (p. 91)
  • Data la sua salute incerta era restio a rispondere alla corrispondenza. Quando apprese della morte dell'amico Zuloaga (il pittore che di lui ha dipinto il ritratto che ha saputo cogliere più al vivo le peculiarità del suo carattere) esclamò: Mio Dio! E pensare che debbo rispondere alla sua ultima lettera... da cinque anni! (p. 92)
  • C'erano due altri balletti di maggior levatura musicale: Schlagobers («Panna montata») e La leggenda di Giuseppe di Richard Strauss, che avevo montato parecchie volte e modernizzato sotto la direzione di Knappertsbusch. Egli detestava le prove: si trattasse di un'opera di Wagner o del «mio» balletto, entrando nella fase dell'orchestra domandava: «Ma questo lo sappiamo tutti a memoria, signori. Allora arrivederci a domani!» E se ne andava.
  • Quando era l'illustre compositore in persona a dirigere La leggenda di Giuseppe (in occasione delle matinées domenicali), tutti tremavano. A un certo momento – e per lo più accadeva nel momento più dfifficile, nella «Danza dei boxeurs» – Strauss levava dal taschino il suo grosso orologio, lo consultava, e se constatava di essere in ritardo, lo posava davanti a sé, sul leggio, e accelerava il ritmo dell'esecuzione. Di colpo la sua musica, così bella e solenne, mutava carattere e il palcoscenico si trasformava in un campo di corse. Il motivo di quel massacro? Perché alle cinque, ogni domenica, in casa del maestro si radunava un fedele gruppo di amici per l'immancabile partita a Skat, e Strauss la rispettava scrupolosamente. Non per nulla, a quella partita a carte ha consacrato un'intera scena della sua opera autobiografica Intermezzo.

Bibliografia

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  • Margarita Wallmann, Balconate del cielo (Les balcons du ciel), traduzione di Luciana Peverelli, Aldo Garzanti Editore, 1976.

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