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Nicola Turchi

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Nicola Turchi (1882 – 1958), presbitero, storico e traduttore italiano.

Manuale di storia delle religioni

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  • Lo stadio più antico ed il nucleo centrale della primitiva religione cinese consiste nell'adorazione del cielo Ti' en concepito sotto un aspetto piuttosto materiale. Ma accanto a questa concezione venne col tempo a formarsene un'altra, quella di Shang-ti spirito imperatore del cielo, concepito come il supremo governatore del mondo, meno astratto dell'altro, più personale, più strettamente legato alla dinastia regnante e per essa al paese. (cap. III, p. 85)
  • L'occhio del Cinese non guarda il cielo ma su la terra, non specula su la natura di Dio e quindi non conosce mitologia, ma cerca che i rapporti tra la potenza misteriosa di lassù e la terra con i suoi abitatori siano calmi e stabili per essere a lui stesso profittevoli.
    Egli è portato a considerare il lato sociale della religione e a metterne in valore solo quegli elementi che si traducono in benessere sociale. Perciò i riti hanno presso questo popolo uno speciale valore come quelli che riconducono l'equilibrio turbato nella bilancia su cui si contrappesano il cielo e la terra. (cap. III, p. 86)
  • Accanto all'adorazione del cielo va messo come seconda colonna fondamentale del semplicissimo edificio della religione cinese il culto degli antenati.
    Il Cinese tien volto lo sguardo al passato e tra gli oggetti di venerazione che vi scorge il primo è senza dubbio la serie de' suoi antenati da cui ha ricevuto la tradizione familiare e civile, che hanno esercitato il rito e sono circondati dalla venerazione dei viventi. Tutti sacrificano agli antenati, fin dall'età più remota: a cominciare dall'imperatore che ha sette sale con i propri altari destinate al culto degli antenati, fino ai nobili che ne hanno cinque e al popolo che non possedendo un apposito luogo di adorazione li venera come meglio può nel canto migliore della sua casa, giacché come afferma il Li-ki «il tempio del popolo è la sua casa». (cap. III, p. 87)
  • Come tutte le religioni anche quella egiziana rivela a' suoi inizi caratteri strettamente animistici. L'Egiziano dà[1] vita a tutte le cose che lo circondano nella lunga valle bagnata dal Nilo, popola di spiriti la distesa arida dei due deserti che limitano il suo territorio, le acque del fiume fecondatore, il cielo caldo che gli s'inarca sul capo, scintillante di stelle nelle notti limpidissime e dove di giorno il sole naviga divinamente, carico di benefici per gli uomini pii della sacra vallata.
    Uno degli aspetti più caratteristici di questo animismo si vede nella deificazione degli animali, sia che la si debba a un ordinario processo di zoolatria che fa venerar l'animale perché si crede l'incarnazione benefica o malefica di una divinità superiore le cui qualità sono desunte dalla natura dell'animale stesso, sia che si debba ascrivere ad origine totemistica, in quanto gli animali adorati sarebbero i progenitori delle varie tribù e i protettori naturali del distretto di cui sono l'insegna e a cui danno il nome. (cap. IV, p. 111)
  • La divinità [...] viene in Grecia concepita alla stregua umana; essa quindi non è esente dai vizi e dalle passioni degli uomini, non ultima delle quali la gelosia e i capricci, specialmente di fronte alla continua espansione progressiva degli uomini. Tuttavia la potenza arbitraria degli dei non è tale che l'Elleno non riesca a sentire nella natura l'impero di una legge che controbilancia il capriccio degli dei ed è l'espressione della fissità delle leggi fisiche e morali che mantengono l'equilibrio del cosmo. Sorge così il concetto del Fato (Μοῖρα) e per esso mentre si affina il concetto stesso della divinità, la quale non può più operar contro la legge, si eleva anche la coscienza morale dell'individuo in quanto alla grandiosa concezione di equilibrio dell'universo deve corrispondere l'equilibrio morale specialmente nei rapporti con la divinità, il desiderio di espiare per ottener la purificazione, la certezza intima che la purità dell'anima conduce questa a una sorte migliore nell'altro mondo. (cap. X, pp. 410-411)
  • La religione dei Romani, considerata sia nei suoi elementi indigeni, sia attraverso le varie influenze esteriori che ha dovuto subire, ci si presenta innanzi tutto come astrattiva e mancante assolutamente di quella fantasia coloritrice dei concetti che ha suscitato presso i Greci la loro mirabile mitologia. Il Romano è grave e ponderato: tutta la sua esistenza trascorre tra gli stenti e le occupazioni uniformi della vita agricola e pastorale, lungi dagli arditi allettamenti e dalle svariate impressioni che dona il mare. (cap. XI, pp. 466-467)
  • Il carattere pratico dei Romani – visibile nella loro storia e letteratura – si rivela in maniera anche più immediata nella religione. E come essi hanno saputo, con la sapienza congenita che li ha fatti maestri del giure nel mondo, determinare i rapporti sociali, così hanno concepito da un punto di vista giuridico, quasi contrattuale, i rapporti tra l'uomo e la divinità. Misticismo, devozione ardente, trasporti dell'anima in Dio non esistono quindi nella religione dei Romani. L'uomo vi si trova di fronte all'essere divino come un contraente di fronte all'altro: deve quindi innanzi tutto saper ben indicarlo, circoscriverlo, precisarlo in modo che non si dia campo ad equivoci che annullerebbero in radice ogni relazione; indi deve esporre con chiarezza, sia pur monotona e non scevra di ripetizioni noiose le sue richieste o proposte, dichiarando insieme con precisione le condizioni e i patti a cui si obbliga da sua parte senza tralasciare nessun particolare sia pur minimo (religio da relegere) per non incorrere in nullità, come tra gli uomini dinanzi alla legge; e finalmente, ottenuta la cosa domandata, adempiere i patti con fedeltà. (cap. XI, pp. 467-468)

Note

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  1. Nel testo "da".

Bibliografia

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Altri progetti

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