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Bernard-Henri Lévy

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Bernard-Henri Lévy

Bernard-Henri Lévy (1948 – vivente), filosofo, giornalista, scrittore e regista francese.

Citazioni di Bernard-Henri Lévy

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  • Attenzione, è vero che in democrazia tutti possono parlare, ma queste persone hanno idee e bastoni, e hanno bastoni perché hanno certe idee. L'idea neonazista è un'idea violenta che la Storia ha già giudicato. Non può più essere riammessa nell'ambito argomentativo democratico.[1]
  • Bisognerebbe smetterla con la malafede, il partito preso e, per dirla tutta, la disinformazione, non appena si tratta di Benedetto XVI. (da Corriere della sera, 20 gennaio 2010)
  • C'è a Parigi una piccola cricca di revisionisti che hanno cominciato a relativizzare, banalizzare, negare quello che succede in Darfur. [...] [Il filosofo si è lanciato in una dura denuncia di quanti] pensano che uno Stato del Terzo mondo non possa essere uno Stato assassino, e che vittime sostenute dall'opinione pubblica americana non possano essere vere vittime. (da Corriere della sera, 28 novembre 2007, pag. 7)
  • Il 22 ottobre, l’Italia commemorerà il centenario della Marcia su Roma. Si sarebbe potuto ricordare questa storia terrificante e patetica solo come la rievocazione di un grande incubo. Quella parata, quei fasci, quel corteo di squadristi meno numerosi di quanto non dica la leggenda aurea del fascismo, quelle bande di reietti che vediamo nel film di Dino Risi con Vittorio Gassman e Ugo Tognazzi, quel quadrumvirato patetico e sconvolto che circondava Mussolini e che per poco non fu fatto arretrare da un temporale, sembrava appartenere al passato.[2]
  • L'Afghanistan ha perso battaglie, ma non la guerra. È nella fossa dove sono caduti i combattenti del Panshir, ma la sua fiamma non è spenta e il Panshir non ha detto la sua ultima parola. Giace nelle confuse scie in cui oggi si mescolano le acque di uno dei più bei fiumi della terra e il sangue, i corpi, il fango dei combattenti uccisi – ma è qui che i semi della rinascita stanno già crescendo. I partigiani del Panshir, costretti a indietreggiare ma risoluti, sono come le donne di Herat, di Kabul e di Kandahar, che si ostinano a sfidare i talebani. Sono ciò che rimane di misterioso nell'umanità e che nessuna sventura può sottomettere. Sono quella parte, non maledetta, ma benedetta, che resiste, sopravvive e si rafforza nel crogiolo delle prove condivise. Il resto dell'Afghanistan. La speranza. Comincia la resistenza.[3]
  • L'Ucraina è Europa. Lo è per la storia, per la volontà e, dopo la rivolta di Maidan, per il sangue versato dalla Centuria Celeste di giovani donne e giovani uomini caduti sotto la mitraglia delle forze di repressione filoputiniane stringendo fra le braccia la bandiera stellata dell'Unione.[4]
  • [su Matteo Salvini] Mi avevano detto che era un condottiero, ma era un misto tra il capo di un casinò di un film di Scorsese e un membro di secondo piano del clan dei corleonesi.Ma, soprattutto, avevo davanti il tipico putiniano europeo che già lasciava che i suoi collaboratori racimolassero rubli e petrodollari a Mosca, che negoziava il futuro del popolo italiano in accordi dietro le quinte appannati dalla vodka e che, tra tutti i travestimenti di cui andava matto (un giorno pompiere, un altro poliziotto, il giorno dopo doganiere), continuava a preferire le magliette con l’effigie del padrone del Cremlino.[2]
  • Michel Onfray si lamenta di ricevere critiche senza essere letto? Ebbene, l'ho quindi letto. L'ho fatto sforzandomi di mettere da parte, per quanto possibile, i vecchi cameratismi, le amicizie comuni, come anche la circostanza — ma questo era evidente — che entrambi siamo pubblicati dallo stesso editore. A dir la verità, sono uscito da questa lettura ancora più costernato di quanto lasciassero presagire le recensioni di cui, come tutti, ero venuto a conoscenza. Non che per me, come invece per altri, l'«idolo» Freud sia intoccabile: da Foucault a Deleuze, a Guattari e ad altri ancora, molti se la sono presa con lui e io, pur non essendo d'accordo, non ho mai negato che abbiano fatto avanzare il dibattito. E nemmeno sono il risentimento anti-freudiano, la collera, addirittura l'odio, come ho letto qua e là, a suscitare il mio disagio alla lettura del libro Crépuscule d'une idole. [...] si fanno grandi libri con la collera! E che un autore contemporaneo mescoli i propri affetti con quelli di un glorioso predecessore, che si misuri con lui, che faccia i conti con la sua opera in un pamphlet che, nell'ardore dello scontro, apporta argomenti o chiarimenti nuovi è, in sé, qualcosa di piuttosto sano. Del resto, Onfray l'ha fatto spesso, altrove, e con vero talento. No, non è questo. Quel che infastidisce nel Crépuscule d'une idole è di essere banale, riduttivo, puerile, pedante, talvolta al limite del ridicolo, ispirato da ipotesi complottistiche assurde quanto pericolose.[5]
  • [Sul nazionalismo e l'identità nazionale francese] Si parli di ciò che si vuole. Ma sostenere che le persone abbiano, in questo paese, un problema con l'identità francese è una stupidaggine. Esse sanno ciò che significa essere francesi. Lo sanno molto bene. Ed una maggiore consapevolezza atterrebbe più all'asservimento che non alla liberazione. Perché le identità collettive devono essere leggere e non oppressive. Non devono rinchiudere i soggetti in soffocanti camicie di forza, bensì aiutarli, al contrario, a respirare. E poi questo dibattito sta occultando la questione cruciale: quella dell'identità europea.[6]

Sulla crisi russo-ucraina del 2021-2022, repubblica.it, 17 dicembre 2021.

  • Preghiamo perché Vladimir Putin non prenda la folle decisione di invadere l'Ucraina. Innanzitutto perché le cifre sono ingannevoli: l'esercito russo, secondo tutti gli esperti, è in uno stato di salute critico, quasi quanto l'economia post-sovietica; e non è affatto certo che i 150 mila uomini ammassati in queste ultime settimane fra Mariupol e Luhansk abbiano la capacità di operare così lontano dalle loro basi senza provocare un disastro.
    Secondo, perché l'Ucraina di oggi non è più quella che nel 2021 lasciò invadere la Crimea senza colpo ferire: da Petro Poroshenko in poi, e in gran parte grazie a lui, si è dotata di un esercito di cui ho potuto, e non solo io, verificare sul campo la potenza di fuoco, la solidità delle linee di difesa e il morale; e una fiammata laggiù, in quella Verdun gelata che ha già fatto 11 mila morti e centinaia di migliaia di sfollati, potrebbe portare a una guerra ad alta intensità.
  • L'idea secondo cui la Russia sarebbe a casa propria ovunque si parla russo, e dunque in quella parte orientale dell'Ucraina che viene chiamata Donbass, basterebbe, se fosse convalidata, a mettere l'Europa e il mondo a ferro e fuoco. Che succederebbe, se si ragionasse così, con i transilvani in Romania? Con i catalani in Francia? Con le tre comunità linguistiche di cui è composta la Svizzera? Con quella «minoranza vallona» di cui certi ideologi, a Mosca, già sostengono che sarebbe minacciata di «genocidio»? Con quella parte della California dove si parla spagnolo? Con la Gran Bretagna, che ha la lingua in comune con l'America? Il nazionalismo linguistico, sotto Putin non meno che all'epoca, nel 1938, dell'annessione dei tedeschi dei Sudeti al Terzo Reich, è un vaso di Pandora.
  • Quanto all'argomento ripetuto ossessivamente, da Mélenchon a Zemmour e Le Pen, dai sostenitori francesi della distensione con il Cremlino, secondo cui l'Ucraina farebbe storicamente parte della Russia, su cosa si basa? Su un sofismo: l'Ucraina, che etimologicamente, in russo, vuol dire "frontiera", "territorio di frontiera" o "marca", non avrebbe veramente un nome, deduzione che a voler essere logici dovrebbe applicarsi anche all'altro Paese innominato che sono... gli Stati Uniti! Su un'omonimia: la "Rus' di Kiev", quel vasto territorio che nel IX secolo inglobava Bielorussia, Nord della Russia e Nord dell'Ucraina e il cui nome indicherebbe che Kiev è la culla della Russia: il procedimento, qui, è come un gioco di prestigio, perché "Rus di Kiev" era allora l'appellativo non di uno Stato-nazione russo chiaramente inesistente, bensì di una sorta di enorme agenzia commerciale scandinava. E l'argomentazione poggia, infine, sulla realtà dei movimenti di popolazione di cui la regione nel suo insieme è stata effettivamente il teatro: ma allora come si potrebbe impedire alla Lituania di rivendicare Smolensk? Alla Polonia di avanzare i suoi diritti su Leopoli? Alla Slovacchia di invadere l'oblast della Transcarpazia? Alla Moldavia di reclamare un pezzo di Transnistria? E perché la Russia, un Paese che, lo ripetiamo, non è mai stato uno Stato-nazione prima del 1991, avrebbe più titoli di altri da far valere sulle terre liberate dell'ex Unione Sovietica?

Sull'invasione russa dell'Ucraina del 2022, repubblica.it, 26 febbraio 2022.

  • La Russia non ha nessun diritto sull'Ucraina. Nessuno. Non quello di amputarla del suo territorio oggi e nemmeno quello di dettarle domani con chi debba allearsi. Certo, la geopolitica è una questione di rapporti di forza. Ma il diritto resta il diritto. E dice che i popoli non sono pedine di cui un dittatore imperialista e sanguinario possa disporre a suo piacimento.
  • L'Ucraina, è vero, ha una storia comune con la Russia. Ma è la storia di una colonizzazione. Poi quella, sotto i bolscevichi, della strategia della «scopa di ferro», per sbarazzare Odessa dai suoi anarchici. Poi, con Stalin, l'Holodomor, lo sterminio per fame, che fece tra i 5 e i 6 milioni di vittime. Il resto, la cattiva letteratura sulla presunta «fratellanza » dei popoli slavi, la favola di quel «Rus' di Kiev», che sarebbe stato, nel IX secolo, la culla di una Russia che ancora non esisteva, appartiene alla propaganda.
  • Putin, con i suoi carri armati, i suoi cannoni, i suoi aerei, aveva un obbiettivo. Uno solo. Mettere l'Ucraina in ginocchio. E spezzare la spinta democratica impressa otto anni fa dal popolo di cittadini liberi radunati sulla piazza Majdan di Kiev. Aveva un mezzo per farlo: la calunnia, l'offesa, la trasformazione in fascisti dei ragazzi, quasi dei bambini, che a piazza Majdan morirono stringendo fra le braccia la bandiera stellata dell'Europa. E ne aveva un altro: l'organizzazione, che non sta in piedi, di un appello all'amico russo per fermare un presunto genocidio; l'invio di un'armata potentissima incaricata di distruggere e di uccidere; e poi, ben presto, un'occupazione in stile Praga o Budapest. Ha fatto entrambe le cose. Ha polverizzato un Paese grande e libero. È un crimine storico contro l'Ucraina e un attacco frontale contro l'Europa.
  • Non bisogna invertire i ruoli e dimenticare che è lui, Putin, e lui soltanto, ad aver infranto il tabù della guerra in Europa, ad aver fatto aleggiare lo spettro della guerra nucleare, ad aver creato il caos e l'angoscia. Bisognerà tenere a mente che è l'Ucraina, e l'Ucraina soltanto, che bisognava, e bisogna ancora, salvare da una distruzione annunciata e atroce.
  • Non bisognava tenere minimamente in considerazione la sensazione che ha la Russia, come dicono i vari Le Pen, Zemmour e Mélenchon, di essere accerchiata, maltrattata, umiliata? Io penso, in realtà, che questa umiliazione sia un mito. Mi ricordo che la Nato, fin dal 1994, proponeva alla Russia un «Partenariato per la pace». Che la Russia fu invitata a entrare nel Consiglio d'Europa e nel G7. Mi ricordo del Consiglio Nato-Russia, creato, da pari a pari, nel 2002. Poi di Obama che nel luglio del 2009 andò a Mosca per offrire un reset generalizzato. E poi dell'autolimitazione, fino a Trump e Biden inclusi, del numero e della portata delle armi americane dispiegate sul continente (e questo nel momento stesso in cui la Russia violava i suoi stessi impegni). Non vedo altri esempi di un impero decaduto che abbia beneficiato di tante premure. E credo che la leggenda dell'umiliazione russa, coltivata da qualche stipendiato della Gazprom e della Rosneft, sia l'ultimo tranello in cui dobbiamo evitare di cadere.

Sull'invasione russa dell'Ucraina del 2022, repubblica.it, 6 gennaio 2023.

  • Questa guerra, come tutte le guerre, alla fin fine è fatta di corpi che si scagliano gli uni contro gli altri. Da un lato corpi eroici che si assumono, con cognizione di causa, il rischio di morire. Dall'altro lato, degli zombie che assomigliano, nel migliore dei casi, al soldato Svejk che, sordo agli «esempi di valore» affissi nelle camerate dalla «stupida e vecchia Austria», marcia sulla strada maestra, intirizzito dal freddo, con in testa una sola idea: salvarsi la pelle. È il caso, oggi, di un esercito russo che si sta decomponendo sul campo a gran velocità.
  • Come potrebbe la Russia uscire indenne da questo caos che ha voluto lei? E come potrà colui che le prometteva la gloria e le avrà portato soltanto sconfitta, obbrobrio, umiliazione, come potrà questo Nerone pronto a lasciar bruciare Roma purché viva il suo delirio di zar in formato ridotto, restare uguale a se stesso, irrigidito nella sua maschera di cera e nelle adulazioni dei suoi stipendiati? Dopo di lui, ognuno di noi lo sa, tutto è possibile. Il peggio come il meglio, gli ultranazionalisti in stile Wagner così come un democratico di cui solo l'Angelo della Storia conosce il nome.
  • Possa la terza rivoluzione russa, quella che verrà, essere quella buona e segnare la fine dei demoni che possiedono perfino alcuni degli spiriti migliori del Paese. Russia anno zero. Come per la Germania nel 1945, è questa la speranza.

Incipit di American Vertigo

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Alexis de Tocqueville è sbarcato qui, a Newport, poco più a sud di Boston, nello Stato del Rhode Island, su questa costa orientale che porta ancora così chiari i segni del suo rapporto con l'Europa. Qui sulla lussuosa spiaggia di Easton's Beach, con gli yacht, i palazzi palladiani e le case di legno dipinto che ricordano le città balneari della Normandia, con il museo navale, l'Atheneum Library e gli alberghi che hanno il ritratto della padrona al posto dell'insegna, con gli alberi rigogliosi e i campi da tennis e la sinagoga in stile georgiano che mi dicono essere la più antica degli Stati Uniti. Invece a me sembra decisamente moderna: tutto quel legno grigio ben lucidato, le colonne ritorte, le sedie in impeccabile vimine nero, i grossi candelieri, la targa incisa a lettere nitide in memoria di Isaac Touro e di sei o sette grandi rabbini suoi successori, la bandiera degli Stati Uniti sotto vetro accanto al rotolo della Torah.

Note

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  1. Citato in Daniele Luttazzi, Adenoidi, capitolo VI, "Come ti erudisco il neo-nazi"
  2. a b Da L'Italia non merita la rievocazione del fascismo, traduzione di Luis E. Moriones, repubblica.it, 30 agosto 2022.
  3. Da L'onore del Panshir, traduzione di Luis E. Moriones, repubblica.it, 7 settembre 2021.
  4. Da L’azzardo ucraino di Putin, la Repubblica, 17 dicembre 2021, pag. 41; traduzione di Fabio Galimberti.
  5. Da Tutti gli errori di Onfray su Freud, traduzione di Daniela Maggioni, Corriere.it, 29 aprile 2010.
  6. Dall'intervista di Laure Equy, Libération, 21 dicembre 2009; traduzione di Daniele Sensi, Bernard-henri-levy.blogspot.it.

Bibliografia

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  • Bernard-Henri Lévy, American Vertigo, traduzione di Cristiana Latini, Rizzoli, Milano, 2007. ISBN 8817011959

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