Paul Ginsborg

Da Wikiquote, aforismi e citazioni in libertà.

Paul Ginsborg (1945 – 2022), storico britannico, naturalizzato italiano.

Citazioni di Paul Ginsborg[modifica]

  • La democrazia ha molti nemici in attesa tra le quinte, politici e movimenti per il momento costretti a giocare secondo le sue regole ma il cui intento reale è tutt'altro – populista, di manipolazione mediatica, intollerante e autoritario. Conquisteranno molto spazio, se non riformeremo rapidamente le nostre democrazie. E non c'è ambito in cui questa riforma sia più necessaria che in seno alla stessa Unione Europea. (da La democrazia che non c'è, p. 17)

Storia d'Italia dal dopoguerra a oggi[modifica]

Premessa[modifica]

  • Nei tardi anni '50 il sociologo americano Edward Banfield raggiunse la notorietà descrivendo il «familismo amorale» dei contadini da lui osservato a Chiaro-monte in Basilicata. Per Banfield, l'estrema arretratezza di Chiaromonte era dovuta all'«incapacità degli abitanti di agire insieme per il bene comune, o, addirittura, per qualsivoglia fine che trascendesse l'interesse materiale immediato del proprio ristretto nucleo familiare».[1] (p. X)

Capitolo I[modifica]

  • [...] il consenso al regime, già in declino, si sgretolò in seguito ai bombardamenti aerei alleati, alla mancanza di cibo, all'impennata dei prezzi. I primi a manifestare apertamente il loro malcontento furono gruppi d'operai dell'industria. Il 5 marzo 1943 operai della fabbrica Rasetti di Torino bloccarono a lungo il lavoro. Venne chiamata la polizia e vi furono dieci arresti tra gli scioperanti. Proteste ebbero luogo, nello stesso giorno, anche alla Fiat Mirafiori. Il 7 marzo le astensioni dal lavoro si diffusero in nove fabbriche della città. Gli operai avanzavano principalmente richieste di natura economica, reclamando tra l'altro un'indennità uguale per tutti contro i danni dei bombardamenti ed il carovita. Alla testa dell'agitazione vi era un piccolo numero di comunisti spronati dalle notizie di Stalingrado. Entro la fine del mese molti luoghi di lavoro nelle città settentrionali erano già stati toccati da qualche forma di sciopero, con un coinvolgimento di circa 100 mila operai. In aprile gli imprenditori e il governo annunciarono sostanziose concessioni. Gli scioperi, i primi di questo genere nell'Europa fascista, ebbero grande risonanza in Italia e all'estero. Mussolini dichiarò ai dirigenti del Partito nazionale fascista che il fascismo era tornato indietro di vent'anni, Hitler definì inconcepibile una simile insubordinazione. Radio Londra elogiò gli operai torinesi per aver osato affermare i loro diritti di esseri umani. (cap. 1, §1, p. 6)

Capitolo II[modifica]

  • Sarebbe errato interpretare tali misure [gli aiuti economici] come il primo passo di una vera e propria strategia intesa a fare degli Stati Uniti il punto di riferimento politico ed economico dell'Italia del dopoguerra. Ciò sarebbe accaduto solamente piú tardi. In questo momento la differenza tra i due alleati può forse venire espressa confrontando i differenti slogan politici da essi coniati per l'Italia. Gli inglesi proclamavano la loro intenzione di «prevenire epidemie e disordini», gli americani di «creare stabilità e prosperità». Non vi è dubbio su chi fosse piú lungimirante. (cap. 2, §1, p. 50)
  • Figlio di una maestra delle elementari e di un impiegato, [...] [Palmiro Togliatti] era stato con Gramsci a Torino durante il biennio rosso ed era stato uno dei fondatori del partito [Comunista d'Italia] nel 1921. Rifugiatosi in Russia dopo la vittoria del fascismo, era presto salito d'importanza fino a diventare vicesegretario generale del Comintern. Astuto, prudente, colto e altezzoso, possedeva una innata capacità di sopravvivere a tutte le tempeste politiche: una qualità che gli fu d'aiuto nella Mosca degli anni '30. Benché fosse ovviamente un leale sostenitore di Stalin, Togliatti sapeva pensare in modo creativo e possedeva una visione strategica d'insieme, e questi meriti lo mettevano in risalto all'interno di un movimento comunista internazionale famoso per il suo dogmatismo e fideismo. (cap 2, §2, pp. 51-52)
  • Gli scritti dal carcere di Gramsci avevano forma frammentaria, erano stati vincolati dalla censura e permettevano più di una interpretazione. Essi offrivano, nondimeno, la più seria riflessione sulla strategia socialista in Occidente. In sintesi Gramsci riteneva che in questa parte d'Europa i rapporti tra Stato e società civile si articolassero in modo diverso rispetto ai paesi europei più orientali, e concludeva pertanto che i rivoluzionari occidentali dovevano adottare una strategia diversa da quella usata dai bolscevichi nella rivoluzione russa [...].
    In Occidente [...] ogni assalto allo Stato, ogni «guerra di movimento» era destinata a fallire. I comunisti occidentali dovevano invece perseguire dapprima una lunga «guerra di posizione» nella società civile, una lotta prolungata che avrebbe richiesto infinita pazienza e tenacia. In questa «guerra di posizione» la classe operaia avrebbe imposto progressivamente su tutti i settori della società la propria egemonia, la propria direzione morale, politica e culturale. Essa doveva dunque creare un «blocco storico» di forze sociali da contrapporre a quello della classe capitalista. Doveva, per dirla nel modo più semplice, prepararsi per il potere. (cap. 2, §2, p. 55)
  • Questo enorme desiderio di riforme e queste potenzialità oggettive rimasero quasi completamente irrealizzate. Gli Alleati ne furono responsabili in non piccola parte: essi cercarono gli interlocutori piú arrendevoli e conservatori, non importa se inquinati da vent'anni di appoggio al fascismo. Gli inglesi non erano interessati a riformare, ma a restaurare. Lo stesso, in modo abbastanza comprensibile, era vero per il re e per Badoglio. Il colpo di stato del 25 luglio 1943, malgrado il successivo disastro dell'8 settembre, li aveva messi al comando di tutta la metà meridionale dell'Italia. I due anni di vita del Regno del Sud emarginarono il Mezzogiorno dai progressi del Nord, isolarono le proteste dei contadini meridionali, assicurarono la continuità della burocrazia fascista e soffocarono le fragili forze della democrazia del Meridione. (cap. 2, §3, p. 65)

Capitolo III[modifica]

  • [Pietro] Nenni non si stancava mai di ripetere l'importanza dell'unità del proletariato, tanto che durante il 1945 e all'inizio del 1946 vi fu una seria possibilità che comunisti e socialisti si fondessero in un solo partito.
    A Nenni, comunque, mancavano le qualità di un grande dirigente politico. Nel 1945 egli era già un personaggio storico, conosciuto per il ruolo avuto nella «settimana rossa» del giugno 1914 e nella guerra civile spagnola. Mancava tuttavia dell'abilità strategica tanto di De Gasperi che di Togliatti, che ammirava profondamente, ed era incapace di tenere assieme un partito facendolo diventare una «grande chiesa» di opinione socialiste. In quel periodo [1945-1948] Nenni esaltava la natura «operaia» del partito a scapito di una più attenta preoccupazione nei confronti delle classi medie. (cap. 3, §2, p. 112)
  • L'accettazione acritica e adulatoria della dittatura stalinista serví a poco per far progredire la causa del socialismo in Italia. Sia i comunisti sia la grande maggioranza dei socialisti sostenevano con cieca fiducia (perlomeno in pubblico) che il sistema statale sovietico rappresentava la realizzazione del socialismo. Erano già in circolazione, tuttavia, prove sufficienti che giungevano da diverse fonti per porre seriamente in dubbio questa affermazione. Per parecchi appartenenti ai ceti medi, ma non solo per loro, la Russia stalinista appariva invece come un regime totalitario che eliminava i suoi oppositori politici, distruggeva i contadini e controllava con ferocia la vita privata dei cittadini. Se questo era il socialismo non volevano averci nulla a che fare. Non fu per caso che la Democrazia cristiana mise la parola Libertas al centro del proprio vocabolario politico e sullo scudo crociato che divenne il simbolo elettorale del partito. Tutti i tentativi di Togliatti di costruire un blocco storico» di forze sociali attorno alla classe operaia si infrangevano contro questa barriera ideologica. Finché stalinismo fu sinonimo di socialismo, un gran numero di italiani continuò a preferire il sistema capitalista, malgrado tutte le sue ingiustizie. (cap. 3, §2, p. 115)
  • La mitologia della guerra fredda vuole che De Gasperi abbia attraversato l'Atlantico per ricevere dagli americani l'ordine di cacciare le sinistre dal governo. È un'ipotesi che suona alquanto improbabile. Il rapporto dell'America con la Dc non era, o almeno non era ancora, del tipo «io ordino e tu obbedisci». [...] Fu De Gasperi a prendere l'iniziativa della visita, e non il Dipartimento di Stato a convocarlo. È possibile che egli abbia tenuto segrete eventuali discussioni sull'espulsione delle sinistre, ma i funzionari americani vedevano a quell'epoca la situazione italiana in termini prevalentemente difensivi: il problema era quello di bloccare l'avanzata delle sinistre, non di decidere quando porre termine alla coalizione di governo. (cap. 3, p. 135)
  • La lotta dei mezzadri si concluse cosí con un fallimento sostanziale, anche se non totale. Essa lasciò tuttavia un'eredità rilevante: si era imposta una tradizione di azione e cooperazione collettiva; famiglie e collettività erano state improvvisamente intrecciate; i giovani avevano contestato il potere dittatoriale dei vecchi, la campagna quello delle città. Chi ne guadagnò di piú furono i comunisti, che erano stati attivi nella Federterra e che avevano guidato ed educato i mezzadri nel corso della lotta. È a questo periodo che risale il solido supporto elettorale offerto dal centro-Italia rurale al Pci. (cap. 3, p. 145)

Capitolo IV[modifica]

  • Il movimento contadino del 1944-47 e quello del 1949-50 costituirono nondimeno degli straordinari tentativi per spezzare il modello di una società frantumata dalla sfiducia. Individualismo e solidarietà, famiglia e collettività si rapportavano l'un l'altra in una drammatica mescolanza di aspirazioni e delusioni. Fu questo il tentativo piú grande compiuto nel Sud agricolo di collocare la famiglia entro un contesto collettivo. E fu anche l'ultimo. (cap. 4, p. 168)
  • È quindi in questo contesto che la riforma agraria assume il suo pieno significato. All'egemonia ideologica e culturale fornita dalla rete delle parrocchie, la Dc aggiungeva adesso la base materiale su cui fondare il proprio consenso. Alla fiducia comunista in un'azione dal basso come mezzo per modificare in profondità la situazione nelle campagne, la Dc rispose attuando, secondo i propri criteri, una riorganizzazione e un riorientamento dall'alto. La riforma agraria può cosí essere vista come un elemento nella strategia del consenso della Democrazia cristiana, basata sull'uso e l'abuso del potere statale. (cap. 4, p. 187)

Capitolo V[modifica]

  • Nelle campagne meridionali i comunisti avevano cercato di creare un sistema di valori che incoraggiasse le famiglie a unirsi in una battaglia collettiva per un futuro migliore. Nelle città meridionali, per contrasto, la Dc rispose con un appello a valori piú tradizionali e a un sistema che offriva soluzioni individuali all'interno di una rete clientelare. Nel Nord cattolico un'ideologia integralista cercava di legare strettamente la famiglia alle organizzazioni clericali e alla crociata per una società cattolica. Nel Sud il rapporto famiglia-Chiesa-società era di tipo diverso: la famiglia lottava per la propria sopravvivenza; la Chiesa prendeva la forma di un santo protettore (ad esempio san Gennaro); la società, se tutto andava bene, quella di un protettore politico benefico. (cap. 5, p. 244)

Capitolo VII[modifica]

  • Nella storia d'Italia il «miracolo economico» ha significato assai di piú che un aumento improvviso dello sviluppo economico o un miglioramento del livello di vita. Esso rappresentò anche l'occasione per un rimescolamento senza precedenti della popolazione italiana. Centinaia di migliaia di italiani, come la famiglia Antonuzzo, partirono dai luoghi di origine, lasciarono i paesi dove le loro famiglie avevano vissuto per generazioni, abbandonarono il mondo immutabile dell'Italia contadina e iniziarono nuove vite nelle dinamiche città dell'Italia industrializzata. (cap. 7, p. 294)
  • Lo Stato aveva svolto un ruolo importante nello stimolare il rapido sviluppo economico, ma aveva poi fallito nel gestirne le conseguenze sociali. In assenza di pianificazione, di educazione al senso civico, di servizi pubblici essenziali, la singola famiglia, soprattutto quella dei ceti medi, cercò una alternativa nella spesa e nei consumi privati: usando la macchina per andare al lavoro, recandosi dai medici a pagamento, mandando i figli negli asili privati. Il «miracolo» si rivelò cosí un fenomeno squisitamente privato, riaffermando la tendenza storica di ogni famiglia italiana a contare quasi esclusivamente su se stessa per il miglioramento delle proprie condizioni di vita. (cap. 7, p. 326)

Capitolo VIII[modifica]

  • Per molti aspetti si può dire che gli obiettivi del centro-sinistra mai pienamente realizzati a livello nazionale dai promotori di quella esperienza, furono attuati in un contesto locale dai loro oppositori comunisti. Il riformismo umano e moderato di La Malfa, fondato su alleanze interclassiste, su buone relazioni industriali e sulla spesa per i servizi sociali, trovò la sua patria nella rossa Bologna. (cap. 8, p. 402)

Capitolo X[modifica]

  • Il progetto di Berlinguer, infine, rimaneva assai vago. Per tutti questi anni egli insisté sul contributo unico che la «terza via» del Pci dava al socialismo, una via che non intendeva seguire né il modello socialdemocratico né quello sovietico. [...] Nei suoi discorsi ci sono sí richiami alla necessità di introdurre «alcuni elementi dell'ideale socialista», ma non sono mai accompagnati da un'elaborazione teorica. [...] Il compromesso storico, cosí, anche se testimonia la «tensione etica rara» della direzione di Berlinguer, non portò alcun contributo alla differenziazione tra riforme di struttura e riforme correttive. Proprio qui risiedeva una delle sue piú grandi debolezze. (cap. 10, p. 482)
  • Sia per Lombardi nei primi anni '60, che per Berlinguer alla metà degli anni '70, l'alleanza con la Dc non veniva dunque considerata come un semplice strumento per delle riforme correttive, bensí un trampolino per profonde trasformazioni strutturali. (cap. 10, p. 511)
  • Nei trent'anni di vita della Repubblica gli attivisti del Pci erano sempre stati presi di mira dalle misure repressive della polizia; dal 1976 in poi, invece, il partito divenne il piú zelante difensore delle tradizionali misure di legge e di ordine, anziché farsi campione delle campagne per i diritti civili. Un esempio emblematico di tale atteggiamento fu l'appoggio acritico dato al governo per il rinnovo della legge Reale sull'ordine pubblico, contro la quale il Pci aveva votato nel 1975. Sui temi cruciali che riguardavano i giovani politicizzati – il diritto a manifestare, i poteri della polizia, la detenzione preventiva, la riforma carceraria – i comunisti mantennero un silenzio che non lasciava presagire niente di buono. [...]
    Qualsiasi opposizione al compromesso storico veniva spesso qualificata semplicemente come atteggiamento deviante. [...]
    Si generò un terribile paradosso: i comunisti volevano prevenire l'estendersi della violenza, ma la loro politica creava un terreno piú fertile per i terroristi. (cap. 10, pp. 512 sg.)
  • I brigatisti si erano mostrati risoluti ed efficienti, ma la loro non fu una vittoria. La decisione di uccidere Moro creò gravi dissensi al loro interno, mentre all'esterno si diffuse un profondo sentimenti di ripulsa per quanto avevano fatto. È generalmente riconosciuto che la crisi del terrorismo italiano prese l'avvio dall'uccisione di Moro. A posteriori sembra quindi corretto riconoscere che avevano ragione i paladini dell'intransigenza: se Moro fosse stato scambiato con uno o piú terroristi in prigione, le Brigate Rosse sarebbero apparse allo stesso tempo invulnerabili e propense al compromesso, col risultato che il loro fascino sarebbe quasi certamente cresciuto. [...] Dopo la morte di Moro la democrazia italiana non solo si difese ma si rafforzò. (cap. 10, pp. 519 sg.)
  • La conseguenza piú grave della linea dell'Eur fu la crescente delusione tra la base della Cgil, il diminuito impegno della classe operaia, e il conseguente indebolimento sia del Pci sia del sindacato nelle trattative con i loro alleati-oppositori. Ancora una volta, come nel 1945-47, il Pci fu incapace e riluttante a usare il considerevole peso della mobilitazione di massa per costringere la Dc a fare concessioni effettive, e accettò la logica capitalista di salvare l'economia senza una strategia economica alternativa. (sui tentativi di riforma del 1977; cap. 10, 8b; p. 524)
  • Infine, per concludere con una nota positiva, l'assassinio di Aldo Moro e tutti gli altri compiuti per mano dei terroristi se non «rifondarono» la Repubblica certo non avvennero invano. Gli «anni di piombo» produssero un mutamento profondo nell'atteggiamento di un'intera generazione verso la violenza. Man mano che si susseguivano gli omicidi, i fautori della violenza «rivoluzionaria», parte così interna all'esperienza del '68, rimasero isolati tra gli stessi giovani. Alla fine del decennio i problemi più gravi della Repubblica non erano stati risolti, ma si era abbandonata l'idea di risolverli con la forza. (cap. 10, 10; p. 540)

Capitolo XI[modifica]

  • In una recente intervista il vicepresidente del Consiglio, il socialista Gianni De Michelis, ha parlato del 1968 come del «crepuscolo degli dèi», dell'ultimo grande momento collettivo della storia italiana, della fine di ogni sogno di nuova era. Sidney Tarrow ha sostenuto che la «transizione al capitalismo maturo» ha dato luogo alla «definitiva assimilazione della classe operaia». Entrambi i giudizi sembrano essere prematuri. Non c'è ragione di credere che la forte tradizione di azione collettiva nella recente, e meno recente, storia d'Italia sia morta improvvisamente. Né vi può essere molto fondamento nell'idea che il consumismo capitalista abbia risolto «l'enigma della storia». Come ha detto Hirschman, il consumismo ha probabilmente il suo bagaglio di disillusioni in serbo per ognuno di noi. Resta da vedere, dunque, se i valori degli anni '80 saranno duraturi, o se visioni alternative potranno ancora avere un ruolo piú che minimo nella storia della Repubblica italiana. (cap. 11, 3; p. 576)

Note[modifica]

  1. Cfr. E. Banfield, The moral Basis of a Backward Society, Glencoe (ID.) 1958, p. 10 (trad. it. Le basi morali di una società arretrata, a cura di D. De Masi, Bologna, 1976).

Bibliografia[modifica]

  • Paul Ginsborg, La democrazia che non c'è, traduzione di Emilia Benghi, Einaudi, 2006. ISBN 8806185403
  • Paul Ginsborg, Storia d'Italia dal dopoguerra a oggi, traduzione di Marcello Flores e Sandro Perini, Einaudi, 1989. ISBN 8806160548

Altri progetti[modifica]